Quando Liverpool era il porto degli schiavi

Avvenire, 25 novembre 2022

È stupefacente apprendere fino a che punto la ricchezza dell’Inghilterra georgiana e vittoriana derivasse dal commercio degli schiavi. William Ewart Gladstone, più volte primo ministro britannico nella seconda metà del XIX secolo, fece di tutto per ostacolare la fine della schiavitù nel suo Paese e poi si batté a lungo per garantire un risarcimento ai più ricchi commercianti inglesi di esseri umani. Uno dei principali mercanti di schiavi della Gran Bretagna dell’epoca era suo padre, John Gladstone, un uomo originario di Liverpool che disponeva di immensi possedimenti in Giamaica e nella Guyana britannica e molti anni prima aveva usato la sua enorme fortuna per finanziare l’ascesa politica del figlio. Un giornale locale di quegli anni scrisse che gran parte della sua ricchezza “sgorgava dal sangue degli schiavi neri. Ma non suscitò alcuno scandalo, anche perché molti altri si erano arricchiti allo stesso modo. Quando la legge sull’abolizione della schiavitù venne infine approvata nel 1833, John Gladstone ricevette oltre 93mila sterline come compensazione per la perdita degli oltre 2500 schiavi di sua proprietà. Già a partire dalla metà del Seicento la schiavitù su larga scala era diventata per le società commerciali britanniche un affare talmente redditizio da giustificare qualsiasi dubbio di natura etica – peraltro assai raro a quei tempi. Il monopolio stabilito in un primo momento dalla Royal African Company di Londra fu presto spezzato dai potenti investitori di Liverpool, che in poco tempo trasformarono la principale città portuale dell’Inghilterra occidentale nel cuore della tratta transatlantica, costruendo immensi imperi sulla pelle dei poveri schiavi. Humphrey Morice, direttore della Banca d’Inghilterra tra il 1716 e il 1729, possedeva sei navi per il trasporto degli schiavi e finanziò a piene mani i commerci nelle Indie occidentali. Lo stesso fece il suo successore Richard Neave, che guidò la Bank of England per quasi mezzo secolo. La tratta degli schiavi rese molto ricco anche Thomas Leyland, che nel 1807 fondò la Bank of Leyland and Bullin, un istituto bancario privato che un secolo più tardi sarebbe stato ceduto al colosso Hsbc. Nel XVIII secolo, grazie alla spregiudicatezza e all’abilità dei suoi mercanti e alla presenza di fiumi e canali che facilitarono il trasporto interno delle merci, Liverpool divenne la capitale della tratta europea degli schiavi. Il suo porto era la principale via d’accesso marittimo all’Africa: da lì oltre un milione e mezzo di africani raggiunsero l’Europa a bordo di migliaia di navi, trovando ad attenderli un destino atroce di sofferenza, umiliazioni e morte.
Non è dunque un caso che proprio nella città dei Beatles sia sorto alcuni anni fa il più importante museo del mondo sulla storia della schiavitù, l’International Slavery Museum, situato all’interno del Royal Albert Dock, il quartiere dei vecchi magazzini marittimi dichiarato patrimonio mondiale dall’Unesco alcuni anni fa. A breve il museo sarà oggetto di un ambizioso progetto di rinnovamento. Nel luglio scorso il comitato direttivo dei National Museums of Liverpool ha infatti stanziato un finanziamento di 57 milioni di sterline per dotarlo di un nuovo ingresso e di spazi espositivi ancora più ampi, affidando la progettazione a due dei più importanti studi di architettura del mondo, la Ralph Appelbaum Associates e la Adjaye Associates. Ma già oggi, la mostra permanente dell’International Slavery Museum ripercorre nel dettaglio le singole tappe di quel dramma ed esplora l’impatto duraturo della tratta transatlantica degli schiavi evidenziando le terribili colpe dell’Impero britannico. Con un doveroso sguardo all’attualità e alle forme di schiavitù contemporanee. All’ingresso del museo una serie di pareti riportano potenti citazioni di personaggi storici e attivisti contemporanei. Colpisce in particolare una frase del noto abolizionista statunitense del XIX secolo, Frederick Douglass: “Nessun uomo può mettere una catena alla caviglia del suo simile senza alla fine trovare l’altra estremità fissata al proprio collo”. Un monito che all’epoca fu tristemente inascoltato. Proprio da qui le navi negriere salparono infatti a decine ogni mese, stipate di fucili, polvere da sparo, acquavite e tabacco e sempre qui facevano ritorno cariche di un’umanità disperata, costretta in condizioni atroci per settimane o addirittura mesi, in stive anguste e soffocanti. Molti non fecero in tempo a conoscere il loro destino perché arrivarono già morti (il tasso di mortalità dei viaggi si aggirava intorno al venti percento). Gli altri vennero invece venduti come animali. Per mostrare la ricchezza della civiltà africana prima della devastazione causata dagli europei il museo di Liverpool dedica alcuni spazi alla cultura dell’Africa occidentale, tra i quali spicca una grande scultura denominata Freedom!, divenuta ormai un simbolo del museo. È stata realizzata alcuni anni fa da tre scultori, André Eugene, Jacques Guyodo e Jean Celeur, con materiali provenienti da una delle più povere bidonville della capitale haitiana Port-au-Prince. Oggetti riciclati, parti di automobili, scarti di lavorazioni metalliche ma anche catene e ceppi conferiscono all’opera le fattezze inquietanti di una creatura deforme. Poi, proseguendo lungo una linea temporale cronologica, la mostra ripercorre il ruolo cruciale della città nella tratta degli schiavi e ricostruisce il difficile percorso verso l’abolizione, dai primi atti di resistenza degli schiavi fino ai movimenti abolizionisti organizzati e le organizzazioni per i diritti civili, dall’era post-emancipazione fino ai giorni nostri. Un percorso che fa comprendere molto bene come le idee razziste divennero la giustificazione dell’intervento coloniale e del brutale sfruttamento di interi continenti al prezzo di milioni di vite umane. E anche come la tratta transatlantica degli schiavi abbia cambiato per sempre la storia dell’umanità, lasciando una tragica eredità di razzismo in Europa e di sottosviluppo nel sud del mondo. “L’Europa ha assunto la direzione del mondo con ardore, cinismo e violenza”, scrisse il grande filosofo francese Frantz Fanon nella conclusione del suo libro I dannati della Terra. Oggi è chiamata a un mea culpa attraverso l’esercizio della memoria e l’educazione delle giovani generazioni.

Un pensiero riguardo “Quando Liverpool era il porto degli schiavi”

  1. E’ sempre spiacevole dover contare le vittime, i feriti di conflitti che forse potrebbero venir risolti pacificamente. Ennesimo caso, nel Kerala in questi giorni. Meta di turisti annoiati in cerca di paesaggi e culture “pittoreschi”, questo Stato indiano viene periodicamente attraversato da conflitti sia di natura sociale che di difesa ambientale. In questo caso, oltre che la sopravvivenza dei pescatori del Kerala, sono a rischio anche i fondali marini e le coste minacciate da grandi opere e speculazioni. 

    INDIA: PROTESTE DELLA POPOLAZIONE CONTRO IL PROGETTO FARAONICO DI UN NUOVO PORTO

    Gianni Sartori

    Si sia trattato della reazione popolare alle angherie subite o di una provocazione ben orchestrata (come sembrano ritenere alcuni religiosi di fede cristiana, una minoranza in India, talvolta schierata a fianco di Dalit, adivasi e classi subalterne) sarebbero oltre una trentina i membri della polizia del Kerala rimasti feriti negli ultimi scontri con i pescatori e la popolazione che si oppongono alla costruzione del nuovo porto internazionale di Vizinjam (nello stato del Kerala, sud dell’India). Difficile invece quantificare il numero dei civili rimasti feriti (in quanto non si presentano negli ospedali per farsi curare, oppure non dichiarano le cause delle ferite per timore di essere arrestati).

    Tutto sarebbe iniziato sabato 26 quando veniva bloccato un convoglio di camion che trasportavano grosse pietre indispensabili per la realizzazione del porto. Alcuni camion che avevano comunque tentato di forzare il blocco erano rimasti danneggiati.

    In risposta all’intervento della polizia e agli arresti, domenica 27 i manifestanti avrebbero assaltato una stazione di polizia a Vizinjam

    Con la richiesta di una immediata scarcerazione per gli arrestati di sabato.

    Quello messo in discussione è un mega progetto portuale affidato al gruppo Adani, una nota famiglia di imprenditori (vicina al leader indiano Modi) che ha vinto la concessione del progetto. Con costi previsti che si aggirano sui 900 milioni di dollari. Complessivamente – e in base ai calcoli ufficiali – le attività portuali e logistiche di Adani valgono circa 23 miliardi di dollari. Scopo dell’ambizioso progetto, strappare mercati alla concorrenza di Dubai, Singapore, Sri Lanka…

    Da circa tre mesi, i lavori sono bloccati in quanto con picchetti e blocchi stradali viene impedito alle ruspe e ai camion di accedere al cantiere.

    Le comunità locali (e i pescatori in particolare) temono a ragion veduta che i lavori incrementino ulteriormente l’erosione costiera privandoli della loro principale fonte di vita.

    Da segnalare che si è anche parlato di contrasti tra i manifestanti e gruppi di persone favorevoli al progetto.

    Nel frattempo è stato denunciato (come possibile ispiratore dei disordini del 26 e 27 novembre) perfino l’arcivescovo di Thiruvananthapuram (monsignor Thomas J. Netto). E con lui un intero gruppo di sacerdoti che si erano apertamente schierati con la popolazione.

    Sui fatti del 26 e 27 novembre è intervenuto il vicario generale dell’arcidiocesi (Yujin Pereria) dichiarando che si sarebbe trattato di “una cospirazione del governo e di Adani per vanificare le richieste dei pescatori”. Chiedendo un’inchiesta imparziale e indipendente su quanto era accaduto.

    Già in agosto l’arcidiocesi aveva presentato ricorso contro il tribunale che aveva autorizzato la costruzione del porto in assenza di uno studio sull’impatto ambientale della grande opera.

    Gianni Sartori

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *