Nel 17° anniversario della morte del grande Alex Langer riproponiamo questo suo testo autobiografico scritto nel 1986 per la rubrica Minima personalia della rivista Belfagor.
«Perché papà non va mai in chiesa?».
Crescendo a Sterzing (950 m, 4000 abitanti), in una famiglia democratica e borghese, che a casa parla in lingua (tedesca) invece che in dialetto tirolese e nella quale si respira un clima molto rispettoso e tollerante, mi inquieta molto il fatto che mio padre non vada mai in chiesa.
Un giorno, approfittando del mio compleanno, oso chiedere alla mamma il perché. Me ne sento un po’ in colpa, come anche per il fatto di non parlare in dialetto. «Il papà, stando in ospedale tutto il giorno e tutti i giorni (era l’unico medico chirurgo del circondario) serve Dio in altri modi – te lo potrà confermare il cappellano che va bene così.» Il cappellano, un prete cecoslovacco in esilio, conferma.
Più tardi mia madre mi spiega anche che mio padre è di origine ebraica e che non conta tanto in che cosa si crede ma come si vive. Lei, in quegli anni, fa parte del consiglio comunale, come indipendente eletta sulla lista «tedesca» della Svp, ma ne esce presto, quando il clima peggiora e la richiesta di avere antifascisti in lista non è più così forte.
Nella mia cittadina, che amo molto, sento una certa estraneità che mi rende facile il passaggio precoce alla scuola media, a Bolzano, dai francescani. Faccio il pendolare settimanale con Bolzano, per la scuola (a Vipiteno, paradossalmente, solo gli italiani hanno le scuole superiori: un quarto della popolazione, ma con i figli degli ufficiali). Chiedere il biglietto o un’informazione in tedesco è impensabile. In città ci si sente proprio in minoranza, da tirolesi. Sul mio autobus (linea 3 di Bolzano) siamo solo due bambini di lingua tedesca. I fascisti fanno cortei per l’Ungheria e per «Magnago a morte». Me ne sento minacciato anch’io e comincio a sentire il fascino della resistenza etnica.
Ogni sabato leggo la terza pagina del Dolomiten che riporta capisaldi della storia sudtirolese, informa sui soprusi degli italiani, delle promesse non mantenute dallo Stato, di come si viveva sotto il fascismo. Il processo contro i «ragazzi di Pfunders» (accusati -credo ingiustamente- di avere ucciso un finanziere, in seguito ad una lite d’osteria, e duramente condannati) mi emoziona e mi indigna. Quando una mattina, passando in treno da Waidbruck (Ponte Gardena), vedo che il «duce di alluminio» è stato fatto saltare di notte, ne sono contento. Fanfani prometterà poi di ripristinare quella statua equestre al «genio italico» che rappresentava Mussolini a cavallo, ma non succederà mai.
«Perché noi non odiamo gli italiani?».
Percepisco che il clima in casa è diverso da quello fuori, anche nella seconda metà degli anni ’50, quando si va verso gli attentati dell’autonomismo ed irredentismo tirolese. So già abbastanza bene l’italiano: i genitori ci tengono che a scuola io lo studi bene, e mi avevano persino mandato all’asilo italiano. Insieme ai fratelli registro la differenza etno-linguistica tra la gente come un gioco: per strada ci mettiamo a indovinare chi è «tedesco» e chi «italiano», e verifichiamo col saluto. Non ci si sbaglia quasi mai.
Dopo i primi attentati avverto una certa differenza di tono tra mia madre (più solidale con le ragioni tirolesi) e mio padre (più preoccupato dei possibili rigurgiti nazisti). Più marcata è la differenza di toni in famiglia e fuori. Mi sento un po’ insicuro se un «ciao» italiano -usato in famiglia- possa essere un tradimento, una dissociazione.
A mia madre chiedo: «perché noi non odiamo gli italiani?».
Mi spiega, tra l’altro, che se è vero che i fascisti hanno licenziato mio padre nel 1938, per via delle leggi razziali, è anche vero che dopo il ’43 sono stati degli italiani a salvargli la vita: il magistrato toscano Giovanni Bigazzi, l’avvocato trentino Domenico Boni, uno sconosciuto contrabbandiere e qualcun altro. E che, viceversa, lei ed i suoi genitori, perché contrari all’opzione per la Germania di Hitler, erano stati isolati nel paese. «Né tutti i tedeschi, né tutti gli italiani sono buoni o cattivi, bisogna distinguere».
Bandiere.
Mi piace molto girare il mondo, e per fortuna i genitori me lo permettono, anche se vado molto da solo. A piedi, in montagna, nei dintorni di Sterzing; in bicicletta, con un raggio d’azione che arriva fino al lago di Garda, all’Engadina, nel Nordtirolo; poi con un ciclomotore che mi regalano: scopro la pianura padana, la Lombardia, la Toscana, l’Umbria, i monumenti studiati nella storia dell’arte, i luoghi di cui ho letto nei libri. Più tardi l’Europa. Mi piace dormire negli ostelli, conoscere giovani di altri paesi. Ho sempre trovato complicato spiegare da dove vengo. «Ma allora sei italiano o tedesco?».
Nessuna delle bandiere che spesso svettano davanti a ostelli o campeggi è la mia. Non ne sento la mancanza. In compenso riesco, con il tedesco e l’italiano, a parlare ed a capire nell’arco che va dalla Danimarca alla Sicilia.
(A proposito di bandiere: a casa mia non si è mai issata la bandiera tirolese, né alcun’altra bandiera. Nella festa del Sacro Cuore passava qualcuno che si segnava sul taccuino le case con bandiera. Per conto del partito tirolese. Un altro faceva la stessa cosa, per conto della Questura.)
Né giudeo né greco.
Il primo ideale universale che riesce a convincermi ed a coinvolgermi è quello cristiano. I miei genitori non ne sono entusiasti, ma non mi reprimono. Leggo, rifletto, prego. « Mi impegno », sentendo questo impegno come cosa molto seria. Cerco di lavorare in senso ecumenico, come in quel tempo si dice: per il superamento della concorrenza tra associazioni cattoliche; per un dialogo e conoscenza reciproca con i (pochi) protestanti di Bolzano; per momenti comuni tra cattolici italiani e tedeschi. Ognuno di questi gradini presenta qualche difficoltà in più rispetto a quello precedente. Sono gli anni del Concilio. Molte le aperture e le speranze. E’ bello sentirsi parte di una comunità universale in cui non si distingue «né giudeo né greco». Ci rimango anche durante gli anni dell’Università, nella Fuci.
Come non sono diventato comunista.
Magari per sensi di colpa, magari per sensibilità sociale cristiana, magari per istinto di giustizia sento molto interesse « per i poveri » e per le questioni sociali. Con altri organizzo un servizio per portare legna a vecchi indigenti. Dò lezioni gratuite a ragazzi poveri. Mi piacerebbe anche sapere (e far sapere) come sono i comunisti. E benché da noi del comunismo ci si faccia un’idea piuttosto per aver sentito parlare di Budapest o di Praga che non del sindacato o della resistenza, prendo il coraggio a quattro mani e vado ad intervistare per il nostro periodico di liceo (Offenes Wort, “parola aperta”, da me fondato) il segretario della federazione giovanile comunista Anselmo Gouthier, uno che poi farà carriera fino alla segreteria del partito ed al parlamento europeo. Si parla in italiano, sono fiero di riuscire a condurre un’intervista in una lingua non mia. Gouthier parla di frontiere inviolabili, e che se si mette in discussione il Brennero, vacilla anche l’Oder-Neisse.
Cerco di capire cosa fanno i comunisti, e vengo a sapere che tengono «attivi». Per essere un’intervista che a scuola e presso i francescani mi costa caro, mi sembra molto magra e deludente. Forse se mi avesse spiegato in termini semplici che il mondo non si divide solo in italiani e tedeschi, credenti e non credenti, buoni e cattivi, come magari io lo vedevo, ma anche in classi, e che questo lo si poteva riscontrare anche nella realtà sudtirolese, chissà… Così invece mi appariva più concreta la San Vincenzo. E solo molti anni dopo ho saputo che a Bruneck (Brunico) in quegli anni qualcuno aveva fatto del marxismo uno strumento critico per capire meglio la situazione in cui agiva. Ma era stato a studiare fuori.
Un gruppo misto.
Insieme a diversi amici comincio a capire -a metà degli anni ’60- che forse un «gruppo misto» può essere la chiave per capire ed affrontare i problemi del Sudtirolo: sperimentare la convivenza in piccolo. Il gruppo si raccoglie, i più sono di provenienza cristiana, qualche non credente, ragazze e ragazzi, di madrelingua tedesca, italiana, ladina. Cominciamo a incontrarci regolarmente, a studiare insieme la storia della nostra terra (scoprendo le reciproche omissioni e reticenze), a farci un’idea di come potrebbero andare le cose. Ci sentiamo impegnati contro gli attentati (ormai di matrice neonazista, e con i servizi segreti implicati), per una giusta riforma dell’autonomia, per un futuro di convivenza e rispetto, nella conoscenza reciproca di lingue e culture. (Ma io, per non essere chiamato «Alessandro» dagli amici italiani, che allora trovavano naturale tradurre tutto in italiano, preferisco ricorrere all’abbreviazione «Alex».)
Ci sforziamo di fare in modo che le critiche ai «tedeschi» vengano formulate da «tedeschi», e viceversa. Il nostro gruppo non ha nome, non compare in pubblico, ma in breve diventa un nucleo di elaborazione e di proposta che nel 1967 se la sente persino di indire un convegno, con 200 partecipanti, promosso da «6 giovani sudtirolesi» (i firmatari dell’invito di convocazione), con un benevolo appoggio di Umberto Segre su Il Giorno.
Comprendiamo che ci occorrono amici anche fuori provincia, e che dobbiamo creare rapporti con l’opinione pubblica democratica italiana ed austriaca, se vogliamo uscire dal periodo delle bombe ed entrare in una stagione democratica ed autonomistica. Comincia a far riferimento al nostro gruppo – tuttora piuttosto impolitico, e senza legami con alcun partito – anche Lidia Menapace, allora assessore provinciale (Dc) alla sanità, una delle poche persone di madrelingua italiana pienamente convinte della necessità di una riforma coraggiosamente autonomistica dello statuto sudtirolese. Insieme a Lidia in autunno faccio una tournée di buona volontà a Roma, a Innsbruck, a Vienna. Aiutati dal Mir (Movimento internazionale di riconciliazione) teniamo conferenze sull’Alto Adige, ed abbiamo qualche incontro con personalità di rilievo, tra cui il card. König di Vienna.
La nostra ispirazione e la nostra pratica – per niente estremista e lontana dal popolo – avrebbe potuto costruire la base sociale ed ideale per dare respiro e sbocco al «pacchetto di autonomia». Invece le forze dominanti (Dc, Svp) preferiranno un accordo tutto diplomatico, concordatario, basato sulla reciproca delimitazione e contrapposizione dei gruppi etnici come blocchi.
Dissidenti sudtirolesi.
A metà degli anni ’60 comincia a manifestarsi un po’ più liberamente il dissenso sudtirolese di lingua tedesca. Principale luogo di incubazione: la Südtiroler Hochschülerschaft , l’associazione degli universitari, i quali -essendo il Sudtirolo privo di Università- sono sparsi in numerose città universitarie, a maggioranza in Austria: Innsbruck, Vienna, Graz, Padova, Firenze, Milano, Bologna, Salisburgo, Roma, Monaco, Zurigo, Venezia…
Sarà questa la prima – ed a tutt’oggi l’unica – organizzazione di massa sudtirolese in cui prevale, fin da quel tempo, una maggioranza non conformista. Mi ci impegno anch’io, rafforzato dal fatto di avere un «gruppo misto» alle spalle. I nostri temi principali sono la battaglia per la democratizzazione ed il pluralismo ideale e politico nella comunità di lingua tedesca.
Non ci basterà lo skolast, la rivista degli universitari. Con Siegfried Stuffer e Josef Schmid fondiamo die brücke, “il ponte”, nel 1967. Non sempre siamo d’accordo su tutto: quando scrivo della necessità di una «nuova sinistra» (novembre 1967) e di arrivare all’organizzazione pluri-etnica nella politica sudtirolese (1968), il collettivo redazionale vuole sottolineare che si tratta di idee solo mie. Sul «pacchetto» si delinea una posizione comune: fare presto ed andare oltre.
Nel 1969 die brücke, che dal 1968 aveva cominciato ad ospitare articoli anche in lingua italiana, cessa le pubblicazioni. Le strade dei redattori si dividono: chi approda alla socialdemocrazia sudtirolese, chi al partito comunista, chi alla sinistra extra-istituzionale. Nel nostro «laboratorio letterario» hanno pubblicato le loro prime opere Norbert C. Kaser, Joseph Zoderer, Roland Kristanell ed altri. E nell’insieme die brücke aveva dimostrato la possibilità di un cammino autoctono della giovane sinistra tirolese.
Tra i suoi interlocutori più solidali e disponibili troviamo l’avv. Sandro Canestrini, uomo di sinistra che ha saputo capire e distinguere tra i «dinamitardi» tirolesi e il bacillo neonazista.
Firenze.
Senza molta convinzione mi iscrivo a giurisprudenza. Con molta convinzione vado a studiare a Firenze. Ci resto intensamente dal 1964 al 1967. Meno intensamente ci starò anche nel 1968. Non me ne pentirò mai. Sono gli anni del dialogo tra cattolici e marxisti. Vengo a conoscere la variegata sinistra italiana. Scopro in particolare la sua componente popolare.
Incontro Giorgio La Pira, mio professore; Ernesto Balducci, che ogni settimana tiene una lezione sul Concilio, al cenacolo. Entro in contatto con Il Ponte di Enriques Agnoletti (pubblicherà nel 1967 un mio lungo articolo sul Sudtirolo), con Testimonianze (che anche mi invita a scrivere), con Politica (idem). Conosco Giorgio Spini, Paolo Frezza, Enzo Mazzi, Paolo Barile (con cui mi laureo), tanti altri. Imparo ad apprezzare i pregi della democrazia italiana. Vedo i comunisti da vicino, seguo le vicende del dissenso cattolico, vado ai dibattiti, faccio amicizie.
L’incontro più profondo è con Don Milani e la sua scuola di Barbiana, per la quale insieme ad una vecchia ebrea austro-boema, Marianne Andre, tradurrò in tedesco Lettera ad una professoressa (pubblicata nel 1970). Come farò a non diventare «maestro» anch’io?
Il ’68 in provincia.
Per il forte impegno locale passo il quarto anno di Università prevalentemente a casa, nel Sudtirolo. Così mi capita di partecipare ai movimenti del ’68 in periferia. La nostra campagna anti-Springer, virulenta e convinta, è contro il monopolio del Dolomiten e l’editore Ebner. Pubblichiamo sulla brücke articoli sul movimento studentesco (ma abbiamo scarsi contatti con Trento). Nel corso della mia prima supplenza di tedesco, al liceo scientifico italiano di Bolzano, occupiamo la scuola per alcuni giorni; tra le rivendicazioni degli studenti: imparare il tedesco così bene come i loro coetanei tirolesi imparano l’italiano.
Durante una visita del ministro Gui per la campagna elettorale della Dc assediamo il Municipio con un grande sit-in. Il ministro deve uscire dalla porta di servizio.
In primavera voto Pci (se fossi stato a Firenze, avrei votato per il Psiup), con preferenza al candidato di lingua tedesca. E’ il mio primo voto, dato in mancanza di meglio. In estate, con amici, visito la Germania orientale e la Cecoslovacchia, dove assisto all’invasione sovietica ed ai primi giorni di occupazione (rimaniamo più a lungo che si può).
In autunno lavoro per conto del Cnr a Bonn, per una ricerca di diritto costituzionale comparato, e conosco più da vicino l’Apo (opposizione extra-parlamentare).
La Germania, l’Austria.
La mia formazione «letteraria» (dalle fiabe ai libri di avventura, dai classici ai contemporanei) è avvenuta praticamente tutta in lingua tedesca. I miei studi, i miei incontri, le mie frequentazioni invece hanno un segno più italiano. Così mi resta una forte domanda di conoscenza del mondo di lingua tedesca dall’interno. Dopo la conclusione del corso di studi a Firenze, cerco e trovo occasioni per fare questa conoscenza ravvicinata, che mi accompagnerà poi per sempre.
Un anno a Bonn, con il mio posto di lavoro alla biblioteca del Bundestag e l’iscrizione come Gasthörer all’Università; viaggi in molte città tedesche, austriache e svizzere; articoli pubblicati -dal 1967- su giornali e riviste di questi paesi; amicizie o scambi epistolari; un secondo soggiorno prolungato in Germania (autunno 1973 – estate 1975) con la costruzione di un vero e proprio osservatorio politico e sociale (per conto di «lotta continua») sui paesi dell’Europa centrale e nordica, e con numerosi contatti con operai e sindacalisti tedeschi, austriaci, immigrati, gruppettari, militanti, studiosi.
Diventa sempre più ricco, più fitto e più variegato il reticolo di rapporti, di scambi, di ponti.
Nel periodo in cui a nord delle Alpi si guarda con interesse ed invidia all’Italia, sono ritenuto «esperto» di cose italiane: nelle conferenze e nei dibattiti che tengo a Berlino, a Vienna, ad Amburgo, a Innsbruck, a Berna, a Francoforte, a Colonia, a Utrecht, parlo delle lotte, delle organizzazioni sociali, della particolare spontaneità ed autonomia di classe in Italia; a sud delle Alpi, insieme ad altri compagni, cerchiamo di far conoscere la realtà del «proletariato multinazionale europeo».
Più tardi le parti si invertiranno, per qualche tempo, ed in Italia scoppierà la voglia di conoscere la Germania, l’Austria, i verdi, le Bürgerinitiativen. Sul mio ponte si transita in entrambe le direzioni, e sono contento di poter contribuire a far circolare idee e persone. Non mi viene mai alcun senso di inferiorità rispetto ai tedeschi delle madrepatrie: a volte mi sembra, anzi, che da sudtirolese certe cose della cultura tedesca si apprezzino di più.
Il primo sciopero sudtirolese.
Nel 1969 l’autunno caldo ha riflessi persino nel Sudtirolo. I1 17 settembre c’è lo sciopero nazionale dei metalmeccanici. Decidiamo di portarlo davanti ai cancelli di una fabbrica sudtirolese: la Durst, a Brixen (Bressanone).
In una decina di persone, prevalentemente di lingua tedesca, siamo lì all’alba. Per essere creduti mostriamo il Dolomiten che annuncia lo sciopero nazionale. Si formano subito capannelli, quasi nessuno entra. Una segretaria di direzione inveisce e strilla contro di noi. Gli operai del pullmino della valle non varcano il cancello.
Quando arriva di gran carriera il direttore del personale, chiamato d’urgenza, investe con la macchina un operaio. E’ la goccia che fa traboccare il vaso: «pensate se l’avesse ferito gravemente o ucciso… il Gasser ha quattro figli!».
Lo sciopero riesce in pieno, facciamo un’assemblea con gli operai nell’osteria vicina, veniamo festeggiati, ci pagano da bere.
Parliamo di rivendicazioni ugualitarie, troviamo consenso. Quando poi ci capita di parlare con un operaio che nel suo paese fa il sagrestano, e proponiamo qualche idea ugualitaria anche per l’andamento delle cose di chiesa, lui è decisamente contrario. Ma si complimenta con noi per la riuscita dello sciopero.
Ancora dopo anni ripenso con piacere a questo sciopero.
Intanto i padroni si faranno più avveduti, e per distribuire un volantino agli operai pendolari della Val Sarentino o della Val di Non bisognerà inseguirne la corriera fino ai luoghi di origine.
Giornali.
Scrivo molto, forse troppo, per svariati giornali e riviste (amo, invece, i giorni senza giornali). Non so dire di no a chi me lo chiede. Così non arrivo mai a scrivere un libro: quello che mi premerebbe tanto, sarebbe un buon libro per capire il Sudtirolo; in versione italiana e tedesca.
Dall’inizio degli anni ’60 scrivo articoli. Ho contribuito a fondare e dirigere diversi giornali: in particolare Offenes Wort, die brücke, Tandem, sono i giornali non certo più prestigiosi, tra quelli dove pubblico articoli, ma ci sono più affezionato. Per un certo tempo faccio il direttore responsabile (per la legge) a lotta continua, dove svolgo anche il mio praticantato per diventare, previo esame, giornalista professionista. Il progetto giornalistico al quale terrei maggiormente, sarebbe un buon giornale bilingue (settimanale prima, quotidiano poi) per il Sudtirolo, come prefigurato da Tandem (1981-82). Ma occorrerebbe un qualche tangibile sostegno democratico dall’Austria, dall’Italia, forse dalla Germania. Ed invece arrivano sempre solo deplorazioni quando le bombe sono già scoppiate. Per il resto solo comprensione ed incoraggiamenti generici.
L’insegnamento.
Svolgo con grande impegno e passione il compito di insegnante. In due periodi (1969-’72, 1975-’78) la scuola mi assorbe con particolare intensità. Insegno filosofia e storia, nei licei classici di lingua tedesca a Bolzano e Merano, in un liceo scientifico della periferia di Roma (XXIII liceo scientifico statale).
La mia vita nella scuola non è facile, costellata di trasferimenti punitivi, di note di qualifica con «sufficiente» e «buono», con frequenti interventi repressivi di presidi e provveditori. Mai un appunto sulla qualità della mia preparazione o dell’insegnamento, o un richiamo per scorrettezze disciplinari. Mi si rimprovera di «fare politica» e di non rispettare i ruoli prestabiliti.
Il rapporto con gli alunni, invece, è gratificante e durevole.
Assai diversa la situazione nel Sudtirolo ed a Roma. Mentre a Bolzano e Merano la scuola è un luogo reale di acquisizione di sapere, decisivo nella formazione intellettuale degli studenti (che in maggior parte provengono dalle campagne, abitano in collegio e prendono la scuola molto sul serio), a Roma si vive tra collettivi, cortei, assemblee ed occupazioni. Ma anche lì un passaggio decisivo nella socializzazione degli alunni si compie a scuola.
Credo -immodestamente- che la maggior parte dei miei studenti con me abbia imparato qualcosa di interessante e di importante, e ne serbi un buon ricordo. Con molti di loro il rapporto è ancora vivo.
Di Roma ricordo con piacere l’intensa solidarietà e cooperazione con molti colleghi-compagni, nel quadro di una insolita sezione sindacale Cgil.
Con i muli.
Svolgo il servizio militare tardi (a oltre 27 anni), dopo aver sperato tanto di evitarlo (grazie ai due fratelli chiamati prima di me) ed aver studiato tutte le possibilità alternative (obiezione e carcere; servizio all’estero con la legge Pedini). Quando ci vado, penso alla caserma come ad un luogo di lotta di classe e di ricomposizione del proletariato, ed in quel senso mi propongo di agire, tra i «proletari in divisa». Parto con alle spalle una recentissima assoluzione per insufficienza di prove per vilipendio alle forze armate, e finisco così in una caserma punitiva dell’artiglieria di montagna, a Saluzzo, con i muli, una disciplina rigida e una speciale e dichiarata sorveglianza a mio carico.
E’ il periodo della mia vita in cui sopporto la maggiore fatica fisica e mi trovo tra contadini ed operai non per aver scelto di «andare tra il popolo», ma per esserci stato mandato, mio malgrado, su un piede di perfetta parità.
Mi dà una grande soddisfazione che pochi giorni dopo il congedo (settembre 1973, dopo il golpe di Pinochet) un buon nucleo del nostro contingente si ritrovi davanti alla caserma per una manifestazione. Saluzzo ci guarda con stupore.
Lotta continua.
L’adesione a «lotta continua» -alla fine del 1970- giunge al termine di un processo collettivo di ricerca: in parecchi, a Bolzano, sentiamo l’esigenza di legarci ad una realtà più grande di noi.
Dopo aver sondato il panorama di gruppi ed organizzazioni- e dopo che qualcuno aveva compiuto altre scelte individuali (es. nel «manifesto ») – arriviamo a considerarci parte di Lc. C’è probabilmente anche qualcosa di regressivo in questa ricerca di «affiliazione», e sicuramente anche una buona porzione di ideologia; ma soprattutto la voglia di partecipare direttamente ed attivamente ad un processo storico che riteniamo promettente, liberatorio, «rivoluzionario», che -ci rendiamo conto- avrà i suoi epicentri altrove, non nel Sudtirolo; e questo in certa misura relativizza i problemi ai quali finora ci eravamo prevalentemente dedicati.
In Lc troviamo l’esaltazione di momenti di spontaneità, di combattività fuori dal dogma o dalla tradizione del marxismo ufficiale, e la valorizzazione di protagonisti che non vengono dalle canoniche roccheforti rosse.
«Reggio Calabria – Sudtirolo, la lotta contro lo stato» è il titolo del mio primo paginone sul quindicinale lotta continua : ritengo che in LC anche la nostra particolare esperienza locale possa trovare spazio e respiro, ed inserirsi in un processo più universale.
Ed è con Lc che lascio per la terza volta il Sudtirolo, dopo il servizio militare, e vado in Germania, dopo essermi occupato nei primi anni di adesione principalmente delle «situazioni arretrate» (come quella di Bolzano) e dei «proletari in divisa». Negli anni successivi mi dedico agli «esteri» ed acquisisco conoscenze e competenze intorno a problemi internazionali, e comincio poi a scrivere -una volta passato, nel 1975, a Roma- regolarmente sul quotidiano «con la testata rossa».
Partecipo al congresso di autoscioglimento di Lc a Rimini (fine 1976), dove sotto la spinta delle femministe l’organizzazione si dissolve. E mentre alcuni dirigenti di Lc di primo piano (a partire da Adriano Sofri) si ritirano totalmente, mi sembra di dover contribuire insieme ad altri compagni (tra i quali Paolo Brogi, Franco Travaglini, Enrico Deaglio, Clemente Manenti) all’«atterraggio morbido», proprio per evitare una rovinosa ed inconsulta ritirata o un’altrettanto rovinosa ed inconsulta radicalizzazione dei militanti la cui fiducia -che avverto- mi responsabilizza fortemente. E’ un lavoro un po’ da epigoni, e varie volte tento di sottrarmene, ma ogni volta una nuova emergenza mi richiama: il movimento del 1977, i morti di Stammheim e l’inverno tedesco, il rapimento Moro…
Nell’impegno del quotidiano lotta continua a sostegno dei referendum radicali (raccolta di firme nel 1977, campagna per il voto nel 1978) vedo un utile sbocco e caldeggio con molta energia questa scelta. Solo nell’estate del 1978 penso di potermi permettere il ritiro graduale dalla redazione e dai residui collegamenti organizzati.
“Spiegare il Sudtirolo”.
Da decenni, ormai, mi sento impegnato nello sforzo di “spiegare il Sudtirolo”; di coinvolgere l’attenzione e l’apporto di amici democratici alla causa dell’autonomia e della convivenza nella mia terra.
Al di là della necessità di evitare l’isolamento ed il piano inclinato dei revanscismi, c’è anche una forte convinzione che mi sorregge: leggo nella situazione sudtirolese una quantità di insegnamenti ed esperienze generalizzabili ben oltre un piccolo “caso” provinciale.
Essere minoranza, senza per questo chiudersi in lamentele e nostalgie; coltivare le proprie peculiarità, senza per questo scegliere il “ghetto” e finire nel razzismo; sperimentare le potenzialità di una convivenza pluri-culturale e pluri-etnica; partecipare a movimenti etno-nazionali, senza assolutizzare il dato etnico; lavorare per la comunicazione inter-comunitaria… a volte penso che tanti aspetti del futuro europeo potrebbero essere sperimentati e verificati in corpore vili, con grande profitto. Peccato che la politica dominante vada in direzione opposta (piuttosto verso Cipro, il Libano, ecc.) e che così pochi al di là dei nostri confini provinciali se ne accorgano.
Le mie città.
Ho vissuto in parecchie città diverse, per periodi più o meno lunghi. Nessuna la sento mia al punto da considerarmi suo cittadino (in questo senso solo Vipiteno è la “mia città”: però l’ho praticamente abbandonata da tanti anni), ma in molte mi capita di sentirmi a casa. E non potrò fare a meno di ritornarvi di tanto in tanto, in un giro che via via si allarga e che sento di poter ancora allargare.
I miei mestieri.
Ho avuto la fortuna di svolgere, nel corso del tempo, attività e mestieri abbastanza diversi, e di non identificarmi con alcuni di essi al punto da assumere il ruolo e di dover pensare di continuarlo per sempre. E sono contento di possedere una carta di riserva che già varie volte mi è tornata utile anche per campare: traduco (volentieri), il che non è altro che un aspetto di quell’attività di ponte tra mondo tedesco ed italiano cui non potrò più sfuggire.
Un funerale.
Nell’agosto 1978 muore il giovane poeta sudtirolese Norbert C. Kaser, i cui primi versi sono stati pubblicati su die brücke. Al funerale di questo dissidente particolarmente significativo (che solo in seguito verrà pienamente apprezzato e meglio conosciuto) ci ritroviamo in tanti, al cimitero di Brunico. Gente che dieci anni prima era insieme, e che ora si trova a lavorare nel sindacato, nei partiti di opposizione, nella scuola… e parecchi cani sciolti.
Il silenzio di quel funerale (civile) e la dispersione e l’impotenza di tante persone che ai miei occhi rappresentano il meglio di questa terra, mi fanno impressione. Norbert C. Kaser è morto di questa impotenza.
E’ lì che penso di dovermi rioccupare più da vicino delle cose sudtirolesi. Pochi giorni dopo pubblico sulla Südtiroler Volkszeitung una proposta: riunire il dissenso sudtirolese, attraversando i gruppi linguistici ed i residui dei gruppi politici organizzati, ed affrontare -anche in occasione delle prossime elezioni regionali e provinciali- il gigante del regime sudtirolese con la fionda di David, senza dogmatismo e senza settarismo.
Non penso ancora ad un mio ritorno vero e proprio, da Roma; la persona che io vedrei bene a rappresentare la «lista di David» in Consiglio è una maestra sudtirolese, pensionata precoce, animatrice da anni di molte iniziative, con una singolare capacità di unire elementi della più autentica eredità popolare tirolese con lotte sociali ed impegno di trasformazione. Si chiama Irmtraud Mair, e non vorrà saperne. La proposta di formare una lista variopinta con queste caratteristiche inizialmente incontra soprattutto diffidenze e riserve. Evidentemente è più facile piangere insieme un amico comune che intraprendere una strada comune per il futuro.
I radicali.
Dalla campagna referendaria del 1977 ho un rapporto ravvicinato con i radicali, senza essere mai iscritto al loro partito. Nel 1978 Marco Pannella intravvede nelle elezioni regionali del Trentino-Sudtirolo una buona occasione per ripetere il successo triestino (giugno 1978: i radicali si candidano al consiglio comunale ed eleggono Pannella). Ma non è possibile la candidatura «esterna», e così i radicali finiscono per appoggiare – anche massicciamente, nelle ultime due settimane- la «Neue Linke-Nuova sinistra» che rappresenta il risultato (non esattamente come sperato, ma pur sempre importante) della proposta relativa alla «lista di David»: inter-etnica, con gente politicizzata e non, con persone provenienti da esperienze piuttosto diverse, disposte a rinunciare a logiche di bandiera e di partito. Resistere all’abbraccio radicale un po’ troppo soffocante e continuare a rifiutare logiche partitiche (magari tra «partito radicale» e «partito dei non-radicali») costerà qualche fatica, ma vale la pena. Ed anche se talvolta mi sento abusivamente presentato come fiore all’occhiello radicale, non mi pento di un rapporto fatto di autonomia e reciprocità: con radici proprie e forza sufficiente da resistere a strumentalizzazioni unilaterali.
Parlamentarismo di provincia.
Per due volte vengo eletto al Consiglio regionale e provinciale: nel 1978 con «Neue Linke-Nuova sinistra» (mi dimetto, per rotazione «linguistica», nel 1981), e nel 1983, con la più ampia «lista alternativa per l’altro Sudtirolo», che rappresenta già un bilancio positivo ed un sensibile allargamento della precedente esperienza e riesce a raddoppiare la rappresentanza consiliare. Entrambe le volte per me è una decisione difficile accettare la candidatura e cambiare vita. In una situazione così particolare, così circoscritta e così segnata dalla specifica problematica del conflitto etnico, mi pare giustificato impegnarmi con lo strumento del parlamentarismo.
Ben consapevole di quanto esso rischi di trasformare le persone che lo usano. Problemi di coalizioni o di maggioranze non si pongono. Accanto ai 33 colleghi del parlamentino sudtirolese si può solo testimoniare l’alterità del Sudtirolo di cui si è portavoce e per il quale si lavora. Ma c’è anche un profondo limite in questo uso esclusivamente come «tribuna» di un’assemblea, ed è un limite che mi sta sempre più stretto.
Pacifismo.
Mi sento profondamente pacifista (facitore di pace: almeno negli intenti), e mi capita con una certa frequenza di partecipare ad iniziative ed incontri per la pace. Spesso ho l’impressione che si tratti di una pace astratta, e di un pacifismo privo di strumenti per raggiungere i suoi obiettivi. Al momento della guerra delle Falkland-Malvine penso: se questo fosse un conflitto italo-tedesco (-austriaco, ecc.), saprei da che parte cominciare per contribuire ad una pace concreta. Il “gruppo misto”, il ponte, il “traditore” della propria parte che però non diventa un transfuga, e che si mette insieme ai “traditori” dell’altra parte… “La logica dei blocchi blocca la logica”, c’è scritto su uno striscione della manifestazione pacifista internazionale che teniamo il lunedì di Pasqua, del 1984, sul “ponte Europa” vicino a Innsbruck. Contro la logica dei blocchi: penso di avere qualche esperienza in proposito, grazie alla vicenda sudtirolese, e mi piacerebbe renderla più fruttuosa.
Opzione 1981: le gabbie etniche.
Fin dalla fine del 1978 vedo arrivare, nel Sudtirolo, quella che chiameremo la «schedatura etnica»: per far funzionare senza intoppi e senza zone d’ombra un sistema interamente basato sulla nitida delimitazione tra blocchi etnici, occorre la realizzazione di un catasto etnico al quale nessuno possa sfuggire.
Inizialmente pochi credono che si arriverà a tanto, ed interpretano in modo riduttivo e blando le norme già predisposte in quel senso, con tanto di timbro e firma della Repubblica Italiana. Così mettiamo in guardia contro le «nuove opzioni», contro l’imposizione delle «gabbie etniche». Mi pare di capire con assoluta lucidità che si tratta del più grave attentato alla democrazia, del più grave avvelenamento dei rapporti inter-etnici nel Sudtirolo dall’accordo Hitler-Mussolini e le «opzioni» dal 1939 in poi. Vedo quasi fisicamente l’accelerazione dei processi di separazione e di contrapposizione etnica che il cosiddetto «censimento linguistico» (con tanto di iscrizione nominativa obbligatoria in uno dei tre gruppi etnici riconosciuti) incoraggerà e renderà finalmente possibile senza pieghe o riserve. Sono angosciato per questa grande operazione di razzismo legale che le cosiddette forze democratiche in Italia (tutte, dal Pci al Pli) ed in Austria consentono, minimizzano, appoggiano.
Non capisco tanta cecità, tanta noncuranza, tanta confusione tra giuste esigenze di autonomia e di tutela delle minoranze e pericolosi intruppamenti etnici.
Mi sembra quasi di toccare con mano un processo analogo a quello che ha portato al muro tra le due Germanie: dove prima la linea di demarcazione era appena tratteggiata sulle carte, e magari con qualche palo, ora c’è la «striscia della morte» e una vera «cortina di ferro» a dividere tra «noi» e «loro». I passi che hanno portato a questa separazione, singolarmente presi, non sembravano così terrificanti. Per un certo -breve- periodo l’effettuazione della schedatura etnica sembra in bilico.
Nell’estate 1981 le resistenze, da noi indotte, si moltiplicano e raggiungono il cuore dei partiti, e qualche giornale. Ma poi, dopo tre giorni di dibattito parlamentare, nell’ottobre, prevale la ragion di stato ed i partiti del sedicente «arco costituzionale» appoggiano tutti la soluzione voluta dalla «Volkspartei»: divide et impera, ad ognuno il suo recinto etnico coi relativi capi.
Insieme a diverse migliaia di coraggiosi rifiuto di firmare il modulo in cui dovrei scegliere se aggregarmi legalmente al gruppo linguistico tedesco, italiano o ladino. Mia madre, che vive ancora e che aveva già rifiutato l’opzione nel 1939, non firma neanche lei.
Come tanti altri «obiettori etnici» subisco presto una precisa conseguenza punitiva: il trasferimento della mia cattedra di storia e filosofia dal liceo di Roma al liceo classico di lingua tedesca di Bolzano, già regolarmente concesso, viene revocato dall’on. Falcucci, su pressione del partito di Magnago, per il quale non può essere considerato tirolese di madrelingua tedesca chi ha disertato la chiamata etnica obbligatoria del 1981.
Mi viene in mente mio padre, ormai morto da anni, che dopo il suo licenziamento razziale nel 1938 venne informato burocraticamente dal dirigente provinciale dell’organizzazione fascista dei medici che non era possibile alcun altro suo impiego, neanche nell’ambito della Croce Rossa o simili, e che comunque poteva sempre rivolgersi alle superiori autorità se credeva di aver subito un torto.
Avrei voluto parlare in costume tirolese.
Nell’agosto 1985 vengo invitato dai «verdi» di Passau, in Baviera, a parlare ad una manifestazione anti-nazista, convocata contro un raduno di neonazisti nel corso del quale avrebbe parlato anche il vicecomandante degli Schützen sudtirolesi. Ci vado con piacere, pur non amando più da tempo la liturgia dell’antifascismo, ormai un po’ consunta.
Ed infatti la manifestazione anti-nazista ha molti tratti demodés, ma la seguo con un sentimento di gratitudine. Ad un certo punto vedo arrivare un pullmann pieno di sudtirolesi in costume. Con sbigottimento li vedo scendere e disporsi per il corteo. Chiedo subito il microfono, e dal palco parlo loro: «non lasciatevi ingannare, già una volta il fascismo ed il nazismo hanno portato il nostro popolo alla rovina, state alla larga da quelli lì, un tirolese sincero non ha niente in comune con loro…». Tutti mi riconoscono immediatamente. Qualcuno esita, i più si fanno beffe di me. Poi i capi fanno partire il corteo.
E’ la volta in cui avrei voluto parlare in costume tirolese.
«Profeta verde».
E’ la primavera del 1985, le elezioni amministrative sono imminenti, in molte città e regioni ci saranno «liste verdi». Sulla terza pagina di un quotidiano romano mi trovo apostrofato come «profeta verde». Io mi trovo a girare l’Italia per contribuire a questa semina verde. Cerco di farlo con argomenti ed intenti poco elettorali e molto riflessivi. Anche in questo caso non sono stato io a «candidarmi». Anzi, più che mai mi sono sentito ostaggio di un’accelerazione nata dalla combinazione di molte circostanze.
Per quanto mi riguarda, è dalla metà degli anni ’70 che, principalmente in Germania, osservo ed in qualche modo seguo iniziative e movimenti «verdi». Via via comincio a parlarne, a scriverne, a fungere anche qui da intermediario tra ciò che avviene a nord e a sud delle Alpi. Dal 1982 in poi contribuisco ad organizzare uno scambio più organico ed intenso, che ha un suo epicentro a Trento, anche grazie all’opera di Marco e Sandro Boato.
Nel 1984 vengo invitato a tenere la relazione introduttiva alla prima assemblea italiana di comitati e gruppi promotori di liste verdi, che si svolge 1’8 dicembre a Firenze: mi trovo così investito di una funzione di battistrada e di punto d’equilibrio che svolgo volentieri, nella prospettiva di passare velocemente il testimone ad altri, ma che mi preoccuperebbe, se si perpetuasse nel tempo e se prolungasse ed accentuasse troppo la mia condizione di ostaggio.
E’ difficile far credere che Bolzano non è la locomotiva verde d’Italia. Si vede che la realtà inventata dai mass-media è più convincente di quella vera. Non resta che darsi da fare per non deludere troppo.
Incontri.
In passato ho forse imparato di più dai libri. Nei tempi più recenti mi sembra di imparare di più dagli incontri che mi capita di fare. (Ma forse era così anche prima, ed il ricordo inganna).
Tra le maggiori fortune che mi sono state date in sorte, considero i rapporti con le tante e diverse persone che ho potuto incontrare e conoscere. In gran parte si tratta di incontri che non mi sono stati regalati in virtù di qualche posizione o ruolo (essere figlio di…, frequentare la casa di…, ricoprire la carica di…), ma conquistati e costruiti, per così dire, in proprio. Così mi è concesso, fino ad oggi, di conoscere persone di indole, posizione e cultura assai differente, e di stabilire scambi ed amicizie su tanti piani e in tante direzioni. E se può essere emozionante conoscere da vicino Kreisky o Pertini o Gheddafi o Ingrao o Sofri o Illich, non è certo meno gratificante e fonte di arricchimento interiore coltivare amicizie e scambiarsi idee ed affetto con chi non scriverà mai sui giornali né vi troverà mai stampato il proprio nome.
Posso dire che rifuggendo drasticamente dai salotti e dalle persone che mi cercano in funzione di qualche mio ruolo, vivo come una delle mie maggiori ricchezze gli incontri -già familiari o nuovi che siano- che la vita mi dona.
Vorrei continuare ad apprezzare gli altri ed esserne apprezzato senza secondi fini. Forse anche per questo converrà tenersi lontani da ogni esercizio di potere.
Alexander Langer