Si chiamava “Glenanne gang” ed era uno squadrone della morte in pieno stile sudamericano. Ma agì nel cuore dell’Europa, in Irlanda del Nord, negli anni ‘70. Era un gruppo composto da paramilitari lealisti, agenti dello stato britannico e della polizia nordirlandese che prese di mira i civili cattolici e si rese responsabile di almeno 120 omicidi tra il 1972 e il 1976. I primi a denunciare l’esistenza di un “triangolo della morte” tra le cittadine di Armagh, Portadown e Dungannon, a pochi chilometri dall’allora sensibilissima frontiera con la Repubblica d’Irlanda, furono due preti cattolici: Denis Faul e Raymond Murray. Inascoltati dalle forze di polizia e insospettiti dalla sistematicità degli attacchi contro persone comuni, del tutto estranee alla lotta armata, i due religiosi furono gli unici, in quegli anni, a indagare su una serie di omicidi settari uniti da un filo conduttore comune. Agenti dello stato e informatori potevano commettere qualsiasi crimine sapendo di poter contare sull’assoluta impunità. Le vittime venivano attaccate nelle loro case, nelle strade o nei pub, in circostanze che non potevano non far pensare a un accanimento nei confronti della comunità cattolica. Il lavoro pionieristico di Faul e Murray si sarebbe stato di vitale importanza per le inchieste svolte in anni recenti, che hanno dimostrato in modo inconfutabile l’esistenza di un sistema di collusione ad altissimo livello tra lo stato britannico e i gruppi paramilitari protestanti. Alla Glenanne gang sono stati attribuiti alcuni dei più atroci attentati compiuti durante gli anni più cruenti del conflitto, a cominciare dalle bombe di Dublino e Monaghan del maggio 1974, che fecero 33 vittime civili. L’anno dopo, nella rete degli assassini cadde anche Colum McCartney, cugino del grande Seamus Heaney, ucciso a sangue freddo a un posto di blocco mentre tornava a casa da una partita di calcio gaelico. La sua morte – già descritta in una struggente poesia dal futuro premio Nobel – apre anche il bel documentario Unquiet Graves: The story of the Glenanne Gang del regista Séan Murray, che sta spopolando in Gran Bretagna e in Irlanda e il 31 marzo arriverà anche in Italia, al festival del cinema irlandese di Roma. “È stato un lavoro lungo e complesso, realizzato in collaborazione con i familiari delle vittime e le associazioni per i diritti umani”, ci dice Murray, che abbiamo raggiunto telefonicamente nella sua casa di Belfast. “Neppure io sapevo quanto fosse diffusa la collusione tra i paramilitari lealisti e lo stato britannico, quanti soldati e membri delle forze dell’ordine fossero stati coinvolti in quegli omicidi”. La difficoltà maggiore – spiega – è stata quella di scegliere quali vittime raccontare nel documentario: “non potevo includerle tutte. Ho dovuto individuare quelle più simboliche, limitandomi a citare le altre solo nei titoli di coda”. La serie di omicidi indiscriminati registrò un picco nella primavera del 1975, in seguito a una tregua dichiarata dall’IRA, per impedire qualsiasi concessione al fronte indipendentista. Colpire i civili cattolici con attacchi indiscriminati faceva parte di una strategia precisa, mirante a seminare il terrore all’interno della comunità cattolica nel tentativo di costringere l’IRA ad arrendersi. La polizia dell’Irlanda del Nord – all’epoca composta solo da protestanti – non difese la popolazione e addirittura partecipò attivamente a quegli attacchi. Le indagini sulla Glenanne gang hanno avuto una svolta decisiva alcuni anni fa grazie a John Weir, un ex ufficiale di polizia che era stato anche un elemento di spicco della banda. Weir iniziò a collaborare con la giustizia spiegando che i suoi superiori all’interno della polizia erano perfettamente a conoscenza della collusione con i paramilitari e in una lunga deposizione scritta chiarì gli obiettivi di quegli omicidi. Durante la lavorazione del documentario Murray è riuscito a scovare Weir in Sudafrica, dove si è nascosto per evitare rappresaglie, e l’ha convinto a rilasciare un’intervista che racconta dettagli inediti sull’attività della Glenanne gang. Dettagli che tingono di ignominia l’operato dello stato britannico in Irlanda del Nord. “L’intelligence militare era intenzionato a trasformare il conflitto in una vera e propria guerra civile – rivela Weir – nel 1976 fu pianificato un attacco contro una scuola elementare di Belleeks, nella contea di Armagh, che doveva provocare la morte dei bambini e degli insegnanti. Il piano fu fermato all’ultimo dalla leadership dei paramilitari lealisti di Belfast, che lo considerò un passo troppo eccessivo e non se la sentì di procedere”. In primavera Unquiet Graves sarà presentato negli Stati Uniti, in Australia e in Canada. Nelle proiezioni che si sono svolte finora in Gran Bretagna non ha mancato di suscitare stupore e sdegno. “In Inghilterra gran parte del pubblico cade dalle nuvole, non ne sa proprio niente – spiega Murray – persino negli ambienti della diaspora irlandese c’è scarsissima consapevolezza di quei fatti. Il motivo è semplice. Nel corso del conflitto queste vicende sono state sottoposte a una rigida censura. Gli inglesi sono stati tenuti completamente all’oscuro di quanto accadeva nel Nord dell’Irlanda. Spero che il mio film e altri simili usciti di recente riescano a far conoscere finalmente quei fatti e a offrire una prospettiva corretta sul conflitto. Non è stato solo uno scontro settario tra due parti della popolazione che si combattevano tra loro ma una vera e propria ‘guerra sporca’ che ha coinvolto larghi settori dello stato britannico. Finora i riflettori sono stati puntati quasi esclusivamente sulle vittime dell’IRA mentre le voci delle vittime dello stato britannico erano state silenziate, marginalizzate o condannate all’oblio”. Qualcosa, seppur con enorme ritardo, comincia finalmente a muoversi sul fronte giudiziario. Due anni fa l’Alta Corte di Belfast ha imposto alla polizia di riaprire le indagini su quegli omicidi. I familiari delle vittime non hanno mai perso la speranza di ottenere giustizia.
RM