Avvenire, 8 gennaio 2020
C’era una volta una leader politica considerata l’erede di Gandhi e di Mandela, il simbolo vivente della lotta per i diritti del popolo birmano, una donna costretta per quindici anni agli arresti domiciliari dalla giunta militare che voleva silenziare il suo potere gentile e la forza iconica del suo sorriso. A lungo il mondo occidentale ha ritenuto Aung San Suu Kyi un’eroina, salvo doversi tristemente ricredere, in anni recenti, vedendola trasfigurarsi nel primo difensore di un esercito accusato di genocidio. Oggi che detiene il potere esecutivo nel suo paese cerca in tutti i modi di minimizzare la gravità dei crimini commessi dall’esercito contro la popolazione di etnia Rohingya e si batte in prima persona per giustificare l’operato dei militari. Continua a leggere “Se le colombe sono falchi. La verità sulla Birmania”