Filippo Fiorini da Buenos Aires
Generali e colonnelli dell’ultima dittatura militare affrontano il giudizio per la rete spionistica internazionale con cui davano la caccia ai militanti delle sinistre, in combutta con gli altri golpisti sudamericani e sotto l’ala degli Stati uniti.
Non sono bastate le 5 ore di udienza con cui si è aperta questa settimana la «Causa Operacion Condor» ad elencare tutti i crimini che vengono attribuiti ai suoi 25 imputati. Ci vorrà molto tempo per farlo, ma gli esperti dicono che non ci sia fretta, perché un primo record è già stato raggiunto: dopo più di vent’anni di peripezie giudiziarie, il processo è partito ed ora la Corte non si limiterà a giudicare i resti geriatrici di qualche dittatore reso patetico dalla vecchiaia o inimputabile dalla morte, ma metterà davanti al codice penale la storia di un intero continente chiamato America, le cui mani menavano a Buenos Aires, Santiago, Rio e Montevideo, ma la cui testa pensava a Washington. Il Piano Condor, l’Operazione Condor, o la «Superstruttura Condor», come l’ha chiamata il pm in aula, fu «un’apparato sovranazionale che – negli anni Settanta – univa reti di spionaggio, scambio d’informazioni e protocolli comuni di azione» in diversi paesi del Sudamerica, «formando squadre speciali che operavano all’interno degli stessi o venivano inviate a paesi terzi dell’area e finanche in Francia, Spagna e Svizzera». Nell’ambito di una guerra ai partiti di sinistra (poi passati alla lotta armata) questi «gruppi di para-polizia avevano il compito di localizzare e catturare gli obiettivi (leggasi «persone»), trasferendoli poi nel paese d’origine oppure eliminandoli sul posto». Una responsabilità a cui adempirono con una serie lunghissima di sparatorie in strada, autobombe in centro, avvelenamenti di mattina, rapimenti notturni e torture in sordidi seminterrati, che arrivarono ad un’efficacia quasi genocida.
Nessuna delle 103 vittime a cui il Tribunale Orale Federale Numero 1 di Buenos Aires pretende di rendere giustizia, su un totale generale di oltre 30 mila, è sopravvissuta al canto stridulo del condor. Di un’infima minoranza si sono ritrovate le spoglie, mentre la maggior parte di questo eterogeneo gruppo di sindacalisti argentini, utopisti uruguaiani, muratori paraguaiani ed ingegneri cileni «non sono né morti, né vivi. Sono desaparecidos». Lo disse tanti anni fa il più celebre degli imputati di questo giudizio: l’ex presidente de facto (un eufemismo per dire che si era dato il titolo da solo) Jorge Rafael Videla. Senza aver dismesso i baffi alla moda nazi, quest’uomo che già deve al sistema giudiziario argentino due delle sue deprecabili vite ed altri 50 anni della prossima, oggi se ne gioca un’altra con lo sguardo di chi ha perso l’arroganza ed ora invidia triste il collega cileno Pinochet o il paraguaiano Stroessner, quando sente leggere i loro nomi nella lista degli imputati ingiudicabili, poiché morti.
Accanto a lui, un’altra reliquia del fascismo pampeano, il generale in congedo ed a sua volta ex presidente de facto Reynaldo Benito Bignone. Un nome che segna il destino dispotico di una figura un tempo ferrea nella difesa dei «valori centrali della civiltà occidentale e cristiana», oggi spaesato nella giacca marrone sulla maglietta a righe, che sostituisce l’uniforme gravata di medaglie che lo rese celebre. Poi, altri 23 volti noti delle gerarchia militare golpista: Ernesto Alais, vivo e quasi vegetale, Albano Harguindeguy, morto, Federico Antonio Minicucci, vivo ed ex comandante del reggimento di fanteria General Belgrano, Jose Julio Macedo, vivo, eccetera. Tra loro, anche il colonnello dell’artiglieria uruguaiana Manuel Cordero, simbolo dell’internazionalismo nero che animava il Piano Condor, di cui però in questa sede si potrà giudicare solo il versante argentino.
Tutti gli accusati rispondono di essere mandanti o esecutori materiali di sequestro di persona. Sebbene agli atti vengano provati anche moltissimi casi di tortura, stupro ed omicidio, questi capi d’imputazione non possono essere caricati, perché quando il processo iniziò alla fine degli anni Novanta, esistevano due leggi che garantivano l’impunità per i crimini commessi durante la dittatura.
Tuttavia, un pm furbo riuscì a dimostrare che se non si poteva processare un omicidio commesso nel 1977, si doveva giudicare un rapimento ancora in corso da allora, visto che non si sapeva nulla della vittima: «Né morti, né vivi. Sono desaparecidos».
Così, riemergono dal limbo della storia 103 casi, tutti legati ad un contesto di contro-guerriglia internazionale: il cileno Edgardo Espinosa, sequestrato assieme alla brasiliana Regina Varcondez, e poi consegnato al servizio segreto di Pinochet, la malefica Dina. Gli uruguaiani Washington Hernandez, arrestato nella pizzeria La Focaccia; Alfredo Bosco, «succhiato», come si diceva allora, con tre compagni quattro giorni prima del Natale ’77, o Maria Artigas, caduta l’ultimo dell’anno, quando era incinta di 2 mesi.
Questa studentessa di 26 anni, sopravvisse alle torture della prima detenzione nel carcere Pozzo di Quilmes, ma non a quelle della seconda, nel Pozzo di Banfield, dove però compì un ultimo grande atto di valore: partorì Veronica. Sua figlia fu data in adozione alla famiglia di un poliziotto e poi ritrovata e restituita ai suoi parenti legittimi dall’associazione Abuelas de Plaza de Mayo il 31 dicembre dell’87, esattamente dieci anni dopo il sequestro di sua madre. Meno fortunato fu lo svizzero-cileno Alexis Jaccar Siegler, arrestato all’hotel Bristol mentre era in fuga dalla Dina. Quando la sua ambasciata chiese informazioni alla Polizia Federale argentina, questa rispose che era tornato in Cile con un volo della compagnia Varig: compariva anche tra i passeggeri ma non era quello il vero viaggio che aveva intrapreso.
Mentre il segretario del procuratore evoca questi e molti altri nomi dalle 27 mila pagine del documento d’accusa, Videla, a cui si attribuiscono 91 di queste vittime, si addormenta e il presidente della Corte interviene, perché teme che necessità incontrollabili minaccino l’integrità della sua aula: «Signori difensori, se i vostri clienti hanno bisogno di andare in bagno, fateli andare senza chiedere permesso». Il giudice si trova davanti una schiera di imputati ultrasettantenni e non vuole sorprese.
Tra loro, infine, c’è anche un imputato segreto: gli Stati uniti d’America.
La Casa Bianca non potrà mai essere incarcerata a Buenos Aires ma il suo nome sì potrà essere macchiato e la sua parola smentita: dalle organizzazioni per i diritti umani costituitesi parte civile, arriva infatti l’indiscrezione che tra le prove siano presenti alcuni cablogrammi diplomatici un tempo segreti, in cui l’ambasciatore americano a Buenos Aires parla di un «piano di raccolta e scambio d’informazione su «sinistrorsi», «comunisti» o «marxisti», allo scopo di «eliminarne l’attività nei rispettivi territori», un programma chiamato con il nome di un uccello che mangia quasi esclusivamente cadaveri, colpendo saltuariamente animali feriti o cuccioli, che però oggi si trova in via d’estinzione.
(da “Il Manifesto”, 8 marzo 2013)