Era trascorso oltre un mese dagli attacchi alle Torri Gemelle quando dalle macerie fumanti del World Trade Center spuntò un’inaspettata forma di vita. Era un gigantesco albero da frutto, un pero alto otto metri, piantato nel 1970 nei pressi di Church Street. Aveva il tronco bruciato, i rami spezzati e in larga parte carbonizzati ma non era ancora morto. Decisero allora di trasportarlo in un parco del Bronx per curarlo. Lì l’albero crebbe fino a raggiungere un’altezza di circa trenta metri e alla vigilia di Natale del 2010 fu riportato nel suo luogo d’origine per essere trapiantato nel cuore del 9/11 Memorial di New York. Il grande spazio pubblico che celebra la memoria degli attentati dell’11 settembre 2001 ha oggi oltre quattrocento esemplari di quercia bianca ma l’albero più fotografato è sempre lui: il “Survivor Tree”, l’albero che è riuscito a sopravvivere sotto le macerie delle Torri Gemelle. Circondato da un recinto, con supporti che ne sorreggono il tronco e i rami che recano ancora ben visibili le ferite di quel giorno maledetto, è diventato un simbolo straordinario della capacità di resistenza dell’animo umano. Continua a leggere “Torri Gemelle, la memoria dell’11 settembre”
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Quando i migranti eravamo noi. Reportage da Ellis Island
New York – Annie Moore arrivò il 1° gennaio 1892 dopo una lunga traversata sull’oceano. Si era imbarcata due settimane prima su una nave a vapore partita da Cork, nell’Irlanda meridionale. Quel giorno, nell’isoletta alle porte di New York, si respirava aria di festa. Il centro immigrazione era stato appena inaugurato e si preparava ad accogliere i primi emigranti in arrivo dal Vecchio Continente. Possiamo immaginare lo stupore e la felicità di quella 17enne irlandese quando il capo degli ispettori, John Weber, le consegnò una moneta d’oro da dieci dollari aprendole le porte del sogno americano. Una statua in bronzo all’interno del Museo nazionale dell’immigrazione di Ellis Island la ricorda oggi come la prima emigrante arrivata qua alla ricerca di una vita migliore. Dopo di lei sarebbero sbarcati altri dodici milioni di uomini, donne e bambini in gran parte europei, tantissimi dei quali italiani. Annie Moore è diventata un simbolo di quell’esodo epocale iniziato alla fine dell’Ottocento, sebbene uno studio recente abbia accertato che negli Stati Uniti non trovò mai la fortuna che cercava. Trascorse il resto della sua vita in povertà in un sobborgo di New York e morì poco più che 40enne a causa di un attacco cardiaco, dopo aver seppellito cinque dei suoi undici figli, sfiniti dalle malattie e dalla denutrizione.
Per oltre sessant’anni Ellis Island è stata la porta d’accesso al “nuovo mondo” e visitandola oggi è quasi impossibile non volgere il pensiero a chi, anche ai giorni nostri, è costretto a intraprendere viaggi simili, e vede spesso i suoi sogni sfociare nella disillusione. Un secolo fa questa era l’isola della speranza, nota anche come l’isola delle lacrime perché in tanti vi conobbero umiliazioni, deportazioni, respingimenti. Le famiglie qui potevano ricongiungersi oppure finire fatalmente divise da un destino crudele. La Statua della Libertà è così vicina che sembra quasi di poterla toccare. I grattacieli di Manhattan spiccano all’orizzonte lasciando immaginare la carica emotiva di chi arrivava qui dopo un’interminabile traversata oceanica. L’edificio principale di Ellis Island, in mattoni rossi con quattro torrette all’esterno, è stato interamente restaurato e aperto al pubblico nel 1990 e ospita oggi l’unico museo statunitense che documenta la storia dell’immigrazione dall’era coloniale ai giorni nostri. Ogni anno viene visitato da oltre quattro milioni di persone perché quasi la metà degli attuali abitanti degli Stati Uniti ha almeno un familiare passato dalle sue stanze.
Nel 1892 questa isoletta artificiale costruita con i detriti degli scavi della metropolitana di New York venne trasformata in un centro di ispezione per i migranti in arrivo negli Stati Uniti. Cinque anni dopo l’edificio principale finì distrutto da un incendio ma fu ricostruito e ampliato con nuovi spazi aggiunti per adeguare l’isola al crescente transito di persone provenienti da ogni parte del mondo. Le loro storie, in gran parte anonime, prendono forma al primo e al secondo piano con una serie di mostre fotografiche di grande impatto. Le sale e le stanze oggi adibite a spazi espositivi ricostruiscono esperienze di vita vissuta facendo ascoltare le voci registrate dei protagonisti e mostrando piccoli oggetti d’uso quotidiano come valigie, ceste, sacchi, utensili e abiti d’epoca. “Sono venuto in America credendo che le strade fossero lastricate d’oro”, recitava un famoso canto degli emigrati italiani, “ma quando sono arrivato ho visto che le strade non erano lastricate affatto e che toccava a me lastricarle”. Ci sono stanze rimaste intatte da allora, come i dormitori nei quali sostavano i malati o le persone sottoposte a quarantena. Sempre al secondo piano si trova anche il luogo forse più evocativo dell’intero museo: l’enorme “Registry room”, la sala dove le persone attendevano con paura e trepidazione la chiamata degli ispettori per espletare l’ultima parte burocratica e ottenere finalmente il permesso di sbarcare. In quei lunghi interrogatori venivano loro richiesti i dati anagrafici, la professione, la destinazione, la disponibilità di denaro, gli eventuali carichi penali. E, non ultimo, l’orientamento politico. In poche ore si decideva il destino di intere famiglie. Il restauro ha ricreato un ambiente identico a com’era cento anni fa: l’imponente soffitto a volta in mattoncini bianchi, il pavimento color vermiglio, le bandiere a stelle e strisce issate sui parapetti. L’assenza delle panche dove sedevano gli emigranti in attesa di giudizio conferisce al grande salone ormai spoglio un’atmosfera di tragica ineluttabilità. Ma la “Registry Room” era soltanto l’ultima tappa di un lungo percorso che nella maggior parte dei casi si concludeva sui traghetti per Manhattan. Prima di arrivare lì i passeggeri di prima e seconda classe delle navi venivano ispezionati nelle loro cabine e scortati a terra dagli ufficiali dell’immigrazione. I più poveri, quelli che avevano viaggiato in terza e quarta classe, erano invece inviati sull’isola dove i medici li controllavano frettolosamente. Chi non superava gli esami veniva contrassegnato sulla schiena con un gessetto e sottoposto a ulteriori accertamenti. Una croce in caso di sospetti problemi mentali, altri simboli o lettere per disturbi quali ernia, tracoma, congiuntivite, patologie al cuore, ai polmoni o anche per una semplice gravidanza. Dai registri ufficiali risulta che appena il due percento degli emigranti sia stato respinto, circa un migliaio di persone al mese. Spesso venivano immediatamente reimbarcati sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti e che in base alla legislazione americana aveva l’obbligo di riportarli nel porto dal quale erano partiti. Molti preferirono suicidarsi, piuttosto che affrontare il ritorno a casa. Le regole di esclusione erano spietate e imponevano che i vecchi, i ciechi, i sordomuti, i deformi e le persone affette da infermità, malattie mentali o contagiose non potessero accedere al suolo americano. Il centro di Ellis Island era stato progettato per accogliere 500mila persone all’anno, ma agli albori del secolo ne arrivarono circa il doppio, con oltre un milione di approdi nel solo 1907, l’anno più difficile. In seguito i decreti sull’immigrazione degli anni ‘20 posero fine alla politica di “porte aperte” degli Stati Uniti e introdussero rigide quote d’ingresso basate sulla nazionalità. La Grande depressione del 1929 limitò drasticamente gli arrivi, che scesero dai circa 240mila del 1930 ai 35mila nel 1932. Ellis Island si trasformò a poco a poco da centro di smistamento degli immigrati a luogo di raccolta per deportati e perseguitati politici. Durante la seconda guerra mondiale vi furono rinchiusi italiani, tedeschi e giapponesi e anche in seguito venne utilizzata principalmente per la detenzione. La struttura venne chiusa definitivamente il 12 novembre 1954 e gli edifici in disuso andarono lentamente in rovina. L’ultima mostra fotografica racconta gli anni dell’abbandono e della successiva rinascita, con il lungo restauro che ha trasformato Ellis Island in un luogo imprescindibile della nostra memoria recente.
RM
“Addio all’Irlanda” di Ann Moore
Recensione uscita su Avvenire del 19.1.2018
“Dicono che un uomo è più vicino a Dio quando è per mare, ma il capitano Reinders lì non lo aveva mai trovato, certo non a bordo dell’Eliza J, o negli alloggi in cui ora si trovava. Un dio capace di governare un intero universo non lo avrebbe mai lasciato alla mercé di una forza imprevedibile e caotica come la Natura”. Addio all’Irlanda (Beat edizioni, 2017, traduzione di Raffaella Vitangeli) è il secondo volume dell’epica trilogia di Ann Moore dedicata all’Irlanda moderna, e si apre raccontando la traversata oceanica di Gracelin O’Malley, in fuga dalla Grande carestia che nel 1845 ha scatenato una terrificante ondata di morte e migrazione nel suo paese. Giovane vedova, madre di quattro figli, per la sua storia e i suoi ideali Grace è l’incarnazione stessa dell’Irlanda in lotta per la sopravvivenza e la libertà, una figura che racchiude dentro di sé un doppio mito. Il primo riferimento è a Cathleen Nì Houlihan, la personificazione allegorica della nazione irlandese, già cantata oltre un secolo fa da William Butler Yeats in una sintesi quasi perfetta di arte, mito e nazionalismo. Una donna “la cui bellezza apparteneva a quadri, a poesie, a un passato leggendario”. Ma il nome di Grace O’Malley non può non richiamare alla mente anche l’omonima regina del mare del Connemara, una rivoluzionaria irlandese realmente esistita nel XVI secolo. La scrittrice inglese Ann Moore trae ispirazione da questi due miti per creare un personaggio che, al pari di tanti altri immigrati dell’epoca, si imbarca alla volta degli Stati Uniti e si appresta a vivere in una terra straniera “in cerca di cibo, di un posto in cui dormire, di un passaggio verso una vita migliore”. Dopo il primo romanzo Terra perduta nel quale aveva descritto il dramma della carestia, Moore racconta con lo stesso realismo la diaspora irlandese nel Nuovo mondo, le lotte degli immigrati contro la povertà e i pregiudizi, nel tentativo di realizzare il sogno americano. Ricercata e braccata dalle autorità per aver sparato a un poliziotto, a New York Grace ritrova il fratello Sean e incrocia il proprio destino con Lily, una donna di colore in fuga dai mercanti di schiavi. Si rende conto fin da subito che l’America non è la terra promessa che sognava, ma un luogo dove “le più alte conquiste dell’uomo sono sempre controbilanciate dalla profondità della sua degradazione”. Anche per questo decide di impegnarsi nei circoli anti-abolizionisti che si battono contro la tratta degli schiavi ed entra in contatto con la Chiesa mormone, che proprio in quegli anni stava muovendo i primi passi negli Stati Uniti. Col trascorrere del tempo appare sempre più divisa tra l’amore viscerale per la propria terra d’origine, e per i cari che si è lasciata alle spalle, e il nuovo senso di appartenenza a quella nuova nazione. Tutto è funzionale alla costruzione di un affascinante affresco letterario dell’America di metà Ottocento, ambientato in gran parte nei lugubri e malsani bassifondi di New York, in mezzo alla corruzione, alla violenza e ai pregiudizi contro gli immigrati giunti dal Vecchio continente. Ma nonostante la storia ben congegnata, con una prosa elegante e un finale ricco di suspense che lascia il lettore impaziente di leggere il terzo e ultimo capitolo, Addio all’Irlanda non convince fino in fondo e soffre della sua stessa natura, ovvero quella di essere un interludio tra altri due romanzi.
RM
Così muore un italiano
(di Enrico Terrinoni)
Scocca la mezzanotte, è il 23 agosto. Nella prigione di Charlestown, a Boston, cala due volte la corrente. Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono stati giustiziati. Ricordo di un processo che infiammò le coscienze, divise gli Usa e convinse il governatore Dukakis, cinquant’anni dopo, a chiedere scusa.
È da poco scoccata la mezzanotte. Il luogo è la prigione di Charlestown, a Boston, in America. La data è il 23 di agosto del 1927. Prima che passino trenta minuti, il braccio della morte del penitenziario avrà già visto, per ben due volte, i segni di un forte calo di corrente. Mezzanotte e mezza. I corpi dei due anarchici internazionalisti, Nicola Sacco – nativo del foggiano – e Bartolomeo Vanzetti – nato e cresciuto nel cuneese – vengono portati via dopo esser stati giustiziati sulla sedia elettrica. Prima di loro era stato allontanato dalla stessa stanza, il cadavere di Celestino Madeiros, un prigioniero, immigrato portoghese, che un anno e mezzo prima li aveva, inascoltato, scagionati.
Per comprendere perché il boia abbia ricevuto l’ordine di mandarli a morire in quella notte di agosto, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo. Bisogna tornare alla sera del 15 aprile del 1920, quando un altro italiano, Alessandro Berardinelli, insieme ad un americano, Frederick Parmenter, erano stati freddati da una banda di ladri all’uscita della fabbrica di scarpe Slater e Morrill, a South Braintree, sempre nel Massachusetts. Due colpi per uno, e le cassette con le paghe degli operai rubate. Cos’è che, tra l’aprile del 1920 e l’agosto del 1927, porterà all’esecuzione dei due famosi anarchici italiani?
Gli Stati Uniti, negli anni dopo la prima guerra mondiale vivono in un clima di caccia alle streghe che non ha precedenti. Gli obiettivi sono sempre «gli altri», i non assimilati, gli stranieri, i socialisti, gli anarchici. Tra il 1919 e il 1920, sessantamila attivisti vengono schedati, e tra il 2 e il 6 di gennaio del 1920, circa diecimila sospetti saranno arrestati, in raid condotti in trentacinque città americane. Solo nel New England – dove vivono Sacco e Vanzetti – i fermi sono ottocento, in quei giorni. La chiamano red scare, la prima «paura rossa».
Venti giorni dopo l’assassinio di South Braintree, è la volta di Sacco e Vanzetti, portati alla stazione di polizia mentre erano di ritorno insieme da Brockton. Li trovano in possesso di pistole e materiale sospetto. Un volantino che Vanzetti aveva in tasca incitava ad una manifestazione di protesta per l’uccisione di Andrea Salsedo – altro anarchico volato giù, questa volta a New York, dagli uffici dell’Fbi, al quattordicesimo piano del Park Row Building, il 3 maggio del 1920.
Gli Stati Uniti ospitavano allora corpose colonie di anarchici. Nel New Jersey, a Paterson, viveva il famoso Luigi Galleani di Cronaca sovversiva, rivista su cui Vanzetti scrisse più d’una accorata difesa dei diritti delle classi lavoratrici. Sempre a Paterson aveva risieduto Gaetano Bresci. Più massiccio e spavaldo, accanto all’anarchismo, era il fronte del sindacalismo internazionalista (Iww – Industrial Workers of the World), e un qualche peso doveva avere anche il Partito Socialista Americano, se è vero che nel 1912 vide eletti, tra elezioni locali, regionali, e nazionali, milleduecento membri del proprio partito.
Vanzetti, che ancora nel 1923 si descrive come un «comunista anarchico», era un autodidatta. Negli Stati Uniti, racconta, «lessi il Capitale di Marx, i lavori di Leone, di Labriola, il Testamento politico di Carlo Pisacane, i Doveri dell’uomo di Mazzini… mi schierai dalla parte dei deboli, dei poveri, degli oppressi, dei semplici e dei perseguitati… compresi che i monti, i mari, i fiumi chiamati confini naturali, si sono formati antecedentemente all’uomo, per un complesso di processi fisici e chimici, e non per dividere i popoli».
Sacco lascia il mondo raccomandando al figlio Dante – in inglese – di aiutare «i deboli che gridano aiuto, aiuta i perseguitati e le vittime, perché sono loro i tuoi migliori amici; sono loro i compagni che lottano e cadono, proprio come tuo padre e Bartolo hanno lottato e sono caduti, ieri, per conquistare la gioia della libertà di tutti, e per i poveri lavoratori».
Gli anni che dividono l’arresto di Sacco e Vanzetti e la loro fine sulla sedia elettrica sono scanditi dalle udienze di due processi ridicoli. Sono gli anni, dopo la condanna, dei quattro appelli negati alla difesa dal reazionario giudice Thyler – che al suo club descriveva i due italiani come «anarchist bastards». Sono gli anni della finta commissione indipendente nominata dal governatore Fuller, e dell’ignavia dei membri della corte suprema Brandeis e Holmes. Sono gli anni dei testimoni prezzolati Splaine, Pelser, e Goodridge (Corning), spinti dal procuratore Katzman a presentare alla giuria prove inventate – ma poi credute – della loro colpevolezza. Tutti nomi su cui cade la vergogna della storia. Ma sono anche gli anni degli amici e dei compagni di Sacco e Vanzetti, i quali al processo ne tracciarono ritratti insuperabili per umanità, solidarietà e delicatezza d’animo. Sono queste, qualità e valori di cui la poesia «L’usignolo» – oggi sepolta in un faldone di una remota biblioteca americana, e qui tradotta in italiano – è un chiaro esempio.
La storia si conclude esattamente cinquanta anni dopo quell’esecuzione avvenuta nel 1927, quando il governatore del Massachusetts in carica, Michael S. Dukakis, proclama ufficialmente il 23 agosto il «Nicola Sacco and Bartolomeo Vanzetti Memorial day», facendo pubblica ammenda per la negazione, nei confronti dei due giustiziati, di un processo «giusto e imparziale». Qualche tempo dopo il Senato condannò tale proclamazione, dichiarandola illegale. Impossibile, allora, non tornare con la mente alle parole di Nicola Sacco, dedicate ai suoi amici e ai suoi compagni, diciannove giorni prima di morire: «La classe capitalista è spietata, senza alcuna compassione per i bravi soldati della rivoluzione. Siamo orgogliosi di morire e di cadere come cadono tutti gli anarchici». Gli fa eco Vanzetti, che scrive alla sorella, «persuaditi una buona volta per sempre di questa irrefutabile verità. La protesta e la rivolta sono sempre fecondi di bene; è la codardia, l’ignoranza, la sottomissione, che sono fatali».
(da “Il Manifesto, 24 agosto 2010)
Le ceneri di Frank
“Francis Scott Fitzgerald diceva che non ci sono secondi atti nelle vite americane. Penso di aver provato che si sbagliava”. Frank McCourt commentò così, in un’intervista, la sua esistenza nella quale avevano trovato spazio non due, ma addirittura tre vite distinte. Prima un’infanzia dickensiana a Limerick, nei bassifondi d’Irlanda, anni di fame e miseria, segnati dal padre alcolista e dalla morte dei tre fratelli minori. Poi una brillante carriera da insegnante anticonformista nelle scuole pubbliche di New York, infine l’ultimo atto, che lo vide diventare un fenomeno letterario internazionale grazie a “Le ceneri di Angela”, il romanzo autobiografico sulla sua infanzia che venderà in poco tempo milioni di copie, sarà pubblicato in trenta lingue e portato al cinema da Alan Parker. Frank McCourt, morto due giorni fa a 78 anni stroncato da una meningite, era diventato autore di best-seller da pensionato, smessi i panni dell’insegnante indossati per oltre trent’anni nelle high school di Manhattan. Dopo il fortunato debutto – col quale si era aggiudicato nel 1997 premi prestigiosi come il Pulitzer e il National Book Critics Circle – aveva proseguito il racconto della sua vita con “Che paese, l’America”, “Ehi, Prof!” e con il commovente racconto per bambini “Angela e Gesù Bambino” (tutti pubblicati in Italia da Adelphi). Narratore straordinario, McCourt è stato probabilmente l’unico scrittore moderno capace di raccontare con un soffice e originalissimo umorismo le miserabili condizioni di vita degli irlandesi nella prima metà del secolo. Riuscendo a renderle una metafora universale della povertà mondiale. Non ha voluto funerali, sarà cremato e le sue ceneri saranno disperse nello Shannon.
RM