Se le colombe sono falchi. La verità sulla Birmania

Avvenire, 8 gennaio 2020

C’era una volta una leader politica considerata l’erede di Gandhi e di Mandela, il simbolo vivente della lotta per i diritti del popolo birmano, una donna costretta per quindici anni agli arresti domiciliari dalla giunta militare che voleva silenziare il suo potere gentile e la forza iconica del suo sorriso. A lungo il mondo occidentale ha ritenuto Aung San Suu Kyi un’eroina, salvo doversi tristemente ricredere, in anni recenti, vedendola trasfigurarsi nel primo difensore di un esercito accusato di genocidio. Oggi che detiene il potere esecutivo nel suo paese cerca in tutti i modi di minimizzare la gravità dei crimini commessi dall’esercito contro la popolazione di etnia Rohingya e si batte in prima persona per giustificare l’operato dei militari. Non più icona della democrazia bensì spregiudicato leader nazionalista intento a ripristinare a qualsiasi costo i valori conservatori: Aung San Suu Kyi è anche una metafora della stessa Birmania, un paese che appena una decina d’anni fa sembrava nel pieno di una trasformazione epocale. I leader mondiali facevano a gara per prendere parte al sospirato cambiamento, stanziando aiuti e revocando embarghi commerciali di lunga data. Nel 2018, poi, la doccia fredda: gli scontri tra l’esercito birmano e l’Arakan Army, gruppo armato di secessionisti buddisti, hanno innescato una grave crisi umanitaria con centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga verso il vicino Bangladesh per scampare ai massacri. La Birmania (o Myanmar, secondo la denominazione imposta dopo il colpo di Stato del 1988) è adesso sul banco degli imputati con l’accusa di genocidio e crimini contro l’umanità. A raccontare le implicazioni e le cause di questo brusco risveglio partendo dalle sue radici storiche è lo studioso birmano Thant Myint-U in L’altra storia della Birmania. Una distopia del XXI secolo (Add editore, traduzione di Piernicola d’Ortona). “Per decenni la storia del paese era apparsa come una lotta manichea fra i generali al potere e un movimento a favore dei diritti umani e della democrazia liberale – scrive -. Ma era diventato molto difficile far combaciare questa vecchia storia con i recenti sviluppi”. Il mondo aveva completamente frainteso quello che stava accadendo in Birmania, uno dei paesi più poveri dell’Asia, crocevia di uno dei maggiori traffici di droga al mondo, un luogo dove le sanzioni internazionali hanno penalizzato quasi esclusivamente la povera gente.
Nipote di U Thant, segretario generale dell’Onu dal 1961 al 1971, Thant Myint-U era un bambino quando Suu Kyi visitava la casa dei suoi genitori negli Stati Uniti: erano tutti figli della stessa élite ostracizzata dalle giunte militari. Con lo sguardo dello studioso e la passione del protagonista Myint-U racconta una serie di aneddoti illuminanti, che ci danno la misura di quanto la superficialità dell’Occidente abbia contribuito all’equivoco. Bastava leggere, ad esempio, gli articoli accademici scritti da Aung San Suu Kyi negli anni ‘80, prima di entrare in politica, in cui sosteneva che il popolo birmano doveva riaffermare la propria identità razziale e culturale difendendosi dagli immigrati cinesi e indiani. “Essi minano alla radice la virilità birmana e la purezza razziale del paese”, spiegava la futura leader. Myint-U analizza i recenti sviluppi della storia birmana esaminando le gravi disuguaglianze generate da un sistema economico predatorio, la disintegrazione delle istituzioni statali, le conseguenze del cambiamento climatico e le violenze legate all’etnia, alla religione e all’identità nazionale. A lungo il paese è stato schiacciato in una morsa micidiale di guerra, dittatura, isolamento e sanzioni. I significativi passi avanti compiuti in anni recenti – una classe media in crescita, un’imprenditoria non più legati al vecchio regime – non sono bastati per ridurre le gravi disuguaglianze presenti nel paese. L’approfondita analisi di Myint-U si conclude esprimendo forte scetticismo nei confronti delle ricette neoliberiste. “Il risultato di questa dinamica e sotto gli occhi di tutti: implacabile distruzione dell’ambiente e città congestionate, cui fa da contraltare soltanto una grande possibilità di comprare. E proprio questo l’unico futuro possibile? La Birmania ha bisogno di interventi radicali per combattere la disuguaglianza e prepararsi all’imminente emergenza climatica. E che di una nuova storia che accolga la diversità, tenga nella massima considerazione il paesaggio naturale e aspiri a un nuovo stile di vita”.

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