Avvenire, 29 marzo 2023
Il racconto intimo della pulizia etnica di una metropoli europea. La cronaca di un urbicidio. Un ambizioso romanzo politico che diventa anche l’affresco di un’epoca tragica che speravamo di esserci lasciati alle spalle. Il bosniaco Damir Ovcina non sarebbe mai riuscito a scriverlo, se da ragazzo non avesse vissuto sulla propria pelle l’orrore nella sua città, Sarajevo, durante il più lungo assedio dai tempi della Seconda guerra mondiale. Il suo romanzo Preghiera nell’assedio (Keller, traduzione di Estera Miocic, pagg. 704, euro 22) è un’opera prima che trasforma quell’orrore in letteratura con uno stile diretto, un’oggettività descrittiva fatta di dettagli minuti ma vigorosamente esplicativi e una lingua che è specchio della desolazione e dell’impotenza di chi visse quei quattro anni di assedio. E anche un romanzo in parte autobiografico, in cui l’esperienza personale si fa narrazione quasi documentaria.
“Per me la letteratura consiste nell’esplorare i differenti sviluppi della vita, le diverse probabilità. Alcuni dei fatti che racconto li ho vissuti personalmente, altri avrei comunque potuto viverli in quel periodo. Un giorno di aprile del 1992 stavo tornando a casa dal centro della città quando ho visto per la prima volta la polizia serba che fermava gli autobus. Il giorno dopo c’erano sempre più truppe armate fino ai denti che montavano posti di blocco lungo le strade. Sentivamo tutti che stava per accadere qualcosa, ma non avevamo abbastanza immaginazione per capire che saremmo arrivati a quel punto”.
Il protagonista del romanzo è un giovane di diciassette anni – la stessa età dell’autore all’epoca – che vive a Sarajevo con la sua famiglia e un giorno di quella tragica primavera del 1992 va a visitare un amico nel quartiere di Grbavica. È una decisione apparentemente irrilevante che però cambierà la sua vita per sempre, perché proprio quel pomeriggio inizia l’assedio e lui si ritrova all’improvviso in territorio nemico in un’area isolata dal resto della città. Non potrà più tornare a casa e per lunghi mesi sarà costretto a lavorare in un plotone dedito alla sepoltura dei cadaveri e allo svuotamento degli appartamenti abbandonati. Ovcina afferma di aver conosciuto davvero alcune persone che furono obbligate a svolgere compiti del genere: “erano praticamente schiavi, se si fossero rifiutati di farlo sarebbero stati fucilati. Inumavano i corpi sotto gli alberi o sul ciglio delle strada, consegnavano le masserizie ai commercianti o ai vicini serbi”. Per confrontarsi con quella barbarie lo scrittore bosniaco utilizza una lingua in prima persona ricca di ellissi, spesso priva di aggettivi, con pochi verbi e frasi semplici che riducono i fatti a una scarna essenzialità. Scava con le parole nei pensieri e nelle coscienze di alcune figure umane ma non dà un nome a nessuno dei suoi personaggi, neanche al protagonista, perché vuol far capire quanto la guerra li ha ormai spersonalizzati del tutto, privandoli della loro umanità. “Mentre scrivevo mi sono reso conto che i nomi sarebbero stati di troppo, perché spesso indicano le origini e la provenienza di una persona, e io non volevo connotare in alcun modo i miei personaggi”, ci spiega al telefono dalla sua casa di Sarajevo, dove vive tuttora.
Nell’originale in lingua serbo-bosniaca il suo romanzo si intitola Kad sam bio hodža (“Quando ero Hodja”) e allude al nome che il ragazzo riceve dai suoi aguzzini serbi. Hodja è un termine che significa “maestro” o “insegnante” e viene dato di solito ai ministri di culto musulmano. Il ragazzo non è particolarmente religioso ma ricorda una preghiera musulmana e a volte la sussurra durante le sepolture. Per questo i soldati serbi, spesso ubriachi, lo ribattezzano in quel modo e lo costringono a cantare canzoni popolari mentre compiono violenze indicibili. Per uscire da quell’inferno e sopravvivere dovrà infine diventare lui stesso un assassino. Ma anche tra le macerie di quella guerra Ovcina lascia trasparire qualche barlume di umanità, di amore, di amicizia. “Ho sentito quasi l’obbligo morale di scrivere un libro come questo, perché la letteratura è testimonianza e io ho voluto far sì che ciò che abbiamo vissuto in quegli anni non scomparisse”.
Preghiera nell’assedio è già stato tradotto in molte lingue ed è in preparazione anche un adattamento cinematografico ma quando è uscito in Bosnia per la prima volta – nel 2016 – erano già trascorsi due decenni dalla fine della guerra. “All’inizio trovavo quasi impossibile ripensare a quanto era accaduto, e scriverne era ancora più difficile. Il processo di rielaborazione di quei fatti è stato lungo. In un primo momento ho preferito leggere libri e scrivere poesie, finché il tempo non mi ha aiutato a declinare quei ricordi nel modo che ritenevo adeguato”. A metà strada tra un lungo flusso di coscienza e un diario in cui il narratore descrive meticolosamente, quasi in presa diretta, tutto ciò che vede – strade, macchine, persone, oggetti – rivelando al tempo stesso i suoi stati d’animo. Il protagonista si trova nel cuore della narrazione ma mantiene anche il distacco di un osservatore. C’è un passaggio che suona quasi come un mea culpa, in cui afferma che è stata l’incapacità di prevedere quei fatti a portare lui e gli altri abitanti sull’orlo dell’abisso: “Di incubi ne ho sempre avuti. Ora capisco perché. D’altra parte è difficile immaginare il male. La gente rimane prigioniera di queste situazioni proprio perché incapace di immaginarle. L’unica cosa che l’essere umano ha per difendersi nella vita è l’immaginazione. E senza arte non c’è immaginazione. Ecco, tu hai l’età di mio figlio, forse vi conoscete anche. Da un giorno all’altro siete stati costretti ad abbandonare una vita normale, il vostro mondo, per fare ciò che mai nessuno si sarebbe immaginato”.
Nel frattempo, Damir Ovcina ha già pubblicato un nuovo romanzo che è il seguito di questo, ambientato vent’anni dopo la fine della guerra. Ma è consapevole che non avrebbe mai potuto raccontare l’assedio di Sarajevo con una tale accuratezza e profondità se non fosse stato lui stesso una vittima. “Non è stata la guerra a farmi diventare uno scrittore – precisa -. “Una guerra può distruggerti, può renderti un’altra persona e metterti di fronte ai lati più estremi della natura umana. Nel mio caso, credo che mi abbia reso più forte e più sensibile. E se è vero che la letteratura serve anche a combattere le semplificazioni e il travisamento della realtà, spero che possa contribuire anche a cambiare l’immagine stereotipata dei Balcani. Spesso sono raccontati come una polveriera in cui le persone si divertono a scannarsi senza alcun motivo. Ma non è affatto vero”.