Da “Avvenire” di oggi
I versi che scrisse pochi giorni prima di morire, Seamus Heaney li dedicò alla più piccola delle sue nipoti, Sìofra. Con una struggente metafora paragonò i suoi passi ancora incerti di bimba all’andamento deciso di un brano di Bach. Come a volerle dire: quando tu sarai una donna adulta e sicura io non ci sarò più, ma i tempi musicali dei tuoi piedi saranno la forza che muoverà il tuo futuro. Forse nessun poeta contemporaneo è riuscito meglio di Heaney a rivelarci a noi stessi attraverso le esperienze del nostro passato, a far incontrare con grande lirismo la tradizione cattolico-rurale e la cultura urbana inglese creando un’arte poetica che facesse da ponte tra questi due mondi apparentemente lontanissimi.
Nato da una famiglia cattolica in una fattoria a trenta chilometri da Belfast, Heaney ha saputo fondere magistralmente la povertà materiale e la ricchezza spirituale della campagna irlandese dov’era cresciuto con la sua cultura di fine conoscitore del latino, del gaelico, dell’antico anglosassone, di letterato che come pochi altri poteva confrontarsi con le opere di Virgilio, di Ovidio, di Sofocle. Nel saggio Leggere Seamus Heaney (appena uscito per Fazi editore), Paolo Febbraro ripercorre l’intera opera di colui che è considerato il massimo poeta in lingua inglese del Novecento, declinando la sua vita attraverso la sua opera, in una convincente visione complessiva dell’uomo, del suo tempo e della sua arte. Anche dopo la popolarità mondiale acquisita con il premio Nobel vinto nel 1995, Heaney ha continuato a scavare, sostituendo la sua penna alla vanga del padre, cercando di arrivare al nocciolo del senso, alla verità nascosta che ogni linguaggio contiene, e che la poesia può rivelare. Ci ha raccontato i suoi paesaggi naturali e umani, la campagna irlandese dove amava girare in auto componendo versi battendo il tempo della metrica con le dita sul volante. E usando poi quegli stessi versi come stepping stones, pietre di guado, per colmare le distanze.
Il libro di Febbraro, anch’egli poeta, riesce a offrire una nuova lettura critica dell’opera del bardo irlandese anche grazie all’amicizia che per anni l’ha legato a Heaney e ad alcuni ricordi personali che aiutano a comprendere appieno la profondità etica di un uomo che aveva il “genio per gli affetti” e la cui compagnia “aumentava d’improvviso la qualità della tua esistenza”. Fino a un mese dalla sua morte – avvenuta il 30 agosto 2013 – Febbraro ha avuto modo d’incontrarlo e di confrontarsi con lui nel cottage di Glanmore, nel cuore della verde contea di Wicklow, dove Heaney si ritirò a partire dal 1972 dopo aver lasciato l’università di Belfast e il Nord Irlanda devastato dalla guerra. Glanmore era divenuta la sua “scuola campestre”, il ritorno al mondo rurale della sua infanzia e il principale luogo d’ispirazione delle sue liriche. La cui straordinaria bellezza è sintetizzata alla perfezione nella poesia che conclude il volume, San Kevin e il merlo, la parabola del santo disteso nell’atto di pregare, che “trovandosi preso nella grande rete della vita eterna”, mosso a pietà, resta immobile finché non si schiudono le uova che un merlo ha deposto tra le sue braccia.
RM