Il 17 agosto 1982 i servizi segreti sudafricani eliminano con un micidiale pacco-bomba l’autrice di “Un mondo a parte”, una delle oppositrici più irriducibili del regime dell’apartheid. Il mio articolo uscito sul Manifesto
Missione compiuta. Quella sera di trent’anni fa, i macellai del regime brindarono con un fiume di birra e brandy in un bar di Pretoria, tra risate e pacche sulle spalle, complimentandosi a vicenda per aver inferto un colpo mortale al nemico. La gioia di quegli uomini non lasciava spazio al dubbio, né tantomeno al rimorso, perché all’epoca in Sudafrica erano loro a rappresentare la legge e l’ordine. Combattevano per salvare il paese, per difendere la civiltà liberandolo dai terroristi, dai sovversivi, dai comunisti. O almeno così credevano. Col boccale di birra in mano, Craig Williamson sembrava uno studente universitario fuoricorso, non la superspia che a poco più di trent’anni poteva già vantare una lunga esperienza di operazioni sotto copertura, infiltrazioni di gruppi di sinistra, rapimenti e omicidi. Al suo fianco quella sera, ubriaco di alcol e di felicità, c’era Piet Goosen, il brigadiere che guidava la famigerata Sezione A della polizia politica di Pretoria, quella incaricata delle operazioni coperte all’estero, l’uomo che cinque anni prima aveva interrogato e torturato Steve Biko nella stazione di Port Elizabeth. Era stato proprio lui a dare l’ordine di confezionare il fatale ordigno esploso in pieno giorno all’università di Maputo, in Mozambico.
Qualunque mezzo era lecito
Williamson, Goosen e gli altri erano uomini dello Stato, eppure non avevano avuto nessuno scrupolo a far esondare la spirale d’odio e violenza oltre i confini sudafricani. Qualunque mezzo era considerato lecito per raggiungere i loro sacri obiettivi. Anche far saltare in aria una donna inerme che lottava solo con la forza delle proprie idee. Il piano che aveva portato alla morte di Ruth First era stato concepito nelle stanze della stazione di Vlakplaas, sede delle unità controinsurrezionali segrete del governo di Pretoria. Un esperto di esplosivi era stato incaricato di assemblare la micidiale lettera bomba, seguendo un copione già sperimentato con successo dalla polizia segreta portoghese, che anni prima aveva ucciso in quel modo barbaro e vigliacco il leader della resistenza mozambicana, Eduardo Mondlane.
E pensare che quel giorno di metà agosto del 1982, Ruth era di ottimo umore. Accademici provenienti da ogni parte del mondo avevano raccolto il suo appello radunandosi a Maputo per una conferenza sul Sudafrica finanziata dalle Nazioni Unite. Per una tragica ironia della sorte l’università dove lavorava da qualche anno era intitolata proprio a Mondlane che un giorno, durante il suo esilio in Tanzania, aveva raccolto la posta e si era recato a casa di un amico per aprirla. Qualcuno gli aveva spedito un libro e lui, spinto dalla curiosità, aveva girato la prima pagina azionando a sua insaputa il detonatore dell’ordigno che era nascosto all’interno, rimanendo ucciso sul colpo. L’ufficio di Ruth si trovava al secondo piano del dipartimento di sociologia, e quel fatale pomeriggio la stanza era affollata dal consueto andirivieni di colleghi. L’atmosfera era serena e rilassata. Tutti pregustavano la festa che si sarebbe tenuta quella sera stessa in onore di una collega in partenza. L’apertura della posta è un rituale quotidiano che viene svolto quasi sovrappensiero, magari bevendo un caffè o scambiando quattro chiacchiere con i colleghi. Spesso basta uno sguardo per capire se una lettera o un pacco sono interessanti o possono finire subito nel cestino della carta straccia. La grossa busta di pelle con l’intestazione delle Nazioni Unite che Ruth si trovò tra le mani quel giorno rientrava sicuramente nella prima categoria. Incuriosita, si appoggiò sul davanzale di una delle due finestre affacciate sul cortile e l’aprì. Mai avrebbe pensato che quel semplice gesto avrebbe innescato il circuito che era stato attentamente inserito al suo interno, facendo esplodere una bomba ad alto potenziale. Quello stato terrorista e razzista che aveva cercato di combattere per tutta la sua vita era infine riuscito a tapparle la bocca per sempre, proprio com’era accaduto a Eduardo, tredici anni prima.
Perseguitata, censurata, incarcerata
Finché aveva vissuto in Sudafrica, Ruth First era stata perseguitata, censurata e incarcerata per le sue idee e il suo attivismo politico. Infine era stata costretta a lasciare il paese e a stabilirsi in esilio volontario prima in Inghilterra, poi in Tanzania e in Mozambico. La proficua attività accademica che svolgeva ormai da molti anni era stata il logico approdo di una vita spesa a lottare contro l’apartheid e lo sfruttamento delle popolazioni africane. Nata nel 1925 in una famiglia ebrea di origine lettone, Ruth First portava iscritto nel proprio Dna un patrimonio di valori che arrivava da lontano. Alla fine dell’‘800 i suoi nonni erano sfuggiti alle persecuzioni zariste e si erano stabiliti in Sudafrica mentre i suoi genitori avrebbero svolto un ruolo di primo piano, negli anni ’20, nella nascita del partito comunista sudafricano. Era stato dunque naturale, per lei, prendere le distanze da quella media borghesia bianca che traeva benefici dal regime dell’apartheid. Fin da giovane aveva scelto senza indugi la via più difficile e rischiosa: quella del dissenso e della lotta politica. Da studente di sociologia all’università del Witwatersrand, aveva stretto amicizia con il primo studente africano ammesso in quelle aule, un giovane che si chiamava Nelson Mandela e frequentava i corsi di giurisprudenza. La sua scelta politica e morale contro il razzismo sarebbe diventata impegno concreto dopo lo sciopero dei minatori africani del 1946. Quando vide quella sacrosanta protesta soffocata nel sangue, con i lavoratori esasperati rinchiusi in recinti sotto il controllo dall’esercito e la polizia che dava la caccia ai sindacalisti, entrò nella redazione di Johannesburg del Guardian e iniziò a denunciare dalle sue colonne i soprusi del regime. È un lavoro pericoloso che sottopone lei e i suoi colleghi alle stesse angherie subite dal popolo africano: irruzioni, arresti, trasferimenti forzati, bandi ministeriali, censura. La sua attività di giornalista investigativa si lega a doppio filo con l’attivismo politico all’interno dell’African National Congress, di cui diventa una delle teoriche più stimate. Dopo aver partecipato alla stesura della Carta della Libertà – approvata dal movimento anti-apartheid nel 1955 – viene arrestata e processata insieme a decine di altri militanti con l’accusa di alto tradimento. Ma quando lo Stato decide di annientare una ad una anche le poche residue libertà civili, quando la repressione raggiunge livelli parossistici culminando nella mattanza di Sharpeville del 16 marzo 1960, gli oppositori saranno costretti a scegliere la strada della lotta armata. Suo marito, Joe Slovo, già leader e figura di maggior spicco del partito comunista sudafricano, diventa capo di stato maggiore di Umkhonto we Sizwe, l’ala militare del movimento anti-apartheid, ed entra in clandestinità.
Non solo apartheid e colonialismo
Ruth prosegue la sua attività di giornalista fino al 1963, quando viene arrestata in base alla Legge dei 90 giorni, che consente alla polizia di trattenere i sospettati di reati politici anche in assenza di capi d’accusa. Sarà lei stessa a documentare, con una lucidità disarmante, i mesi trascorsi in isolamento e le torture psicologiche subite in carcere in un bellissimo libro dal titolo Un mondo a parte. Quando torna in libertà, capisce che la via dell’esilio è ormai ineluttabile anche per lei, perché nel frattempo tutti i leader del movimento che non sono scappati sono finiti in carcere o sotto processo. All’inizio del 1964 lascia il Sudafrica per non farvi ritorno mai più. Si stabilisce prima a Londra, poi in Tanzania, a Dar es Salaam e a Maputo, in Mozambico. In Africa si dedica a tempo pieno all’attività di intellettuale impegnata al servizio di un progetto d’emancipazione umana, e si convince sempre più che i popoli oppressi dell’Africa australe non devono liberarsi solo dall’apartheid e dal colonialismo ma anche dalla dipendenza economica, dall’emigrazione forzata, dalla fame. La portata rivoluzionaria delle sue idee rappresenta ancora un pericolo per il regime di Pretoria, che non cessa mai di considerarla un obiettivo da eliminare. “La sua vita e la sua morte – ha detto Mandela nel decimo anniversario dell’attentato che la uccise – restano un faro per tutti quelli che lottano per la libertà”.
Riccardo Michelucci