Articolo uscito oggi su “Left”
Ottantacinque anni dopo la condanna a morte dei due attivisti italiani, vengono pubblicati i loro scritti dal carcere. Rivelando il percorso che aveva portato i due manovali immigrati in America a maturare una profonda coscienza politica.
«Se non fosse per questi fatti, sarei potuto morire inosservato, sconosciuto, un fallimento. Ora non siamo un fallimento. Mai nella nostra intera vita potevamo sperare di fare così tanto lavoro per la tolleranza, per la giustizia, per la mutua comprensione tra gli uomini, come ora facciamo per accidente. Questa agonia è il nostro trionfo». Così scriveva poco prima di morire Bartolomeo Vanzetti, il cui nome era destinato a diventare – insieme a quello di Nicola Sacco – un simbolo immortale della lotta contro l’ingiustizia del potere, mostrando al mondo il volto più spietato e brutale del capitalismo statunitense. Dopo la fine della Prima guerra mondiale, la crociata lanciata dal presidente Woodrow Wilson contro la “minaccia sovversiva” aveva preso di mira i socialisti, gli anarchici, gli stranieri e chiunque non fosse in qualche modo assimilato alla cultura dominante. Nel gennaio 1920, in soli cinque giorni, furono compiute operazioni di polizia in decine di città statunitensi che portarono all’arresto di circa diecimila attivisti politici. In un clima di caccia alle streghe senza precedenti, tra scioperi, scontri e manifestazioni di protesta, i due anarchici italiani diventarono i capri espiatori perfetti. Arrestati in un primo momento per possesso di armi e materiale di propaganda considerato sovversivo, Sacco e Vanzetti furono poi accusati di rapina e duplice omicidio e sottoposti a un calvario giudiziario lungo sette anni. Il tragico epilogo della loro vicenda – raccontata magistralmente nel 1971 da uno splendido film di Giuliano Montaldo con Gianmaria Volonté – fu scritto dai giudici razzisti e corrotti che li mandarono sulla sedia elettrica nell’agosto 1927, incuranti della totale assenza di prove e di una clamorosa testimonianza che li scagionava.
Negli Stati Uniti la loro memoria sarebbe stata riabilitata ufficialmente solo cinquant’anni dopo, quando il governatore del Massachusetts Michael Dukakis riconobbe l’errore giudiziario e l’atrocità subita dai due immigrati italiani. Eppure, per chiudere una volta per tutte quella tragica vicenda e consegnarla definitivamente alla storia, è sempre mancato un tassello fondamentale: l’analisi della dimensione ideologica di Sacco e Vanzetti, del loro pensiero e degli ideali che li portarono alla morte. Un tema finito in secondo piano rispetto alla denuncia del sistema corrotto e discriminatorio che condusse al patibolo i due anarchici italiani. Una lacuna inspiegabile soprattutto nel nostro Paese, dove soltanto l’anno scorso un editore italiano (Claudiana) ha deciso di dare alle stampe le lettere che i due attivisti scrissero dal carcere ai loro familiari. Il volume Lettere e scritti dal carcere – a cura di Lorenzo Tibaldo – riproduce quanto fu pubblicato negli Stati Uniti subito dopo la loro morte, nel 1928, e racconta i lati più personali di Sacco e Vanzetti. Ma ancora più interessante appare Altri dovrebbero aver paura. Lettere e testimonianze inedite, il libro appena dato alle stampe da Nova Delphi editore che racconta la dimensione intellettuale della loro militanza politica. Il merito di questo lavoro, che colma un significativo vuoto storiografico, è dello studioso Andrea Comincini, che ha tradotto e curato la raccolta di lettere e testimonianze inedite custodite negli archivi universitari della Lilly Library di Bloomington, nell’Indiana. Si tratta di materiale mai pubblicato prima d’ora in italiano, che consente finalmente un’analisi approfondita del pensiero politico e delle radici culturali dei due anarchici. Secondo lo storico Alessandro Portelli, queste lettere, i discorsi e gli interventi che sono giunti fino a noi sono indispensabili per collocarli adeguatamente nel contesto storico nel quale sono vissuti ma anche per allontanare una volta per tutte un retaggio storico del fascismo. “Il caso di Sacco e Vanzetti si svolge negli Stati Uniti mentre l’Italia vive la prima fase del ventennio di Mussolini”, spiega Portelli, che è un profondo conoscitore delle radici culturali dell’America. “Nel nostro paese ci furono molte manifestazioni di protesta clandestine, ma anche il regime si impegnò in prima persona per difendere i due imputati. Lo fece però in nome della difesa dell’orgoglio nazionale e dell’italianità, dando alla vicenda una coloritura patriottica che in un certo senso ha finito col far dimenticare le radici culturali e politiche dei due anarchici. Elementi che sono stati ripresi soltanto in seguito, grazie all’antifascismo e alla Resistenza”.
È in particolare il lungo epistolario di Bartolomeo Vanzetti con le due attiviste Mary Donovan e Alice Stone Blackwells a far emergere chiaramente il suo deciso anticlericalismo e la sua convinta adesione al bolscevismo. Vanzetti, del quale ricorre quest’anno il 125° anniversario della nascita, era un povero migrante costretto a lavorare fin dalla più giovane età, ma la sua vita fu solcata da una profonda tensione intellettuale intorno alla quale sviluppò, da autodidatta, la sua coscienza politica. Scrive nel 1921: «Lessi il Capitale di Marx, i lavori di Leone, di Labriola, il Testamento politico di Carlo Pisacane, i Doveri dell’uomo di Mazzini e molte altre opere dall’indole sociale […] Mi schierai dalla parte dei deboli, dei poveri, degli oppressi, dei semplici e dei perseguitati […] Compresi che i monti, i mari, i fiumi chiamati confini naturali, si sono formati antecedentemente all’uomo, per un complesso di processi fisici e chimici, e non per dividere i popoli. […] Cercai la mia libertà nella libertà di tutti, la mia felicità nella felicità di tutti». E ancora: «Non credermi un’arca di scienza, lettore mio; il granchio sarebbe madornale. La mia istruzione fondamentale fu troppo incompleta, e la mia forma mentale non è sufficiente per sfruttare e assimilare totalmente sì vasto materiale. E poi devi considerare che studiai lavorando duramente, e senza comodità alcuna. Allo studio però aggiunsi una spietata, continua, inesorabile osservazione sugli uomini, sugli animali, le piante, compresi che in nome di Dio, della Legge, della Patria, della Libertà, delle più pure astrazioni della mente, dei più alti ideali umani, si perpetrano e si continueranno a perpetrare i più feroci delitti». Considerando che furono scritte da un pescivendolo di origini contadine, le missive di Vanzetti lasciano a bocca aperta per la quantità di rimandi colti, per il respiro plurale ed eterogeneo delle sue fonti d’ispirazione politico-culturali ma anche per la straordinaria proprietà di linguaggio sapientemente evidenziata dalla traduzione di Comincini. Assai meno corposa risulta invece la corrispondenza di Nicola Sacco, la cui consapevolezza politica avviene per sua stessa ammissione attraverso l’esperienza diretta: «Di idee politiche, nel lasciare il paese che mi vide nascere, credo di non averne avute, se togliete una certa passione per gli ideali che avevano avuto apostolo e agitatore melanconico Giuseppe Mazzini». In entrambi i casi, dal corpus delle lettere pubblicate nel volume emerge quindi con forza la profonda consapevolezza politica del significato universale della loro vicenda. “Prima d’ora ciò era noto per Vanzetti – ci tiene a ribadire Portelli – lo era meno per quanto riguarda invece Sacco, il quale dimostra di avere, anch’egli, un’intelligenza politica tutt’altro che comune per quegli anni”.
Entrambi, durante la loro lunga prigionia, furono costretti a scriverle in inglese (tranne quelle inviate ai familiari in Italia) e il personale carcerario non mancò mai di sottoporle a un rigido controllo censorio. Come spiega bene Valerio Evangelisti nella prefazione, finora Sacco e Vanzetti erano sempre stati descritti pensando a quello che diventarono, cioè due poveri immigrati vittime di un sistema corrotto e razzista. Mai per quello che erano stati, cioè due militanti anarchici che lottarono – e morirono – per i loro ideali.
Riccardo Michelucci