Srebrenica, memorie contese

Il 15° anniversario della strage di Srebrenica ha visto, per la prima volta, la partecipazione – tra le polemiche – del presidente serbo

La mail arriva il giorno dopo la commemorazione del 15° anniversario dell’eccidio di Srebrenica, avvenuto l’11 luglio 1995, quando circa 8mila persone vennero uccise da militari e paramilitari serbi di Bosnia al comando del generale Ratko Mladic. “Ibran Mustafic è stato fermato dalla polizia che gli ha impedito di entrare nel memoriale di Potocari e che lo ha portato via, rilasciandolo solo un’ora dopo la fine della cerimonia. Era arrivato con la sua vecchia madre, che voleva solo ricordare il figlio perso nel genocidio di Srebrenica, ma gli è stato impedito di manifestare. Voi avete le immagini del comportamento della polizia, diffondetele per favore”. Al mattino, vicino un ingresso secondario, Ibran Mustafic, fondatore del SDA (il partito di Alja Itzebegovic, leader dei musulmani di Bosnia durante e dopo la guerra, morto nel 2003) a Srebrenica è un sopravvissuto all’eccidio. Ha perso un fratello e con la madre è attivo nell’associazione Madri di Srebrenica che si batte per avere giustizia. Il 15° anniversario è anche l’occasione per inumare altre 775 salme ricomposte, dopo il rinvenimento nelle fosse comuni, mentre tanti altri mancano ancora all’appello. Il tempo passa, però, e le cose cambiano. Per la prima volta il presidente serbo, Boris Tadic, ha annunciato la sua presenza oggi a Potocari, il villaggio alle porte di Srebrenica, dove sorge la vecchia fabbrica nel quale venne concentrata la popolazione civile di Srebrenica e dove vennero divisi gli uomini dalle donne e dai bambini. Tadic ha compiuto una scelta coraggiosa, ma che ha diviso le associazioni delle vittime. Alcuni hanno salutato la visita di Tadic come un passo avanti verso la giustizia, altri (come Mustafic) sono furibondi per l’idea che il leader di un governo che ha approvato una risoluzione parlamentare ad aprile 2010 sul massacro di Srebrenica, definendolo ‘crimine’ e non ‘genocidio’, possa parlare e camminare tra le tombe delle vittime. Alla fine il protocollo della cerimonia decide di non decidere: non parlano le associazioni delle vittime e non parla Tadic. Che arriva teso, circondato da guardie del corpo. Il sole picchia sul suo impeccabile aspetto da attore di Hollywood, mentre depone una corona di fiori all’interno del memoriale. Qualcuno fischia al suo arrivo, ma non si può negare l’effetto che fa vederlo là, in mezzo a tutto quel dolore. Alle sue spalle troneggia uno striscione bianco: LA SERBIA HA COMMESSO UN GENOCIDIO. Lui sta là, impassibile, dopo aver ricordato alla stampa che il suo governo farà di tutto per catturare il generale Mladic. La posizione di Tadic diventa quella di tutti gli oratori ufficiali: dal sindaco di Srebrenica al ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner. Quest’ultimo sintetizza forse meglio di tutti la situazione: “Non si deve dimenticare, bisogna punire i colpevoli. Ma se i popoli della regione sapranno parlarsi, tutto andrà per il meglio e potrete entrare nell’Unione Europea a pieno titolo”. Kouchner sventola il premio finale, sotto il naso del presidente bosniaco e dello stesso Tadic. Parla anche il premier turco Racep Erdogan, salutato come un eroe. Occhiali da sole, faccia da duro, voce di tuono. Chiama le vittime ‘martiri’, sottolinea quella sorta di patronato politico che la Turchia ha sull’anima della Bosnia, ma apre al dialogo salutando la presenza di Tadic come un passo nella direzione giusta. La cerimonia finisce, le Donne in Nero piangono silenziose in un angolo, le 775 bare vengono interrate dopo aver aspettato tutta la notte nel vecchio, maledetto, magazzino. Con madri e sorelle che, in alcuni casi, hanno passato al notte accanto al feretro. Migliaia di persone si accalcano nel memoriale, pregano ovunegue, le une sulle altre. A cento metri punti di ristoro vendono milioni di bottiglie d’acqua, sotto gli occhi dei poliziotti serbi che tutelano l’ordine pubblico. Siamo nella Repubblica Srpska, l’entità generata dagli Accordi di Dayton del 1995 che posero fine alla guerra ma non all’odio. Non sarà facile fare di Srebrenica un punto di partenza, per una nuova stagione di dialogo tra serbi e musulmani. Le vittime sono anche elementi della dialettica politica, non solo a Srebrenica. Il giorno dopo, a pochi minuti di macchina, parte l’altra storia. Il 12 luglio è il giorno di Petrovdan, che campeggia su alcune t-shirt, ricordo di un massacro compiuto dalle forze musulmane su militari e civili serbi. Un pullman accoglie i primi manifestanti a metà mattinata. Srebrenica è ancora attraversata da alcuni del manifestanti del giorno prima. L’autobus parte per il tour della memoria serba, che non è condivisa. Ognuno ha i suoi simboli, ognuno ha i suoi morti. Direzione Bratunac, ma prima si fa sosta su luoghi della memoria. Una vecchia fabbrica, dove vennero uccisi minatori serbi, una stele in campagna, dove si è combattuto e ucciso, un cimitero dove una lapide ricorda i militari deceduti. Infine il cimitero di Bratunac: due file di manifestanti serbi tengono due striscioni. “La Serbia non è genocida”, recita il primo. “La Serbia non è Tadic”, recita il secondo. Aleggia lo spettro del massacro dei civili serbi di Kravica, avvenuto la notte del 7 gennaio 1993, per mano delle milizie musulmane del comandante Oric, aleggia come un fantasma. La formula “Srebrenica, vendetta per Kravica”, ricorre tra gli animi più aggressivi, scaldati dall’alcool. “Quando tornerà il dottor Seselj dall’Aia saprà tenere alto l’onore della Serbia”, ringhia un membro del partito radicale venuto appositamente da Belgrado. Una donna piange sulla tomba del figlio. Ragazzi giovani, troppo giovani. Intagliati in lapidi di marmo nero, in divisa. Il dolore c’è, offeso dall’idea che nessuno lo riconosca. “Esiste una grande frustrazione tra i serbi, che non vedono riconosciute alle proprie vittime una pari dignità. Si tratta di una catena storica di dolore, dai secoli passati ad oggi”. Così, in un discorso unico vengono ricomprese le sofferenze del popolo serbo dal fronte di Solone della prima guerra mondiale ad oggi, passando per i massacri compiuti sulla popolazione serba nel 1941-45. La cerimonia ha lo stesso protocollo di quella di Srebrenica. Vengono deposte corone di fiori, tutto attorno i parenti delle vittime mangiano sulle tombe secondo l’usanza serba e chiacchierano tra di loro. Non mancano personaggi vestiti da cetnico, la divisa degli ultranazionalisti serbi. La politica ha fiuto e vuole impossessarsi di questo dolore. In piazza, a Bratunac, c’è un palco. Parla Milorad Dodik, il premier della Repubblica Srpska. “Io sono d’accordo con voi. La Serbia non è un paese genocida” e scoppia un applauso. Dodik attacca ancora una volta la comunità internazionale, per il trattamento differenziato che offre alle vittime a seconda della nazionalità e ne approfitta per sottolineare l’invalicabilità degli accordi di Dayton e delle prerogative della Repubblica Serba di Bosnia, per la quale tanto sangue sarebbe stato versato durante la guerra. Ognuno ha le sue vittime, ognuno ha il suo dolore. Ognuno ha il suo politico che cerca di trarre vantaggio da entrambi.

(da Peacereporter.it)

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