Ucraina, il film sul genocidio

Avvenire, 9.10.2017

Fino a una ventina d’anni fa, in pochi avevano sentito parlare del cosiddetto Holodomor, il genocidio per fame che sterminò milioni di contadini ucraini causato dalla collettivizzazione forzata decisa da Stalin all’inizio degli anni ’30. Mosca era riuscita a nascondere all’opinione pubblica internazionale un crimine spaventoso anche grazie all’insospettabile complicità di intellettuali prestigiosi. Persino il più famoso accusatore degli orrori del regime staliniano, il premio Nobel russo Alexander Solzhenitsyn, aveva negato che gli ucraini fossero stati vittime di un genocidio, sostenendo che le loro rivendicazioni rappresentavano un atto di revisionismo storico. La congiura del silenzio era proseguita anche con la “destalinizzazione” poiché Kruscev, nell’elencare i crimini di Stalin, si limitò a denunciare le purghe all’interno del partito comunista e non fece menzione del dramma ucraino. Rendere di dominio pubblico la pagina più nera del comunismo sovietico avrebbe seriamente rischiato di compromettere il mito dell’Urss in Occidente. A lungo occultate per interessi politico-nazionali, le dimensioni e le cause di quella gigantesca ecatombe rimasero quindi confuse nei meandri della tragica storia del XX secolo almeno fino al 1991. La verità su quegli anni iniziò a emergere solo con la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina e l’apertura degli archivi sovietici, con la conseguente scoperta dei documenti celati per oltre mezzo secolo dalle autorità di Mosca. Nel 2003 le Nazioni Unite hanno riconosciuto in una dichiarazione congiunta che l’Holodomor uccise tra i sette e i dieci milioni di persone, ma la strenua opposizione della Russia ha finora impedito di riconoscerlo in via ufficiale come genocidio.
Non può quindi sorprendere che il grande cinema internazionale non si fosse finora interessato a quell’immane tragedia che rappresenta il simbolo doloroso dell’identità nazionale ucraina ed è ancora oggi alla radice del risentimento di Kiev nei confronti di Mosca. A colmare finalmente questa lacuna, raccontando per la prima volta la terribile carestia che si verificò tra il 1929 e il 1933, è il film Bitter Harvest del regista canadese di origini ucraine George Mendeluk. I due temi centrali attraverso i quali lo sceneggiatore Richard Bachyncky ha cercato di denunciare l’Holodomor sono l’amore e il potere dell’arte, intesa come tentativo di risvegliare le coscienze. La trama poggia principalmente sulla storia d’amore tra il giovane artista Yuri (interpretato da Max Irons) e Natalka (Samantha Barks), le cui vite finiscono ben presto travolte dal furore staliniano e dalla collettivizzazione dei terreni agricoli che priva i contadini di ogni mezzo di sostentamento, con le truppe bolsceviche che reprimono senza pietà qualsiasi tentativo di ribellione. Uscito alcuni mesi fa negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, il film non ha raccolto grandi consensi da parte della critica, che non ha apprezzato i suoi toni eccessivamente melodrammatici e didascalici. Eppure Bitter Harvest – che arriverà nelle sale italiane entro la fine dell’anno – ha tutte le carte in regola per ottenere quel successo che sarebbe auspicabile per far conoscere al mondo un genocidio la cui portata storica è senz’altro paragonabile a quella del Metz Yeghern, il genocidio armeno. A partire da un cast importante nel quale, oltre ai citati Irons e Barks, figurano anche Terence Stamp, Barry Pepper, Richard Brake e Aneurin Barnard. Da segnalare anche una scenografia suggestiva, capace di far entrare lo spettatore in un’Ucraina quasi fiabesca che fa da contraltare alla tragedia che sta per abbattersi sulla regione. Continua a leggere “Ucraina, il film sul genocidio”

1961, l’inizio della fine del regime comunista

Eretto esattament cinquant’anni fa, il Muro di Berlino divise due mondi in conflitto tra loro, e segnò il lento, inesorabile fallimento del blocco sovietico.

Quel giorno di metà agosto del 1961 John Fitzgerald Kennedy tirò un sospiro di sollievo. In una sola notte, i sovietici erano riusciti a erigere una barriera intorno a Berlino, isolando la parte occidentale della città e dividendo strade, case e intere famiglie. In poche ore issarono decine di chilometri di filo spinato che furono presto sostituiti da blocchi di cemento e lamiera, e dettero vita al simbolo più tetro della Guerra Fredda. “Non è certo una soluzione soddisfacente, ma è sempre meglio un muro di una guerra”, confidò il presidente degli Stati Uniti d’America, in carica da pochi mesi, ai suoi più stretti collaboratori. Eppure, poche settimane prima, il leader della Ddr Walter Ulbricht aveva assicurato che nessuno era intenzionato a costruire una barriera per fermare l’esodo della popolazione della Germania Est. La decisione, presa repentinamente con la benedizione di Mosca, concludeva di fatto un annus horribilis per il giovane inquilino della Casa Bianca, che in aprile aveva già mandato in frantumi il mito dell’invincibilità statunitense con la fallita invasione della Baia dei Porci. Questi fatti avvantaggiarono inevitabilmente il suo rivale, l’anziano e irascibile Nikita Kruscev, che sembrò volgere la partita a suo favore. Ma la storia di eventi così complessi non può essere analizzata attraverso i singoli episodi e dunque stupisce che oggi, a cinquant’anni esatti di distanza, l’operato di Kennedy in quella crisi sia messo in discussione nel nuovo saggio di Frederick Kempe, “Berlin 1961. Kennedy, Khrushchev, and the Most Dangerous Place on Earth”. Continua a leggere “1961, l’inizio della fine del regime comunista”