Oltre la porta un inferno senza ritorno

Avvenire, 17 marzo 2023

Da Riga (Lettonia)
Qui lo chiamano “Baigais gads”, l’anno orribile. Ebbe avvio nell’estate del 1940, quando le truppe sovietiche invasero il Paese e instaurarono un regime di terrore. Il 14 giugno di quell’anno oltre 15mila persone furono deportate in una sola notte. Gli arresti proseguirono a un ritmo incessante per mesi, facendo finire in prigione il presidente della Repubblica Karlis Ulmanis, il ministro degli Esteri Vilhelms Munters e migliaia di persone di tutte le età. Mosca insediò un governo fantoccio che votò per far aderire la Lettonia all’URSS sotto la minaccia di soldati armati, poi decretò la confisca delle proprietà e istituì tribunali speciali per punire “i traditori del popolo”. Seguì un anno intero di sovietizzazione, arresti, torture, esecuzioni, deportazioni e l’eliminazione sistematica di tutte le strutture di base della società civile. Fu in quella tragica estate del 1941 che un edificio al numero 61 di Brivibas Street, a Riga, divenne uno dei luoghi più temuti della capitale. Il famigerato NKVD, il Commissariato del popolo per gli affari interni antesignano del KGB, si insediò nelle sue stanze trasformando questo splendido palazzo in stile Art Nouveau nel centro nevralgico degli orrori del regime sovietico.

Era stato costruito nel 1912 e per anni aveva ospitato una scuola di musica e una biblioteca. Con la nascita dello stato indipendente lettone nel 1919, venne rilevato dal governo e divenne la sede del Ministero degli affari interni. Ma dall’inizio dell’occupazione sovietica in poi, chi entrava nella sua porta d’ingresso all’angolo della strada (da lì il soprannome “Corner House”) veniva inghiottito in un girone infernale dal quale spesso non faceva più ritorno.
Oggi l’edificio ospita un museo dedicato agli orrori della repressione sovietica che è stato aperto nel 2014, quando Riga fu capitale europea della cultura, e viene visitato ogni anno da decine di migliaia di persone. Il simbolo sinistro di quell’era oscura si confonde in mezzo al traffico cittadino ma tuttora i lettoni non possono passarci davanti senza essere percorsi da un brivido. Molti hanno avuto parenti o amici imprigionati lì dentro e conoscono le terribili storie tramandate da nonni e genitori. Storie come quella di Antonja Romane, che nel 1941 fu arrestata per essersi lamentata della nazionalizzazione delle sue proprietà e finì in un carcere del Kazakhstan, dove morì pochi mesi dopo; o di Peteris Martens, il vicario di una parrocchia luterana di Riga colpevole di aver espresso giudizi favorevoli sul governo lettone indipendente. Accusato di “attività controrivoluzionarie” nel 1944, venne condannato e messo a morte l’anno successivo. O quanto accadde a Knuts Skujenieks, il poeta e traduttore che dopo essere passato da queste stanze trascorse sette anni in una prigione nel gelo della Mordovia, a causa delle sue opere giudicate “antisovietiche”. Ma non era necessario neanche esprimere una forma di dissenso per finire anni in carcere, o essere condannati a spaccarsi la schiena in una miniera, oppure per morire sotto tortura. Bastava che qualcuno inserisse una denuncia anonima nell’inquietante cassetta delle lettere che è stata conservata nell’atrio della “Corner House”. Qualsiasi accusa di slealtà – anche la più vaga – poteva equivalere a una condanna. L’articolo 58 del codice penale sovietico definiva controrivoluzionaria “ogni attività volta a rovesciare, minare o indebolire il potere dei Soviet dei lavoratori e dei contadini”. In pratica, era sufficiente ascoltare la radio occidentale o pronunciare una frase considerata sovversiva.
Dall’ingresso dell’edificio si accede a un corridoio con le celle dove venivano rinchiusi i prigionieri. Spazi fatiscenti e angusti in cui le luci rimanevano accese notte e giorno, con letti metallici privi di materassi e una minuscola finestra troppo piccola per far entrare aria dall’esterno. I detenuti erano privati di ogni contatto con il mondo esterno e avevano il permesso di uscire dalle celle soltanto mezzora la settimana. Ma dovevano camminare in cerchio nel piccolo cortile interno, a testa bassa e senza parlare tra loro. Altre celle si trovano nel seminterrato mentre sul lato opposto del cortile c’è il luogo dove avvenivano le fucilazioni. Il piano terra ospita una mostra permanente con pannelli di testo e fotografie sulle operazioni del KGB in Lettonia, che racconta anche la storia del movimento di resistenza nonviolenta lettone. I primi gruppi clandestini organizzati nel 1940 erano composti perlopiù da studenti dei licei e delle università che si rifiutavano di cantare l’inno sovietico e le canzoni russe, distribuivano volantini patriottici e cercavano di aggirare la censura per far circolare romanzi, poesie e opere teatrali. Ma non avendo alcuna esperienza di attività clandestina furono sgominati in poco tempo dalla polizia segreta sovietica. Alla fine di giugno del 1941 vennero arrestati quasi tutti e messi a morte in seguito a processi dall’esito scontato. Dopo la guerra le condanne capitali divennero meno frequenti e furono sostituite con pene dai dieci ai venticinque anni di lavori forzati. Ma anche gli anni ‘60 e ‘70 furono segnati da coraggiose proteste e attività clandestine contro l’industrializzazione forzata e le gravissime limitazioni alla libertà di culto e all’uso della lingua lettone.
Quando la russificazione della vita pubblica impose l’utilizzo del russo come lingua ufficiale, la cultura nazionale divenne una sorta di fortezza spirituale che spiega anche l’enorme popolarità di molti artisti, scrittori, pittori, compositori e registi. Mentre venivano contrabbandate le opere proibite di Pasternak, di Solženicyn e di Sacharov, i gruppi religiosi ortodossi, cattolici, battisti ed ebrei copiavano di nascosto i libri di preghiere. I pannelli della mostra fanno riemergere dall’oblio i volti e le storie di tanti uomini e donne che vissero sulla propria pelle l’orrore di questo edificio dopo aver osato ribellarsi alla dittatura. La repressione fu così spietata da non risparmiare neanche gli atleti famosi: nel 1942 Edgars Ruja fu arrestato e fucilato per essersi unito al movimento clandestino. Sette anni prima aveva vinto il campionato europeo di pallacanestro con la nazionale lettone. Bruno Javoiss era uno studente al primo anno di ingegneria quando nel 1963 issò la bandiera lettone sulla torre della radio: un gesto coraggioso che gli costò una condanna a sette anni di carcere. Zanis Skudra era invece uno storico locale che raccoglieva scritti che documentavano la vita quotidiana nella Lettonia occupata e immagini di chiese distrutte: nel 1978 venne arrestato e condannato a dodici anni di prigione. L’attivista per i diritti umani Gunars Astra, condannato a ventisette anni di carcere, fu amnistiato nel 1988 ma morì poco dopo in circostanze misteriose. Tra i simboli del movimento nonviolento lettone c’è anche la grande poetessa Vizma Belsevica, tradotta in decine di lingue e più volte candidata al Nobel per la letteratura. A lungo fu oggetto anche lei delle attenzioni dei servizi segreti sovietici e in più occasioni il regime cercò di soffocare la sua voce proibendo la pubblicazione dei suoi libri. Ma mezzo secolo di resistenza antisovietica avrebbe contribuito a forgiare il forte sentimento di identità nazionale del popolo lettone. Il 14 giugno 1987, in occasione del 47esimo anniversario dell’“anno orribile”, una gigantesca marea umana partecipò alla manifestazione pacifica anticomunista organizzata dal gruppo Helsinki 86 nel centro di Riga, davanti al Monumento alla Libertà. Fu la prima scintilla di un percorso che sarebbe culminato nella dichiarazione d’indipendenza del 4 maggio 1990.
Riccardo Michelucci

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