Craig Hodges, pioniere dell’antirazzismo nella NBA

Avvenire, 19 dicembre 2020

Il primo ottobre 1991 a Washington è una splendida giornata di sole. I Chicago Bulls, freschi vincitori del campionato Nba, sono ospiti del presidente degli Stati Uniti George Bush nei giardini della Casa Bianca. Ci sono tutti tranne Michael Jordan, già leader di una squadra che si prepara a dominare gli anni ‘90. Ma quel giorno in pochi si accorgono dell’assenza del miglior giocatore delle finali perché un suo compagno di squadra ruba la scena a tutti. In mezzo a dirigenti e giocatori in rigoroso completo scuro e cravatta spicca un uomo vestito di bianco che indossa un dashiki, la tunica tradizionale dell’Africa occidentale. Per fugare ogni equivoco Phil Jackson, allenatore dei Bulls, spiega che il ragazzo in bianco è Craig Hodges, il miglior tiratore della squadra, e lo invita a dar prova delle sue abilità. Al termine dell’esibizione, che lo vede infilare nove tiri consecutivi da tre punti nel canestro della Casa Bianca, Hodges va dal presidente e lo informa di aver consegnato alla sua segreteria una lettera scritta di suo pugno. Era un disperato appello a migliorare le condizioni di vita dei neri.
Alcuni mesi prima, a Los Angeles, quattro poliziotti bianchi avevano pestato brutalmente Rodney King, un nero di 28 anni, innescando proteste e gravissimi disordini in tutto il paese. Non si sa se Bush lesse mai quella lettera ma di sicuro non raccolse il messaggio perché i problemi degli afroamericani non gli portavano consensi. Ad affermarlo, con amarezza, è lo stesso Hodges nella sua autobiografia appena uscita anche in Italia (Io Craig Hodges. Attivista nero e campione NBA, edita da Bradipolibri), un libro in cui è ricostruita la triste parabola sportiva e politica di un precursore del movimento Black Lives Matter che sacrificò la propria carriera di cestista Nba per il suo attivismo politico. Cresciuto a Chicago Heights nei turbolenti anni ‘60, fin da giovanissimo Hodges si era impegnato per i diritti dei neri e degli emarginati. Approdato al basket professionistico aveva iniziato a devolvere una parte dei suoi lauti guadagni ai quartieri neri più poveri cercando di coinvolgere anche i suoi compagni di squadra. Dopo anni con i Milwaukee Bucks e i Phoenix Suns era arrivato infine ai Bulls, affermandosi come uno dei più formidabili tiratori di tutta la Nba. A Chicago si rese conto però che i suoi compagni di squadra non erano disposti a spendere la loro immensa popolarità per aiutare i più deboli. Prima dell’inizio delle finali 1991, sulla scia del clamore suscitato dal caso di Rodney King, Hodges chiese a Jordan e a Magic Johnson, stella dei Lakers dell’epoca, di rinviare la partita per dare un segnale forte contro il razzismo. Ma ricevette un secco rifiuto. L’anno dopo, quando i poliziotti colpevoli del pestaggio vennero assolti e nel mondo del basket non ci fu alcuna mobilitazione, Hodges osò criticare apertamente il suo illustre compagno di squadra per non aver preso posizione sulla vicenda. Fu la fine della sua parabola di cestista: Chicago non gli rinnovò il contratto, nessun agente volle più rappresentarlo e non trovò nessuna altra squadra Nba disposta a proporgli un ingaggio. A soli 32 anni fu costretto a trasferirsi Oltreoceano – giocò prima a Cantù, poi in Turchia – e a fare causa alla Nba, sostenendo di esser stato ostracizzato per le sue idee politiche. Uno dei pochi a non voltargli le spalle fu il suo ex allenatore, Phil Jackson, che nel 2005 gli offrì un posto nello staff dei Lakers, dandogli modo di insegnare i suoi segreti a Kobe Bryant. Ancora oggi Hodges è convinto di essere rimasto vittima di un complotto di Jordan e del suo agente, David Falk. Non ha prove a riguardo ma il fatto di essere stato oscurato del tutto anche da The Last Dance, il recente documentario sui Bulls degli anni ‘90, rappresenta un solido indizio. Nessuno gli restituirà mai quello che ha perso ma se oggi i giocatori di basket denunciano liberamente il razzismo e l’Nba ha scioperato dopo l’omicidio di George Floyd, un po’ di merito è anche suo.

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