Oggi Boris Pahor, lo scrittore sloveno ormai autore di una trentina di libri, scritti in sloveno e tradotti in dieci lingue, più volte candidato al Nobel, compie 100 anni. Questo ragazzo di inizio ‘900 ha visto trascorrere un intero secolo, ha conosciuto l’orrore del campo di concentramento (che ha raccontato nel bellissimo Necropoli) e alla sua età prende ancora l’aereo da solo per andare a tenere conferenze in giro per l’Europa. Questo è il breve intervento, scritto dallo stesso Pahor, e pubblicato ieri sulla prima pagina dell’inserto domenicale del Sole 24 Ore:
Non succede quasi mai che mi occupi di poesie. Sono rimasto alle liriche di Leopardi, Ungaretti e Saba, che mi è vicino per ragioni territoriali. Quando qualcuno mi manda una sua raccolta di versi con una rispettosa dedica, ringraziando non so come confessare che nonostante la mia buona volontà con ce la faccio a comprendere il nesso tra le belle espressioni e le ricercate forme verbali. Invece la pubblicazione di Claudio Trusgnach, figlio di un minatore emigrato in Belgio, Ja zaries, puobicv, takuo je bluo an dan, in italiano Sì, davvero, bambino, così era un tempo, è un’altra cosa ed è come un dono che arriva alla vigilia di un anniversario speciale: domani infatti compio cent’anni. Il libro è di forma quadrata, di color verde, di settanta pagine, di cui una decina dedicate alla miniera, alle Valli del Natisone, una valle in Friuli Venezia Giulia, popolata per lo più da sloveni, e soprattutto ai minatori con le lampadine sul casco. È trilingue, in dialetto sloveno locale, in italiano e in francese, quindi la lingua dell’identità, quello della cittadinanza e quella dell’emigrazione. Per un minatore non c’è male. Il male è concentrato invece nell’idioma di mezzo, quella della cittadinanza, che in modo autoritario ha fatto di tutto e più di tutto per distruggere la lingua materna, cominciando subito appena Venezia e il territorio veneziano venne a far parte nel 1866 del Regno d’Italia. Fu una snazionalizzazione forzata, che ha prosciugato la vita nei paesi che piano piano si sono svuotati.
Il libro – pubblicato lo scorso luglio da «Slovenci po svetu», l’«Unione Emigranti Sloveni del Friuli Venezia Giulia» di Cividale –ha un’introduzione piuttosto estesa, necessaria per spiegare questi fatti purtroppo poco conosciuti. Per fortuna grazie alla legge 482 del 1999, rafforzata dalla legge 38 del 2001, anche lo sloveno è stato inserito tra le dodici minoranze linguistiche riconosciute meritevoli di tutela in Italia. Così è diventata statale una scuola privata bilingue a San Pietro del Natisone, in provincia di Udine, a pochi chilometri dal confine. Al tempo della Repubblica di Venezia questa cittadina si chiamava San Pietro degli Slavi e lo stesso Mussolini in Il mio diario di guerra 1915-1917, racconta di essersi trovato nel 1916 in un paese dove si parlava il dialetto sloveno e copiò da un altarino la scritta slovena «Nessuno è mai rimasto inascoltato se si è rivolto alla Madonna». Quindi c’è una frase slovena perfino in un libro scritto dal futuro Duce, che in seguito decise di eliminare con un vero genocidio culturale l’identità di mezzo milione di sloveni e croati della Venezia Giulia.
Nella lirica di Trusgnach non c’è nulla di questo passato, ma molta sofferenza, dovuta anche alla povertà che costrinse diversi valligiani a emigrare in Belgio e a divenire minatori. La grande paura degli antri sotterranei e costante nostalgia del paese natio è figlia anche di questa storia.
«Nello scuro pozzo del mio paese / l’acqua liquida, nascosta / sorride nel vedere / il mio viso / nel blu del cielo. // Amici miei, / qui il pozzo della miniera / è così grande e profondo / che tutti in esso / ci perdiamo. // Lui / inghiotte nel suo stomaco / uomini forti e sani / e poi / vomita / con mucchi di carbone doloroso / il sudore / il sangue / di esseri / per sempre / stanchi e ammalati».
Questa è una delle tante poesie, ma basterebbe di ognuna citarne una strofa, per esempio questa:
«Ci hanno contati, / poi hanno chiuso la gabbia / e l’hanno buttata / nel buco più profondo. // Ho pensato / che fosse senza fondo».
C’è anche la foto di quel saliscendi a quattro piani con gli uomini seduti tristi dietro le grate, ma non devo pensarci, non devo immaginare di essere con loro mentre il gabbione si sta calando. Capisco però, lo sento in un’altra poesia in cui la miniera è una «belva nera» e poi in un’altra, un’altra ancora alla mamma: «Quante volte ho riso di te / vedendoti pregare, / ma adesso, / mamma mia, / ti chiedo, / ti supplico / prega per me. // Che la morte non mi porti via, / sono ancora così giovane». Ecco, uno scorcio di storia degli sloveni più disgraziati perché la montagna li separa dagli altri.
Il garibaldino Carlo Podrecca, avvocato cividalese, figlio di questa terra e autore di un’opera storico-informativa, Slavia Italiana (Cividale 1884, ristampa anastatica San Pietro al Natisone – Trieste 1978), sperò alla fine dell’Ottocento che i suoi sloveni marginali, che parlavano un dialetto, un dì potessero imparare lo sloveno letterario e che la regione diventasse un ponte che collegava l’Italia al futuro Stato slavo dell’Adriatico. Invece i suoi villaggi mezzi vuoti vengono visitati dagli emigranti nostalgici, tra i quali Claudio Trusgnach (in sloveno sarebbe Klavdij Trušnjak’), felice al pensiero che il suo nome non sarà dimenticato. E se lo merita.