“La mia Jugoslavia, un mondo perduto”

Avvenire, 25 febbraio 2023

“Voi due siete dall’altra parte del confine. Come se qualcuno avesse tracciato una linea attraverso il mio corpo. Ci hanno divisi, ci hanno divisi tutti. Hanno tracciato una linea di confine tra me, mia madre e mio padre. Ora c’è qualcuno che decide se posso vedere i miei genitori”. Non è una divisione generata solo dai checkpoint o dalle carte geografiche, bensì un’irrimediabile lacerazione dei rapporti umani quella di cui parla Vesna, la madre del protagonista di All’ombra del fico (traduzione di Patrizia Raveggi, Keller editore, pagg. 480, euro 20), ponderoso romanzo multi-generazionale ambientato nell’ultimo mezzo secolo di storia dei Balcani. Una saga familiare in cui la perdita dei legami personali diventa una potente metafora della disgregazione della Jugoslavia e dei radicali cambiamenti di prospettiva che derivarono dalla fine di quel mondo. Non a caso l’autore, lo sloveno Goran Vojnovic, è nato nel 1980 subito dopo la morte di Tito e appartiene a una generazione che si è ritrovata priva di identità in un Paese che all’improvviso cessò di esistere.

Il suo lungo viaggio avanti e indietro nel tempo ci conduce dagli anni ‘50 fino ai giorni nostri, componendo un mosaico di piccole storie in parte autobiografiche che si svolgono in Slovenia, in Bosnia e in Croazia. I luoghi che custodiscono anche le radici familiari dell’autore. “Tutti i miei romanzi sono in una certa misura autobiografici, perché quello che cerco di ricreare è il mio mondo interiore. Ma poi comincio a giocare con la memoria per cercare risposte attraverso la letteratura”, ci spiega. Regista, sceneggiatore e scrittore con all’attivo due precedenti romanzi tradotti in italiano (Cefuri raus! e Jugoslavia, terra mia), Vojnovic è uno degli ospiti più attesi alla seconda edizione di “Testo”, il salone del libro in programma questo fine settimana a Firenze, dove presenterà in anteprima italiana il suo ultimo romanzo All’ombra del fico, già tradotto in una decina di Paesi.
Il protagonista è Jadran Dizdar, un uomo sulla trentina che viene abbandonato dalla moglie mentre sta elaborando la morte di suo nonno. Questi due eventi innescano dentro di lui un flusso di ricordi che lo porta a ricostruire la storia della sua famiglia nel disperato tentativo di dare una spiegazione razionale al presente. Nonno Aleksandar e nonna Jana, con un fico ostinatamente – e simbolicamente – radicato nel giardino della loro amata casa istriana, incarnano i destini contrastanti che hanno attirato a lungo serbi, croati e sloveni in un’esperienza di vita condivisa. Suo padre, il bosniaco Safet, è un uomo lunatico che sfida gli stereotipi e scompare quando scoppia la guerra nei primi anni ‘90. Le donne della famiglia – la moglie Anya, la madre Vesna, l’antenata Ester – hanno “il semplice obiettivo di sopravvivere senza umiliazioni e oppressioni” mentre gli uomini bruciano i ponti dietro di loro ma non riescono a lasciarsi il passato alle spalle.
Attraverso le generazioni, Vojnovic racconta il ciclico ripetersi di lealtà e tradimenti, intimità e abbandoni senza soffermarsi troppo sulle ambientazioni dell’epoca, meno che mai sulle analisi politiche. Gli eventi storici e le cosiddette identità “etniche” si insinuano nella vita reale a poco poco, attraverso gli imbrogli burocratici e le barzellette – come quando parenti bosniaci e sloveni ubriachi si scambiano insulti, finché non viene oltrepassato un crinale che rischia di farsi pericoloso. Nei litigi domestici risuonano echi non troppo lontani di un conflitto definito da qualcuno “la guerra che tutti si erano meritati”.
Il cosiddetto “Heimat”, ovvero il senso di appartenenza e l’identità, ha finora caratterizzato tutti i suoi romanzi. Rappresenta anche un modo per rielaborare il suo passato personale?
In All’ombra del fico sono presenti molti collegamenti con la mia vita ma di fatto quelli che racconto non sono i miei ricordi personali. Ho cercato di ricreare il mondo che è andato perduto a causa della guerra degli anni ‘90. Quando cresci in un Paese come la Jugoslavia che poi scompare all’improvviso devi inevitabilmente fare i conti con un’identità che non esiste più. Anche adesso, vivo in Slovenia ma la mia lingua madre è il serbo-croato, non lo sloveno, perché i miei genitori sono originari della Bosnia. Quelli della mia generazione, e non soltanto loro, hanno dovuto ripensare tutto dall’inizio e reinventarsi completamente. Io non riesco a fuggire dalle storie che riguardano il passato e l’identità, anche se in realtà vorrei. La guerra ha cambiato tutto, non ha distrutto solo la Jugoslavia ma anche il mio spazio intimo e ha ridefinito il modo in cui osservo il mondo. Ho iniziato a sentirmi straniero a casa mia, non potevo più andare a trovare i miei parenti in alcune parti del Paese. Il mondo della mia infanzia è scomparso per sempre.
I personaggi di questo libro compiono scelte che possono apparire inspiegabili, spiazzanti, sulle quali ci costringono a interrogarci.
Proprio così. Per me la letteratura è un modo per andare alla ricerca di risposte. Scrivo per trovare spiegazioni a certi fatti, indago i comportanti delle persone, cerco di capire perché fanno determinate cose, prendono certe decisioni che talvolta possono apparire incomprensibili.
Questo è un romanzo storico ma anche intensamente psicologico, ricco di silenzi e cose non dette tra i protagonisti che hanno un effetto assai distruttivo sui loro rapporti.
Nelle mie storie cerco generalmente di raccontare momenti di vita vissuta partendo dal presupposto che ogni storia è in qualche misura manipolata e ogni memoria può risultare ingannevole, perché fa parte di una storia più ampia della quale evidenziamo solo alcuni elementi. E molte cose rimangono appunto non dette.
Lo stile che ha usato in All’ombra del fico è molto diverso dai suoi romanzi precedenti. Ci sono i monologhi interiori, ad esempio. Il suo lavoro di regista e sceneggiatore ha influenzato la sua scrittura?
L’uso dei monologhi non è stata una scelta del tutto razionale ma è venuta da sé, in modo quasi naturale, durante la stesura perché Jadran, il protagonista, è un uomo molto introverso che spesso dialoga più con sé stesso che con il mondo esterno. Ogni volta che inizio a scrivere un libro mi domando a lungo quale sia la giusta lingua da usare. Sicuramente per me la scrittura filmica si combina con quella letteraria, è un dialogo e un confronto costante tra due modi di raccontare diversi ma in un certo senso complementari.
Il fico è una pianta che già il Vecchio Testamento aveva indicato come un simbolo di abbondanza legato alla Terra Promessa. Ha voluto creare anche una metafora legata al Vangelo?
C’è una metafora nell’ultimo capitolo ma se è legata al Vangelo non è stato intenzionale. A Pola, di fronte alla casa dov’è cresciuta mia madre, c’è davvero un fico. Quell’albero è quindi per me un albero vero, tangibile, ma al tempo stesso anche un elemento di finzione. Una delle cose che amo di più della letteratura è il fatto che per ogni parola possiamo creare immagini e sentimenti diversi da comunicare agli altri.

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