Linda Brown, una breccia nel segregazionismo

Avvenire, 28.3.2018

“Linda Brown non sei sola”: così si intitola un bellissimo libro per ragazzi uscito alcuni anni fa, che raccoglie poesie, riflessioni e racconti in versi di una delle più grandi scrittrici statunitensi del Novecento, Joyce Carol Oates. È un tributo a quella bambina afroamericana con lo sguardo fiero incorniciato dai capelli raccolti, che uscì da scuola scortata dagli agenti federali diventando uno dei simboli più potenti contro la discriminazione dei neri d’America. Linda Brown aveva nove anni e faceva la terza elementare – proprio come mia figlia – quando dette il via alla rivoluzione. Prima che Rosa Parks salisse sul suo famoso autobus, prima che Martin Luther King iniziasse la sua campagna di disobbedienza civile, questa bimba residente a Topeka, in Texas, innescò il processo che avrebbe abbattuto il muro della segregazione razziale negli Stati Uniti. Era il 1951. Linda si era vista rifiutare l’iscrizione alla Sumner School, un istituto scolastico vicino a casa sua, frequentato da soli bianchi. All’epoca la legge del Kansas autorizzava le città con più di quindicimila abitanti a creare scuole separate e a Topeka questa disposizione era stata applicata proprio nelle scuole elementari. Molti anni dopo, nel 1987, Linda avrebbe raccontato quel giorno in un’intervista al Miami Herald: “era una bella giornata di sole e mi incamminai con mio padre per andare a scuola. Diversamente dal solito non prendemmo l’autobus verso la scuola elementare di Monroe, che era lontana da casa, ma ci dirigemmo alla più vicina Sumner School, dove andavano alcune mie amiche bianche del quartiere. All’ingresso ci bloccarono con le mani e le braccia sul petto, papà si mise a parlare con il direttore, alzarono entrambi la voce. Infine fummo costretti a tornare a casa”. Oliver Brown, il padre di Linda, citò in giudizio l’autorità scolastica iniziando una lunga battaglia legale alla quale si aggiunsero poi altre quattro famiglie. Tre anni dopo la causa arrivò infine alla Corte Suprema e il 17 maggio 1954 il giudice Earl Warren lesse la decisione del tribunale, raggiunta all’unanimità: “Può la segregazione degli alunni nella scuola pubblica, accordata per esclusiva base razziale, deprivare i bambini dei gruppi minoritari di eguali opportunità di istruzione? Noi crediamo di sì… Concludiamo quindi che nel campo dell’istruzione la dottrina del ‘separato ma eguale’ non debba avere nessuno spazio”. Era un verdetto storico che rappresentava una vittoria per la famiglia Brown ma soprattutto segnava uno spartiacque epocale per gli Stati Uniti, poiché da lì iniziò lo smantellamento della segregazione nelle scuole e in altre sfere della vita quotidiana. La giurisprudenza prodotta da quel caso ribaltò una volta per tutte un’altra storica sentenza, quella del processo “Plessy contro Ferguson”, con la quale nel 1896 la stessa Corte Suprema aveva introdotto la dottrina ‘separati ma uguali’, legittimando la segregazione razziale, legalizzando l’apartheid nelle scuole ma anche negli autobus e nei luoghi pubblici. Il percorso verso il cambiamento sarebbe stato ancora lungo e difficile. Ogni singolo stato fece ricorso, alcuni arrivarono persino a disobbedire alle ingiunzioni della Corte Suprema, rifiutando l’accesso agli studenti di colore. Nel 1957 il presidente Eisenhower fu costretto a inviare le truppe federali per scortare i ragazzi in una scuola media di Little Rock, in Arkansas. Alcuni anni dopo il governatore dell’Alabama, George Wallace, andò a picchettare di persona l’università per impedire l’ingresso agli studenti neri. Ma il seme di un diffuso cambiamento di sensibilità era stato gettato, anche se sarebbero stati necessari altri decenni di sofferenze e di lotte per vederlo germogliare.
Quando fu pronunciata la sentenza nel 1954, Linda Brown frequentava ormai la scuola media in un istituto misto. Più tardi si sarebbe iscritta all’università e avrebbe messo su famiglia, iniziando a lavorare come consulente nel settore educativo. Per il resto della sua vita ha continuato a impegnarsi in prima persona contro l’intolleranza e le discriminazioni razziali. Nel 1979, insieme all’American Civil Liberties Union, riaprì persino il caso che aveva segnato la sua infanzia, sostenendo che il lavoro sull’integrazione non era stato completato e che la battaglia contro la segregazione non era ancora finita. Vinse anche in quell’occasione, riuscendo a far costruire tre nuovi edifici scolastici. Domenica scorsa è morta nella sua casa di Topeka, all’età di 76 anni. Se gli Stati Uniti sono diventati un paese migliore è anche merito suo.
RM

La schiavitù americana delle armi

Avvenire, 3.1.2018

Per oltre due secoli gli Stati Uniti si sono divisi sul significato del Secondo Emendamento, che recita: “essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, non potrà essere infranto il diritto dei cittadini di detenere e portare armi”. Un dibattito incessante ha coinvolto giuristi, politici, attivisti per i diritti umani e si è acceso periodicamente di fronte alla recrudescenza dei fatti di cronaca. Negli anni numerose leggi federali hanno poi cercato di regolare la controversa libertà al possesso delle armi garantita dalla Costituzione. Per alcuni, soprattutto per chi vorrebbe limitarne la diffusione, il Secondo emendamento non sancirebbe il diritto dei singoli individui ad armarsi, e la difesa della popolazione competerebbe soltanto alla polizia e all’esercito. Una tesi, questa, che nel 2008 è stata definitivamente smentita da una famosa sentenza della Corte Suprema, secondo la quale i cittadini hanno il diritto di possedere armi “al di là della loro appartenenza a una milizia”. Il primo ottobre scorso, a Las Vegas, c’è stata la più grave sparatoria della storia moderna degli Stati Uniti, con una sessantina di persone uccise durante un concerto, ma nonostante le sempre più frequenti stragi di massa, la maggioranza degli americani – stando ai sondaggi – non appare disposta a rinunciare a questo diritto sancito dalla Costituzione. “I massacri indiscriminati – spiega la studiosa americana Roxanne Dunbar-Ortiz – rappresentano soltanto la tragica punta dell’iceberg di un’emergenza che ogni anno vede circa 37mila persone uccise con armi da fuoco, un numero di morti superiore a quello registrato negli incidenti stradali”. Storica di spicco, vincitrice dell’American Book Award nel 2015, Dunbar-Ortiz ha ricostruito nel suo nuovo libro, Loaded. A Disarming History of the Second Amendment, le origini della cultura militarista degli Stati Uniti individuando un filo conduttore che lega i primi insediamenti bianchi del Nord America all’odierna proliferazione delle armi.
Il Secondo emendamento fu redatto da James Madison, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, e approvato dal parlamento nel 1789, principalmente come strumento di difesa dagli indiani. Il suo obiettivo preciso, sostiene la studiosa, era quello di garantire il diritto individuale dei coloni bianchi all’appropriazione delle terre dei nativi, per derubarli e poi ridurli in schiavitù. “Per secoli la cultura militarista e la violenza rivolta contro le popolazioni indigene sono stati aspetti centrali del colonialismo europeo e hanno trovato nel territorio americano la loro espressione più duratura, sotto forma di milizie armate e di singoli cittadini, divenendo col tempo un fenomeno quasi religioso”. La stessa logica sarebbe stata estesa poi contro chiunque avesse provato a ostacolare la dottrina del “destino manifesto” degli Stati Uniti, ovvero la missione di espandersi in virtù di un ideale morale considerato al di sopra delle leggi terrene. Anche dopo la Guerra civile americana, le milizie di coloni avrebbero continuato per secoli a perseguitare e a terrorizzare i neri attraverso i corpi di polizia e il Ku Klux Klan, mentre il possesso individuale delle armi – ormai istituzionalizzato – sarebbe divenuto uno strumento di controllo dell’ordine costituito di fronte ai cambiamenti sociali. Non a caso, prosegue Dunbar-Ortiz, il dibattito sul Secondo emendamento è esploso nella seconda metà del XX secolo, ovvero al tempo dei movimenti per i diritti civili, delle proteste contro la guerra, dell’aumento dei tassi di criminalità, di pari passo con la crescente influenza della National Rifle Association, la potente lobby statunitense delle armi da fuoco.
Loaded si apre citando le parole provocatorie e profetiche pronunciate da Martin Luther King nel 1967, durante la protesta contro la guerra in Vietnam: “non potrei più levare la voce contro la violenza degli oppressi nei ghetti senza aver prima denunciato il più grande produttore di violenza nel mondo d’oggi: il mio stesso governo”. Proprio a partire dai primi anni ‘70 iniziò una corsa agli armamenti mai vista prima d’allora in epoca moderna, e il numero di armi da fuoco detenute da privati è in breve tempo triplicato fino a superare, oggi, la cifra impressionante di 300 milioni di armi su una popolazione di circa 315 milioni di abitanti. Quasi una a testa, bambini compresi, e senza tener conto delle armi in dotazione all’esercito. Nel frattempo, anche grazie al dispiegamento delle forze militari statunitensi in 180 paesi del mondo, l’espansione dell’industria bellica e del mercato delle armi ha toccato i livelli più alti dalla Seconda guerra mondiale. Quanto al preoccupante fenomeno delle stragi di massa compiute in ambito urbano, il libro riporta statistiche agghiaccianti: escludendo i casi di violenza domestica, dal 1966 al 2016 ci sono state 127 stragi, quasi tutte compiute da uomini bianchi, circa un terzo delle quali nei posti di lavoro. Il 13% è avvenuto all’interno di istituti scolastici o universitari, dove dopo la strage del liceo di Columbine del 1999 si è registrata una drammatica escalation culminata nel 2012, con il massacro alla scuola elementare di Sandy Hook, nel Connecticut. Fino ai drammi più recenti nella chiesa evangelica di Charleston nel 2015, del night-club di Orlando nel 2016 e del citato concerto di Las Vegas, dell’ottobre scorso. “Le radici dell’ossessione delle armi negli Stati Uniti – conclude Dunbar-Ortiz – risalgono alla lunga eredità del suprematismo bianco. A causare le stragi non è soltanto la diffusione indiscriminata delle armi tra la popolazione, ma anche il militarismo diffuso nella società americana. Estirparla sarà ancora più difficile che regolamentare la vendita delle armi”.
RM