Parlare di Palestina non si può

di Francesca Albanese*

La Palestina – ovvero ciò che è rimasto della Palestina storica alla creazione dello Stato di Israele nel 1948 –, comprendente Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza, è terra che Israele occupa militarmente dal 1967. È bene ribadire da subito che il diritto internazionale ammette le occupazioni militari solo in forma temporalmente limitata, con precisi vincoli di tutela della popolazione sotto occupazione e, soprattutto, senza mai trasferire sovranità alla potenza occupante.
Lo Stato di Israele viola sistematicamente questi principi dal 1967, a mezzo di continui trasferimenti di civili e costruzione di colonie nella Palestina occupata. Negli ultimi decenni tali violazioni sono state condannate ripetutamente dalle principali istituzioni internazionali, da ultimo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite. Le organizzazioni umanitarie concordano che tale occupazione sia illegittima e illegale, poiché condotta tramite usi proibiti della forza armata e allo scopo di annettere territorio palestinese allo Stato di Israele, sfollando i palestinesi che vi abitano. A fronte di tale realtà, ampiamente documentata, è necessario che la politica si conformi ai precetti del diritto internazionale, sanzionando Israele e sostenendo i palestinesi nel processo di autodeterminazione loro assegnato non da questa o quella fazione politica, ma dai più fondamentali principi della comunità internazionale. È con questa consapevolezza che due mesi fa ho assunto il ruolo di Relatrice speciale delle Nazioni unite sui diritti umani nel territorio palestinese occupato, conferitomi dal Consiglio Diritti Umani dell’Onu. Con l’ulteriore sfida e onore dell’essere la prima donna a ricoprire questo delicato incarico, ne ho assunto la responsabilità pienamente consapevole delle difficoltà che avrei incontrato.
La prima difficoltà è che negli ultimi trent’anni i diritti del popolo palestinese abbiano smesso di far notizia, sebbene la Palestina resti teatro di un acerrimo scontro tra giustizia e prevaricazione, diritto e abuso, legalità e, ahimè, realpolitik ispirata puramente da rapporti di forza. A due mesi dall’inizio del mandato, ho toccato con mano l’impossibilità di discutere di Palestina pur seguendo un approccio strettamente giuridico. Dinanzi a chiunque opponga alle logiche dei rapporti di forza un’etica guidata dalla forza del diritto, cala una cortina di ostilità e spesso violenza verbale, in nome della difesa ideologica delle politiche dello Stato di Israele.
Valga come esempio la mia audizione del 6 luglio scorso presso la Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati, che mi aveva invitato a riferire sulla situazione oggetto del mio mandato. Dopo un mio intervento di cui aveva evidentemente ascoltato poco e capito meno, il presidente della Commissione, on. Piero Fassino, invece di moderare il dibattito al fine di acquisire elementi utili alle deliberazioni parlamentari, si è lanciato in un j’accuse nei miei confronti tanto inopportuno quanto ingiustificato. L’accusa verteva sulla mia presunta mancanza di «terzietà», evidentemente per non aver equiparato, nel mio intervento sui continui abusi da parte delle forze israeliane nei confronti dei palestinesi, l’occupante e l’occupato, il colonizzatore e il colonizzato. Il rispetto di ogni critica è parte integrante della mia interpretazione del mandato conferitomi. Ho però il dovere primario, proprio sulla base di questo mandato, di denunciare le violazioni del diritto internazionale.
Pur essendomi limitata a questo doveroso compito nell’audizione, l’on. Fassino, evidentemente irritato dall’esercizio dei miei doveri istituzionali, è giunto ad attribuirmi frasi recanti forme di legittimazione della violenza che né io ho mai pronunciato, né alcun intervistatore ha mai trascritto. Altraeconomia lo ha prontamente dimostrato riportando le mie dichiarazioni originarie di condanna della spirale di violenza che l’occupazione perpetua, ad arte decontestualizzate dall’on. Fassino.
Nel criticare la mia eccessiva attenzione «al dato giuridico», l’on. Fassino ha altresì sminuito il ruolo centrale del diritto internazionale nella risoluzione dei conflitti, che pur costituisce parte integrante dell’ordinamento repubblicano. L’idea che il diritto internazionale sia cogente per i nemici e facoltativo per gli alleati è una declinazione pericolosa del concetto di autonomia della politica, che da giurista non posso esimermi dal condannare.
Come ricorda Edward Said, una lotta per i diritti si vince «con le armi della critica e l’impegno della coscienza». Ed è questo che continuerò a promuovere nell’esecuzione del mio mandato, un dibattito sano, pluralista e informato sulla questione israelo-palestinese, partendo – qualsiasi siano le letture storiche e politiche del «conflitto» e delle sue radici – dalla forza regolatrice del diritto internazionale, unica bussola possibile nel buio fomentato da oltre un secolo di realpolitik.

*Relatrice speciale delle Nazioni unite sui diritti umani nel territorio palestinese occupato

3 pensieri riguardo “Parlare di Palestina non si può”

  1. Caro Riccardo, il mondo senza Dio il padrone del pianeta terra, fa i conti senza l’ Oste, e l’Apocalisse, (incompresa dai governi umani e dai religiosi), fa capire a coloro che la sanno decifrare che: La nazione d’Israele da quando si è rifondata, il mondo è entrato nel “PO di TEMPO” culminato il quale, non più governi degli uomini lo governeranno, ma sarà retto da quel Regno dei Cieli della Gerusalemme Celeste, che l’Apocalisse lo aveva predetto quasi 2000 anni fa. Quindi la terra dovrà essere liberata da tutta l’empietà causata dagli egoismi degli uomini, i quali se Dio lasciasse fare a loro, (già inquinata oltre modo), la distruggerebbero in modo irrimediabile. Per cui, vanga il Regno dei Cieli di Dio, Padre di quel Gesù che insieme ai suoi Santi Eletti lo governeranno con giustizia e pace, cosa che per tutta la gente di ogni “colore” è utopia. Un caro saluto, e i diritti degli esseri umani solo nella legge dell’Amore promulgato dal Creatore diventerà realtà.

  2. NEL ROJAVA CONTINUA LO STILLICIDIO: ALTRI CURDI (COMBATTENTI E CIVILI) ASSASSINATI DAI DRONI TURCHI
    Gianni Sartori
    Non è semplice seguire il quasi quotidiano stillicidio di attacchi turchi contro i curdi in zone densamente popolate del Rojava (nonostante gli accordi del 2019, sottoscritti da USA e Russia in quanto garanti, per un cessate-il-fuoco). Tra i feriti che soccombono nei giorni successivi in qualche ospedale e i comunicati delle FDS che rivelano i nomi delle vittime identificate, si rischia semplicemente di perdere il conto.
    Nell’ultimo, per ora, massacro operato dall’esercito di Ankara (il 10 agosto nel villaggio di Mulla Sibat, nei pressi di a Qamishlo) hanno perso la vita due combattenti delle Forze Democratiche Siriane (Djwar Kobani e Jia Qamishlo) e un civile (Adeeb Youssef) che si prodigava per soccorrerli.
    Contemporaneamente l’esercito turco bombardava ripetutamente una quarantina di villaggi nella regione di Jazira e uccideva almeno una dozzina di persone in quella di Ayn Issa. Molti di più i feriti, tra cui donne e bambini.
    Il 9 agosto erano state uccise quattro persone (e molte altre ferite) per un attacco con i droni sulla strada di Hîzam (sempre nel Rojava). In precedenza altre quattro, in circostanze analoghe, nel quartiere di Sîna a Qamishlo.
    Tra i feriti l’esponente del PJAK ((Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê – Partito per una vita libera in Kurdistan) Yusif Mehmud Rebanî (Rêzan Cawîd), poi deceduto.
    Si trovava nel Rojava per conoscere di persona le realizzazioni del Conferalismo democratico e dell’Autonomia., Fondato nel Kurdistan “iraniano” (Rojhelat) nel 2004, il PJAK dal 2007 fa parte del Koma Civakên Kurdistan (Unione delle comunità del Kurdistan), così come il PKK, il PYD, il Partito per una soluzione democratica del Kurdistan “iracheno” (Bashur) e altre organizzazioni della società civile curda.
    L’8 agosto i droni avevano colpito nei pressi del villaggio di Cirnikê a Qamishlo. In un comunicato le Forze democratiche siriane (FDS) dichiaravano che 4 membri delle forze di autodifesa erano stati uccisi e 3 feriti. E continuava sostenendo che “l’esercito invasore turco ha recentemente cercato di creare paura e caos nel nostro popolo con attacchi pesanti e disumani. Come Forze democratiche siriane ribadiamo ancora una volta che proteggeremo il nostro popolo e le sue conquiste in ogni circostanza, non importa quale sia il costo, e vendicheremo i nostri martiri”.
    Una dichiarazione, sia in curdo che in arabo, del Consiglio per gli affari interni della regione di Cifre era stata letta dai co-presidenti Kenan Berekat e Hemrîn Elî. Appellandosi alla comunità internazionale e in particolare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per condannare“questi atti immorali contro l’umanità” e per una interdizione ai droni e agli aerei turchi nello spazio aereo del Rojava. Allo scopo di impedire “il massacro quotidiano di civili e combattenti”.
    Rivolgendosi al proprio popolo, i due co-presidenti avevano chiesto di “affiancarsi all’amministrazione autonoma e ai combattenti nello spirito della Resistenza e della guerra
    popolare rivoluzionaria”.
    Il 6 agosto veniva colpito dai droni un veicolo civile nel quartiere di Al-Sina a Qamishlo (quattro morti, di cui due bambini e due feriti gravi)
    Il giorno prima, sempre per gli attacchi dei droni, avevano perso la vita quattro combattenti delle FDS: Hevin Osman (nome di battaglia: Dilsuz Terbaspi), Ali al-Muslat, Maher al-Ozbah e Mohiuddin Ibrahim.
    Invece il 4 agosto a essere bombardata era stata la città di Tall Rifat nel cantone di Shehba, nel nord della Siria. Risultato, una decina di feriti gravi tra cui diversi bambini: Dîna Osman (6 anni), Mehmedû Xerîb Mamo (6 anni), Hisên Cemal Qasim (7 anni), Avrîn Ebdurehman Heyder (13 anni), Arîvan Mihemed Ebdo (15 anni), Ronahî Silo (27 anni) et Hisên Beyrem Eglo (43 anni).
    Per quanto isolata rispetto al resto delle ragione autonoma, Tall Rifat è ancora amministrata dall’AANES. Ma purtroppo questa città -insieme a Mambij -sembra già essere nel mirino di Erdogan come prossima tappa dell’invasione turca. Nel cantone di Shehba hanno trovato rifugio gran parte degli sfollati (rifugiati interni) provenienti da Afrin, invasa nel 2018.
    A Tall Rifat il 19 luglio 2022 un drone turco aveva ucciso anche due soldati dell’esercito di Damasco.
    Ancora nell’area di Shehba, il 26 luglio, era stata gravemente ferita mentre lavorava nei campi una ragazza di diciassette anni, Fehime Fewzi Reşo. Immediatamente trasportata in un ospedale di Aleppo, era deceduta il 1 agosto.
    Sempre il 26 luglio nel cantone di Shehba venivano colpite e ferite altre sei donne (quelle accertate) che si trovavano al lavoro nelle campagne.
    E, procedendo a ritroso, si potrebbe continuare a lungo. Negli ultimi mesi, forse in vista di un’ulteriore invasione, la Turchia ha intensificato gli attacchi contro il Nord e l’Est della Siria.
    Nel frattempo vanno aumentando anche le violazioni dei diritti umani nelle aree già sotto occupazione turco-jihadista.
    Tutto questo nell’indifferenza – ca va sans dire – della comunità internazionale e senza che le due grandi potenze qui presenti (non certo disinteressatamente) intervengano imponendo una no-fly zone per fermare la mano, o meglio i droni, di Erdogan.
    Come da manuale prosegue l’espulsione forzata della popolazione curda che Ankara intende sostituire con coloni di origine siriana (ma anche palestinesi purtroppo: un esempio di come l’imperialismo sappia creare divisioni – e strumentalizzarle – anche tra i popoli oppressi).
    Gianni Sartori

  3. INCLUSIVITA’ O ASSIMILAZIONE NELL’INDIA TRIBALE IN RIVOLTA?

    Gianni Sartori

    Lo schiaffo del partitoinduista nazionalista al potere a tutto ciò che è

    alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una

    donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costituito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce una patente di tolleranza. Laddove invece registriamo solo militarizzazione e repressione dell’India tribale in rivolta, sia nel Centronord indiano sia nel profondo sud del Tamil Nadu.

    Con questo intervento vorrei dare testimonianza del saccheggio e delle modalità di soffocamento delle istanze di emancipazione delle comunità tribali a Kallakurichi come a Sukma.

    Non si può certo affermare che quanto avviene in India ai danni delle popolazioni tribali sia sotto la lente e l’interesse dei media internazionali. Per cui difficilmente si viene adeguatamente informati su massacri, deportazioni (per consentire alle multinazionali, in particolare quelle dedite all’estrazione mineraria, di appropriarsi dei territori ancestrali delle popolazioni indigene), esecuzioni extragiudiziale, stupri di donne tribali ed arresti arbitrari operati dal regime di Narendra Modi.

    Si era parlato invece (e non senza una certa enfasi) della elezione a presidente dell’India (una carica più che altro formale, cerimoniale…) di Droupadi Murmu, donna di origine tribale (i Santhal), in precedenza governatrice del Jharkhand.

    Originaria dell’Odisha, milita da anni nel Bharatiya Janata Party, il partito dei fondamentalisti indù.

    Per carità. Tutto può essere utile e se questo evento dovesse portare qualche beneficio alle popolazioni tribali (gli adivasi) e alle caste diseredate (i Dalit) ben venga.

    Anche se, ci si augura, non nella logica sviluppista (e di devastazione umana e ambientale) che auspica Modi.

    E’ lecito infatti avere qualche riserva su questo coinvolgimento, più che altro spettacolare ed elettoralistico, dei tribali nel progetto del Bjp. Allargare la propria base elettorale farà sicuramente gli interessi del Bjp, ma è lecito chiedersi quali vantaggi porterà alla conservazione delle lingue e della cultura tradizionale (oltre che alla loro sopravvivenza fisica) degli adivasi. Più che di “inclusività” si dovrebbe forse parlare di assimilazione.

    ADDOMESTICAMENTO E RIVOLTA DELLE COMUNITA’ TRIBALI

    Nel frattempo – ovvio – si intensifica la stretta repressiva, l’addomesticamento forzato delle popolazioni indocili e refrattarie al “progresso” neoliberista.

    Eventi su cui si mantiene un rigoroso silenzio stampa a livello internazionale. Vedi per esempio quanto è accaduto nel villaggio di Silger (al confine tra Bijapur e Sukma nel Bastar meridionale del Chhattisgarh) dove la resistenza della popolazione locale si è protratta per oltre 400 giorni senza che la notizia abbia avuto un minimo di diffusione.

    Così come era capitato con la notizia (ignorata dai media internazionali forse perché scoperchiava le passate malefatte governative) dell’avvenuta liberazione (il 15 luglio 2022) nel Chhattisgarh di 121 tribali (tra cui alcuni minorenni). Erano stati catturati nel 2017 con una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona. Nel frattempo uno degli arrestati (o almeno quello finora accertato) era deceduto dietro le sbarre.

    Tutte queste persone, come del resto era evidente fin dall’inizio, sono risultate estranee all’imboscata, opera di almeno trecento guerriglieri naxaliti (maoisti del People’s Liberation Guerrilla Army), di Sukma (Burkapal, 24 aprile 2017)) in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della CRPF.

    Sono completamente cadute sia le accuse di possesso di armi, sia di appartenenza al PCI (maoista).

    Per cui la loro lunga, ingiusta detenzione acquista il senso di una rappresaglia a scopo “educativo”.

    A Sukma militari e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che doveva attraversare i territori tribali per conto di un gruppo industriale.

    L’attacco era stato rivendicato dal DKSZC (Dand Karanya Special Zone Committee) del PCI (maoista). Nel comunicato si sottolineava come l’attacco fosse una risposta di autodifesa non solo nei confronti delle politiche antipopolari del governo, ma soprattutto per le“atrocità sessuali commesse dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali”. Ossia gli innumerevoli stupri opera soprattutto dalle milizie paramilitari filogovernative. In sostanza “per la dignità e il rispetto delle donne tribali”.

    Nel comunicato inoltre si smentiva decisamente (come poi è stato riconosciuto anche ministero dell’Interno) che sui corpi dei soldati uccisi si fosse infierito con mutilazioni e castrazioni. “Noi – aveva dichiarato Vikalp, portavoce della guerriglie- non manchiamo di rispetto ai corpi dei soldati uccisi. Sono i media borghesi che diffondono tali false notizie e invece spesso sono i militari che operano brutali trattamenti sui corpi dei guerriglieri maoisti”. Così come, aveva continuato “vengono riprese e diffuse nei social immagini riprovevoli delle guerrigliere uccise”. Per inciso, una pratica abituale anche da parte dei soldati turchi nei confronti delle combattenti curde.

    Per concludere: “I soldati non sono nostri nemici. Tantomeno nemici di classe. Tuttavia si pongono al servizio dell’apparato antipopolare e dello sfruttamento operato dal governo. Rivolgiamo a loro un appello affinché cessino di combattere schierati al fianco dei politici sfruttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù etc che sono, per loro stessa natura, nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne.

    Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare”.

    E LA LOTTA – forse – CONTINUA…

    Tornando ai nostri giorni, va ricordato che il 17 luglio 2022 nel sud dell’India si sono verificati duri scontro tra giovani e polizia (con decine di feriti) dopo il suicidio di una studentessa.

    I manifestanti erano penetrati nel campus (distretto di Kallakurichi nello stato di Tamil Nadu) incendiando veicoli della polizia e bus scolastici.

    La ragazza prima di togliersi la vita aveva scritto una lettera in cui denunciava alcuni insegnanti per averla sottoposta a sistematici maltrattamenti (aveva usato il termine “torture”). La stessa cosa sarebbe era toccata ad altre studentesse.

    All’inizio del mese (il 3 luglio) invece le proteste (con scontri, numerosi feriti e una dozzina di arresti) erano scoppiate a Nepali Nagar quando una quindicina di bulldozer erano arrivati per distruggere un centinaio di abitazioni costruite su terreni pubblici e definite “abusive” dalle autorità locali (nonostante da anni fossero stati realizzati gli allacciamenti e venissero raccolte le tasse municipali).

    SRI LANKA: ARRESTATO ANCHE JOSEPH STALIN

    Senza dimenticare che solamente uno stretto braccio di mare divide il Tamil Nadu (nel sud dell’India) da quello Sri Lanka ugualmente in subbuglio per le tensioni politiche e sociali( e dove nonostante i massacri di qualche anno fa sopravvive una folta comunità tamil…ma questa per ora è un’altra storia). Da mesi l’Isola è travolta da una crisi economica senza precedenti, probabilmente la peggiore dal giorno dell’indipendenza nel 1948: inflazione galoppante, scarsità di valuta straniera, lunghi, quotidiani periodi di mancanza elettricità, scarsità e razionamento di generi alimentari, medicinali e carburanti.

    Un contesto desolato e desolante in cui non si attenua ma si inasprisce l’attività repressiva.

    Il 3 agosto è stato arrestato Joseph Stalin (tranquilli, solo un omonimo, abbiamo controllato…) segretario del sindacato Sri Lanka Teachers’ Union. In prima linea nelle lunga serie di manifestazioni e proteste che hanno di fatto sfrattato e costretto il mese scorso alla fuga il presidente Gotabaya Rajapaksa.

    Oltre che per l’insolito nome e per la sua notorietà (dell’arrestato s’intende), la detenzione di questo dissidente (peraltro durata solo una settimana per le rumorose proteste di chi ne richiedeva la scarcerazione) aveva suscitato qualche scalpore. Si trattava infatti, almeno finora, del più anziano tra le centinaia di persone incarcerate negli ultimi mesi. Tutte accusate di aver danneggiato, saccheggiato beni pubblici e di aver partecipato all’assalto della residenza di Rajapaksa (a Colombo il 9 luglio) quando i soldati avevano aperto il fuoco sulla folla.

    Nonostante nei giorni precedenti fosse stato istituito il coprifuoco, a migliaia lo avevano ignorato e avevano costretto le ferrovie a condurli fino a Colombo per aggregarsi alla protesta in atto.

    Del resto, pur avendo in un primo momento, diplomaticamente, garantito che si sarebbe applicata una distinzione tra “manifestanti” e “rivoltosi”, il nuovo presidente Ranil Wickremesinghe aveva promesso di prendere severe misure punitive contro gli autori dei disordini.

    Tra gli arrestati anche un uomo di 43 anni accusato di aver prelevato e bevuto una birra dal frigo dell’ex presidente. Con l’aggravante di aver pubblicato la foto su Facebook (ma si può !?!) ed essersi portato via il bicchiere o una tazza. Un pericoloso sovversivo, beninteso.

    Un altro manifestante, un sindacalista portuale, era già stato fermato per aver prelevato due bandiere dal palazzo e averle poi utilizzate una come copriletto e l’altra come sarong.

    Appare quindi scontato che anche con il nuovo presidente la musica rimarrà la stessa. Poche ore dopo l’investitura ufficiale di Ranil Wickremesinghe (il quale mentre svolgeva tale funzione ad interim aveva decretato lo stato d’emergenza estendendo i poteri di polizia ed esercito), le forze antisommossa armate di fucili d’assalto avevano scacciato i manifestanti e abbattuto le barricate, trincerandosi poi attorno al palazzo presidenziale che qualche giorno prima era stato invaso da migliaia di persone.

    Gianni Sartori

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