“Addio all’Irlanda” di Ann Moore

Recensione uscita su Avvenire del 19.1.2018

“Dicono che un uomo è più vicino a Dio quando è per mare, ma il capitano Reinders lì non lo aveva mai trovato, certo non a bordo dell’Eliza J, o negli alloggi in cui ora si trovava. Un dio capace di governare un intero universo non lo avrebbe mai lasciato alla mercé di una forza imprevedibile e caotica come la Natura”. Addio all’Irlanda (Beat edizioni, 2017, traduzione di Raffaella Vitangeli) è il secondo volume dell’epica trilogia di Ann Moore dedicata all’Irlanda moderna, e si apre raccontando la traversata oceanica di Gracelin O’Malley, in fuga dalla Grande carestia che nel 1845 ha scatenato una terrificante ondata di morte e migrazione nel suo paese. Giovane vedova, madre di quattro figli, per la sua storia e i suoi ideali Grace è l’incarnazione stessa dell’Irlanda in lotta per la sopravvivenza e la libertà, una figura che racchiude dentro di sé un doppio mito. Il primo riferimento è a Cathleen Nì Houlihan, la personificazione allegorica della nazione irlandese, già cantata oltre un secolo fa da William Butler Yeats in una sintesi quasi perfetta di arte, mito e nazionalismo. Una donna “la cui bellezza apparteneva a quadri, a poesie, a un passato leggendario”. Ma il nome di Grace O’Malley non può non richiamare alla mente anche l’omonima regina del mare del Connemara, una rivoluzionaria irlandese realmente esistita nel XVI secolo. La scrittrice inglese Ann Moore trae ispirazione da questi due miti per creare un personaggio che, al pari di tanti altri immigrati dell’epoca, si imbarca alla volta degli Stati Uniti e si appresta a vivere in una terra straniera “in cerca di cibo, di un posto in cui dormire, di un passaggio verso una vita migliore”. Dopo il primo romanzo Terra perduta nel quale aveva descritto il dramma della carestia, Moore racconta con lo stesso realismo la diaspora irlandese nel Nuovo mondo, le lotte degli immigrati contro la povertà e i pregiudizi, nel tentativo di realizzare il sogno americano. Ricercata e braccata dalle autorità per aver sparato a un poliziotto, a New York Grace ritrova il fratello Sean e incrocia il proprio destino con Lily, una donna di colore in fuga dai mercanti di schiavi. Si rende conto fin da subito che l’America non è la terra promessa che sognava, ma un luogo dove “le più alte conquiste dell’uomo sono sempre controbilanciate dalla profondità della sua degradazione”. Anche per questo decide di impegnarsi nei circoli anti-abolizionisti che si battono contro la tratta degli schiavi ed entra in contatto con la Chiesa mormone, che proprio in quegli anni stava muovendo i primi passi negli Stati Uniti. Col trascorrere del tempo appare sempre più divisa tra l’amore viscerale per la propria terra d’origine, e per i cari che si è lasciata alle spalle, e il nuovo senso di appartenenza a quella nuova nazione. Tutto è funzionale alla costruzione di un affascinante affresco letterario dell’America di metà Ottocento, ambientato in gran parte nei lugubri e malsani bassifondi di New York, in mezzo alla corruzione, alla violenza e ai pregiudizi contro gli immigrati giunti dal Vecchio continente. Ma nonostante la storia ben congegnata, con una prosa elegante e un finale ricco di suspense che lascia il lettore impaziente di leggere il terzo e ultimo capitolo, Addio all’Irlanda non convince fino in fondo e soffre della sua stessa natura, ovvero quella di essere un interludio tra altri due romanzi.
RM

“La figlia del partigiano O’Connor” di M. Marziani

Recensione uscita su Avvenire del 5.1.2018

Pablita O’Connor è una donna d’altri tempi, risoluta ma non priva di incertezze, che racchiude già nel suo nome l’impetuoso fluire del Novecento, un secolo di ideali, speranze, rivoluzioni. E inganni. A sessantacinque anni, rimasta vedova, sente forte il richiamo delle proprie radici e decide di lasciarsi alle spalle una vita trascorsa nelle valli alpine piemontesi per conoscere la leggendaria storia di suo padre, ripercorrendo a ritroso il viaggio che molti anni prima l’aveva portato dall’Irlanda all’Italia, passando per la Spagna. Dal piccolo paesino di Roundstone, nel Connemara, il giovane Malachy O’Connor era partito negli anni ‘30 per andare a Barcellona a difendere la Repubblica contro il fascismo. Era stato un partigiano della Quindicesima brigata internazionale, aveva combattuto nella famosa colonna irlandese intitolata a James Connolly finendo poi confinato a Ventotene. In Italia gli avevano cambiato nome, trasformandolo in Mario Occone, e dopo la guerra aveva deciso di trasferirsi in val d’Ossola – dove sarebbe rimasto fino alla morte – seppellendo la sua prima vita sotto una fitta coltre di oblio. In La figlia del partigiano O’Connor (edizioni Clichy), lo scrittore riminese Michele Marziani riannoda i fili del XX secolo collegando il passato al presente con il filtro potente della letteratura. Lo fa raccontando una piccola vicenda individuale che cresce fino a solcare la grande storia seguendo il pellegrinaggio di Pablita, che parte alla scoperta del suo passato nel tentativo di trovare una risposta alle tante domande che la assillano da una vita. Ispirato da una famosa canzone di Christy Moore (Viva la Quinta Brigada), al quale il libro è dedicato, Marziani lavora sulla lingua e sulle immagini costruendo un personaggio femminile chiamato a ricomporre i frammenti del passato e a fare i conti con una memoria a lungo conservata ma destinata a velarsi di ombre, poco a poco. Descrive con una prosa magnetica lo stupore della protagonista, che ha i capelli rossi, le efelidi e l’aspetto tipicamente irlandese ma in Irlanda non ha mai messo piede. Quel paese l’ha conosciuto soltanto attraverso le descrizioni, i gesti e le abitudini di suo padre e quando lo visita per la prima volta “si sente piccola e sola, spaesata, di fronte a questo paese dalla natura così prorompente, quasi violenta, immensa, grandiosa, avvolgente. Non trova le parole, si sforza ma tutto questo è un paesaggio troppo grande, eccessivo, per una donna sola”. Pablita arriva in Irlanda al termine del suo viaggio, dopo le precedenti tappe a Ventotene e a Barcellona, in un crescendo di scoperte e di incontri inaspettati che alla fine cambieranno il senso della storia, facendole scoprire luoghi e vicende assai diverse da come se l’era immaginate. Quando finalmente riuscirà a completare il ritratto di un padre con il quale era cresciuta senza riuscire a conoscerlo fino in fondo, molte delle sue certezze svaniranno insieme a quegli ideali che non si riveleranno altro che alibi per fuggire di fronte alle proprie responsabilità. “Quell’uomo che ha amato, venerato, difeso, ricordato per tutta la vita all’improvviso non le piace più. Anzi, le fa schifo. Anzi, non lo sa. Perché per dare giudizi bisogna sapere. Altrimenti si rischia di sbagliare. Lei in qualche modo si è sbagliata per tutta la vita”.
RM