La nuova Samarcanda nasce nel deserto

Il venerdì di Repubblica, 30 dicembre 2022

Per secoli fu la leggendaria città di Tamerlano, crocevia commerciale di uno dei più grandi imperi dell’antichità. Poi, per volere di Stalin, divenne la capitale della repubblica socialista sovietica dell’Uzbekistan. Adesso Samarcanda sta per diventare – più prosaicamente – la città di Shavkat Mirziyoyev, il presidente che vuole passare alla storia come il Gorbaciov uzbeko. Confermato al potere un anno fa da un plebiscito elettorale, Mirziyoyev è deciso a trasformarla nel centro delle rotte turistiche della nuova Via della seta, un investimento da miliardi di dollari in gran parte cinesi. È stato lui a volere fortemente la riapertura del Paese al turismo dopo anni di isolamento politico ed economico imposti dal suo predecessore Islom Karimov, abolendo i visti e rilanciando la città dopo la lunga parentesi post-sovietica. Fino al 2019 qui arrivava meno di mezzo milione di visitatori l’anno, in gran parte russi, ma l’amministrazione cittadina si prepara ad accoglierne due milioni da tutto il mondo già a partire dal 2023, quando la città ospiterà anche il summit dell’Unwto, l’organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite. Nella primavera scorsa è stato ultimato anche l’allargamento dell’aeroporto con il potenziamento delle rotte asiatiche, europee e statunitensi.


L’accelerazione decisiva, però, è coincisa con la pandemia quando, mentre tutto il mondo si fermava, alla periferia orientale della città proseguivano senza sosta i lavori per realizzare la “nuova” Samarcanda, un complesso turistico di lusso di quasi trecento ettari. Per raggiungerlo è necessario lasciarsi alle spalle lo splendore della città vecchia, con le grandi moschee dalle cupole color turchese e le famose scuole coraniche ricoperte di mosaici. Poco più di un quarto d’ora di auto e si raggiunge un’immensa spianata circondata dalle montagne. Si chiama “Silk Road Samarkand” e ha ventimila alberelli appena piantumati che di notte si illuminano con luci a spirale e una serie di costruzioni moderne affacciate sui due lati del Grebnoy canal, un corso d’acqua artificiale che in epoca sovietica veniva usato per gli allenamenti della nazionale di canottaggio. Intorno al canale sono sorti otto nuovi alberghi (quattro di lusso, gli altri specializzati in servizi sanitari e termali), aree commerciali e una gigantesca sala congressi che nel settembre scorso ha ospitato il summit dell’organizzazione per la cooperazione di Shanghai, ovvero quei Paesi che si riconoscono sempre meno nei valori occidentali. C’erano tutti: da Putin a Xi Jinping, da Erdogan a Modi, da Khatami ai leader dei paesi turcofoni dell’Asia centrale, con Mirziyoyev che faceva gli onori di casa. Una responsabile del complesso ci accompagna a visitare le strutture alberghiere, uno splendore di marmi e arredi italiani. Si ferma in uno dei piani più alti dell’hotel Samarkand Regency Amir Temur per mostrarci la suite presidenziale che nel settembre scorso ha ospitato Putin. Quando le chiediamo quanto costa, lei ci spiega che non è in vendita ma è destinata soltanto a leader politici e capi di stato. Xi Jinping soggiornava nell’adiacente Silk Road hotel, il primo albergo aperto dalla catena cinese Minyoun al di fuori della Cina.
La vista dal ventesimo piano dà l’illusione di trovarsi in un altro mondo. Fino a qualche mese fa nell’area a pieno ritmo lavoravano oltre quindicimila operai, circa un terzo dei quali continuano a vivere nel cantiere e sono ancora impegnati nella realizzazione di campi sportivi, piste ciclabili, piscine, ristoranti e nuovi centri commerciali. Molti di loro sono scappati dalla Russia negli ultimi mesi. Mirziyoyev si affaccia spesso per verificare di persona l’avanzamento dei lavori, sebbene la sua residenza presidenziale si trovi a oltre 300 chilometri da qui, nella capitale Tashkent. L’intero complesso, costato oltre 580 milioni di dollari, è di proprietà esclusiva di un uomo molto vicino al presidente, il magnate uzbeko Bakhtiyor Fazilov, fondatore e maggiore azionista di Eriell group, una società che si occupa di estrazione di petrolio e gas.

Sull’altro versante del canale fa capolino una curiosa cittadella dal nome tanto evocativo quanto velleitario di “Eternal City”. È un centro turistico di diciotto ettari di superficie, interamente pedonale, che riproduce in scala ridotta una città medievale della Via della Seta. L’ingresso riprende i motivi tradizionali dei maestosi archi del Registan, la piazza principale dell’antica Samarcanda con le tre famose scuole coraniche. All’interno una cinquantina di edifici con bancarelle, ristoranti e negozi di artigiani in costumi tradizionali. Ormai è quasi completata, mancano soltanto le rifiniture dei palazzi esterni dove ancora si vede qualche gru e operaio al lavoro. Anch’essa fortemente voluta da Mirziyoyev, che l’ha seguita passo passo nella sua gestazione, “Eternal City” è già diventata una grande attrazione per la gente del luogo, almeno a giudicare dai visitatori che incontriamo durante la nostra visita. “È molto più bella di Madinat Jumeirah, il resort di Dubai che riproduce un tradizionale villaggio arabo”, garantisce Roland Obermeier, direttore generale tedesco di Silk Road Samarkand. “Ma in realtà non vogliamo replicare il modello turistico di Dubai e puntiamo a una crescita più organica e sensata, considerando che qui c’è una storia millenaria”. È tuttavia difficile pensare che i visitatori occidentali vengano qui e non preferiscano invece andare a vedere quel che resta della Samarcanda originale, a pochi minuti d’auto da qui. Anche perché, nonostante l’impatto dirompente delle politiche sovietiche, gli antichi mahalla (quartieri) della città vecchia conservano intatto il loro fascino. In anni recenti Samarcanda è stata restaurata e ripulita dal governo uzbeko proprio nella speranza di attirare il turismo. Molti dei monumenti principali sono stati interamente ricostruiti, a cominciare dal leggendario Gur-e-Amir, il mausoleo di Tamerlano. L’identità nazionale post-sovietica del Paese ruota attorno alla figura dell’antico condottiero mongolo ma anche a quella di Islom Karimov, il presidente-dittatore che traghettò l’allora neonata repubblica nella transizione dopo il crollo dell’Urss, con una strategia basata sull’equidistanza tra Oriente e Occidente e sulla lotta al terrorismo islamico. Originario di Samarcanda, Karimov ha governato il Paese per venticinque anni (fino alla sua morte nel 2016) usando il pugno di ferro e reprimendo il dissenso con brutalità. Ciononostante, continua a essere venerato da molti uzbeki e la sua immagine spunta spesso dalle bancarelle come se fosse un santino da venerare. Ai margini della città vecchia c’è persino un pellegrinaggio continuo di persone che ogni giorno affollano il mausoleo eretto in suo onore e vanno a pregare o a farsi fotografare davanti alla sua tomba. Un culto dell’ex leader che sfocia nella devozione e spiega anche perché l’attuale presidente Mirziyoyev abbia deciso di puntare proprio su Samarcanda, città natale del suo predecessore, per dare un nuovo volto al Paese attraverso il turismo. La strada del rinnovamento, però, appare ancora lunga. Secondo gli osservatori internazionali ci sono stati progressi politici significativi negli ultimi anni ma l’Uzbekistan resta ancora uno stato autoritario in cui i partiti di opposizione sono illegali. E l’ultimo dossier sulla libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere lo colloca al 133° posto su 180 paesi.

Un pensiero riguardo “La nuova Samarcanda nasce nel deserto”

  1. Le scorie elettroniche a base di mercurio, piombo, cadmio, arsenico, fosforo…
    rischiano di trasformare l’Africa in una immensa discarica.Smantellata in Spagna una rete criminale che trasportava tonnellate di scorie elettroniche pericolose. Prima alle Canarie e poi sul continente.

    QUANDO UNA TELEFONATA NON SALVA UNA VITA…

    Gianni Sartori

    Mai posseduto uno di quelli arnesi infernali che di volta in volta vengono chiamati “telefono portatile”, “cellulare”, “smartphone”…o Dio sa cos’altro.

    Per cui mi sento legittimato, almeno in parte, a (ri)sollevare la polemica sulle quantità industriali di telefoni cellulari che vanno a inquinare il pianeta in generale e l’Africa in particolare. Un Continente già pesantemente penalizzato in fase estrattiva (vedi per es. il cobalto, il litio…vedi quanto avviene nel Nord-Est della Repubblica democratica del Congo…ne riparleremo)*.

    Come ha recentemente ricordato Damien Ghez, giornalista e disegnatore originario del Burkina Faso “le scorie elettroniche contengono mercurio, piombo, cadmio, arsenico e fosforo”. Sostanze nocive, inquinanti che richiederebbero quantomeno “un processo di decontaminazione da parte di imprese specializzate”. Ma questo evidentemente non rientra nei piani (e nei profitti) delle società occidentali che spesso “agiscono in disprezzo delle leggi e dell’impatto ambientale”.

    Impatto in larga parte scaricato su quei Paesi del (cosiddetto) Sud del Mondo, ridotti al rango di immensa discarica planetaria.

    L’occasione per l’intervento del giornalista africano è venuta da un comunicato del Ministero delle finanze spagnolo. Il 3 gennaio è stato annunciato lo smantellamento operato dalla Guardia Civil di una organizzazione criminale che in soli due anni aveva esportato in Africa circa cinquemila tonnellate di “scorie elettroniche pericolose” (in gran parte costituite da cellulari obsoleti). Guadagnandoci sopra qualcosa come un milione di euro e mezzo. Falsificando i documenti sulla provenienza e sul trattamento (in genere presentandoli come “articoli di seconda mano riutilizzabili”) in un primo tempo i carichi tossici venivano spediti alle Canarie. Da qui, per la precisione da Tenerife, proseguivano via mare verso la Mauritania, il Ghana, la Nigeria o il Senegal.

    Non è una novità naturalmente. Il caso della Probo Koala che trasportava sostanze tossiche con destinazione Abidjan risale al 2006. Ma forse non ne abbiamo tratto le doverose conclusioni a livello di “principio di precauzione”.

    Tanto è vero che periodicamente viene riproposta  la tesi ottomistica per cui le migliaia di tonnellate di televisori, telefoni e strumenti elettronici spediti in discarica, in realtà rappresenterebbero una risorsa, “una ricca fonte di metalli”. E che “l’estrazione delle scorie elettroniche costituisce in sé stessa un buon affare”. In particolare per l’oro e il rame, secondo vari studi. In questo genere di riciclaggio la Cina sarebbe all’avanguardia (per lo meno a livello di sperimentazione), seguita da Stati Uniti, Unione Europea, Australia e Giappone. Oltretutto, in quanto automatizzabile, richiederebbe molto meno mano d’opera rispetto all’attività mineraria tradizionale.

    Sarà, ma quello a cui si assiste è – per dirne una – la commercializzazione ogni anno di nuovi modelli di smartphones sempre più “performanti”. Nella totale indifferenza (“sconnessione” ?) da parte degli entusiasti consumatori seriali per la relazione tra l’acquisto del feticcio e le conseguenze ambientali e sociali così innescate.

    Come ricordavano gli Amici della Terra “perfettamente e completamente inseriti nei processi economici della mondializzazione, gli smartphones compiono quattro volte il giro del mondo prima di arrivare nei nostri magazzini e nei negozi”. Calcolando l’estrazione delle materie prime, la fabbricazione dei componenti, l’assemblaggio e la distribuzione.

    Ed è ormai risaputo che in ogni fase della loro esistenza (dall’estrazione alla dismissione) tali aggeggi sono causa di gravi danni ambientali in ogni parte del pianeta.

    Elencando alla rinfusa “violazioni dei diritti umani, esaurimento di risorse non rinnovabili, sostanze tossiche rilasciate nella biosfera, emissione di gas con conseguente effetto serra…

    Abbiamo a che fare con una minaccia incombente, uno stillicidio nei confronti dell’ambiente, della biodiversità e dell’umanità. Se la maggior responsabilità ricade ovviamente sul “Nord” del mondo, non per questo – ci avvisa Damien Ghez – possiamo evitare di identificare i complici nativi che accettano di ricevere e smaltire in maniera pericolosa quelle mercanzie mortifere.

    Gianni Sartori

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