Il generale dell’orrore che si credeva onnipotente

di Paolo Rumiz

La vita di Ratko Mladic segnata dalla violenza. A chi lo accusava disse: “Difendere il proprio popolo non è crimine, è sacro dovere”. A due anni perse il padre ucciso dai nazionalisti croati. Poi anche la figlia Ana si suicidò

«Scannate il maiale» ordinò ai suoi, prima di iniziare le trattative con i Caschi blu di Srebrenica. L´animale era stato trascinato apposta dalle montagne fin nel cortile vicino, e le urla riempirono tutta la valle. Ovviamente il porco era un avvertimento ai musulmani. «Voi circoncisi verrete dopo», significava. Così gli ottomila reclusi maschi di Srebrenica capirono la loro morte imminente. Anche i tremebondi Caschi blu olandesi capirono e, prima che le mezzene fossero appese, accettarono le condizioni senza batter ciglio. Fu lì, nel luglio del 1995, che l´Europa perse la faccia e l´onore. Prima di cercare in qualche dannazione genetica il ruolo assassino di Ratko Mladic, comandante in capo delle truppe serbo-bosniache negli anni del massacro, meglio ricordare che la sua strapotenza è soprattutto il risultato di una fenomenale vigliaccheria di parte occidentale. Perché poi fatalmente accadrà che, dietro a questo superlatitante con taglia da sei milioni di dollari sulle spalle, scopriremo – come già accaduto con Radovan Karadzic, il suo referente politico in galera all´Aja – la banalità di un uomo qualunque, probabilmente un mediocre sbattuto nel ruolo più dal caso che da innate capacità. Mladic nasce nel marzo del 1942 in un villaggio tra le montagne a Sud di Sarajevo. Due anni dopo suo padre Nedja viene ucciso in un combattimento contro le forze nazionaliste croate, alleate ai nazi-fascisti. Solo molti anni dopo, durante la guerra etnica che squarterà la Jugoslavia, il generale cercherà nell´evento un segno del destino e il pretesto per un regolamento di conti. «Mio figlio – dirà – è il primo serbo di molte generazioni che ha fatto in tempo a conoscere suo padre». Un modo per evocare una persecuzione secolare contro il suo popolo. Di certo oggi il figlio di Mladic conosce suo padre, ma nessuno sa dire se voglia riconoscersi in lui, dopo quanto è accaduto. Soprattutto dopo la morte della sorella Ana, l´altra figlia di Ratko, che si è tolta la vita nel 1994. Ana aveva appena perso il fidanzato in guerra, e rimproverava al padre di non aver fatto nulla per tenerlo lontano dalla prima linea. Soffriva anche, dicono quelli che la conobbero, la vergogna per quanto accadeva nella sua terra, la Bosnia. Parenti, amici, compagni di scuola, finiti in un tritacarne di sangue e fanatismo. Continua a leggere “Il generale dell’orrore che si credeva onnipotente”

In 40.000 sul luogo del genocidio

(Articolo uscito anche su ”Avvenire” di oggi)

DA SREBRENICA – ”Questo luogo evoca un dolore immenso e indescrivibile, ma da qui dobbiamo ripartire per creare una società multietnica che rispetti i diritti e offra a tutti un futuro migliore”. Con queste parole il giovane sindaco di Srebrenica, Abdurahman Malkic, ha aperto ieri la cerimonia di sepoltura delle vittime nel tredicesimo anniversario del genocidio del 1995. 308 nuovi corpi sono stati sepolti accanto ai circa 3.000 già esumati dalle fosse comuni e ricostruiti grazie alle ricerche col Dna. Ma all’appello mancano migliaia di cadaveri: le stanze del centro specializzato della vicina città di Tuzla sono piene di sacchi contenenti le ossa ancora da esaminare, mentre ogni anno vengono scoperte nuove fosse comuni.


Sotto il sole cocente di questo spicchio di territorio bosniaco al confine con la Serbia, intorno a un palco gremito di politici, autorità e leader religiosi delle principali confessioni, quasi 40.000 persone si sono sparpagliate nei prati del gigantesco memoriale di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica. Lo stesso luogo dove, in quei fatali giorni di luglio di 13 anni fa, migliaia di civili furono ammassati, selezionati e mandati al macello dalle milizie serbo-bosniache del generale Mladic, sotto gli occhi dei caschi blu olandesi che negarono loro ogni forma di protezione. Nei prati intorno all’ex base Onu – un luogo del terrore trasformato qualche anno fa in centro per la conservazione della memoria – sono arrivati nella prima mattinata anche i partecipanti alla marcia per la pace che ripercorre a ritroso la “strada della morte” tra Srebrenica e Tuzla. Quest’anno erano circa 3.000, arrivati da ogni parte del mondo, per la prima volta anche dalla Serbia. Nel 1995 fu quella l’unica via per tentare la fuga: molti vi riuscirono, ma non si contano quelli che furono catturati e uccisi per mano delle milizie o vennero straziati dalle mine nei boschi ora disseminati di fosse comuni. Tra quelli che scamparono quasi miracolosamente alla mattanza, ci fu anche Malkic che ieri ha parlato a nome delle migliaia di familiari intervenuti alla cerimonia, ricordando al mondo che Srebrenica rimane “una delle ombre più terrificanti della recente storia dell’umanità”. Per questo è necessario proseguire un lavoro – che durerà ancora anni – per ritrovare i resti e ridare un nome alle 8.000, forse 10.000 vittime di quei giorni. E per questo è indispensabile fare giustizia individuando e processando colpevoli e complici del genocidio. In settembre è attesa la sentenza del tribunale dell’Aja nei confronti del battaglione olandese sotto mandato Onu che non fece niente per impedire il peggior sterminio di massa avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Ma la speranza vera arriva da Belgrado, dove proprio due giorni fa il nuovo ministro della giustizia ha promesso che il governo serbo – ansioso di essere ammesso nel ‘salotto buono’ dell’Unione europea – farà tutto il possibile per catturare Mladic e Karadzic, tuttora latitanti.

RM