Cecenia, la resistenza delle “lupe”

Avvenire, 30.04.2016

L’immagine della catena umana formata dalle donne cecene per impedire ai carri armati russi di muovere su Groznyj fece il giro del mondo. Era il dicembre del 1994. I blindati e gli aerei da combattimento arrivarono lo stesso, la Cecenia fu distrutta e da allora i media ripropongono l’immagine dei ceceni armati di kalashnikov, che a ogni sparo invocano Allah, ma hanno stemperato nel silenzio quella resistenza femminile spontanea, non violenta e orientata alla vita. Da essa nacque uno straordinario movimento pacifista che riprese il motto di Vaclav Havel, “non siamo ottimisti, non ci aspettiamo che le nostre azioni abbiano successo, agiamo solo in base alla nostra coscienza”. La forza e la dignità delle donne cecene, l’autodeterminazione che hanno saputo conquistare in tempo di guerra, è raccontata in modo magistrale nei reportage letterari della scrittrice e reporter slovacca Irena Brežná che sono stati raccolti nel libro Le lupe di Sernovodsk (Keller, traduzione di Alice Rampinelli). Gli scritti di Brežná iniziano proprio dalla prima guerra cecena – della quale ricorre il ventesimo anniversario -, coprono complessivamente quindici anni, dal 1995 al 2011, e risultano utili anche per comprendere quello che sta accadendo oggi nel cuore dell’Europa. ceceniacmsimage00_50875709_300 Nata in quella che un tempo era la Cecoslovacchia, Brežná è emigrata in Svizzera da giovane, al tempo nella Primavera di Praga del 1968, e dopo studi in slavistica, filosofia e psicologia ha iniziato un’attività di giornalista e scrittrice per la quale ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Ha visitato i villaggi e le città distrutte del Caucaso del Nord, ha vissuto con le donne cecene colpite da quella tragedia ed è riuscita a costruire una narrazione fondata su un’attenta ricerca linguistica e una grande cura per i dettagli della vita quotidiana in tempo di guerra.
Come si possono trovare le giuste parole per descrivere l’orrore della guerra?
Vagare tra rovine e campi minati con il cuore aperto e i sensi all’erta non basta, e non è sufficiente neanche ascoltare le vittime. Occorre saper distinguere cosa conta, cosa bisogna raccontare di quel caos indescrivibile. E una reporter di guerra deve sapere prima cosa l’aspetta, non ci sono soltanto rischi per il corpo, ma anche per la psiche. Io non ne avevo idea: una volta tornata nella mia sicura Svizzera ho sofferto di attacchi di panico e mi sono dovuta far curare.
Quanto ha contato la sua identità e il suo paese d’origine nel suo mestiere di reporter e nel formare la sua sensibilità nei confronti dei popoli vittime di gravi violazioni dei diritti umani?
Indubbiamente il mio trauma dell’occupazione della Cecoslovacchia nel 1968 da parte delle truppe del Patto di Varsavia ha avuto un ruolo centrale nella mia vita e mi ha fatto identificare con il piccolo popolo caucasico nella sua volontà d’indipendenza dalla Russia.
Osservando l’operato dei soldati russi ha capito cos’è che può spingere l’uomo a una crudeltà gratuita e apparentemente insensata?
I giovani soldati russi inviati nel nord del Caucaso facevano pena, alla popolazione e anche a me. Ma c’erano anche dei mercenari, dei criminali incalliti, degli ex galeotti che si erano arricchiti con la guerra e che mettevano in atto le loro fantasie di violenza. Era sconcertante vedere cosa avesse combinato l’esercito nelle tanto curate case cecene – avevano defecato in salotto, distrutto lampade e televisori, sparato non solo alla gente, ma anche alle mucche.
Nelle guerre le donne hanno spesso mostrato una dignità e una capacità di resistenza maggiore degli uomini. Qualità che lei ha notato anche nelle donne cecene. Da dove deriva questa forza?
Dal fatto che devono garantire la sopravvivenza giornaliera di vecchi e bambini; le contadine cecene sono state capaci di preparare la tavola anche tra le rovine, di prendersi cura degli animali e di vendere i prodotti al mercato. Non avevano tempo di pensare a sé, di cedere alla disperazione o di dedicarsi a discussioni politiche. Gli uomini erano morti, o in prigione, o sulle montagne a combattere, e le donne correvano sempre, e nel farlo aiutavano non solo le proprie famiglie, ma loro stesse. Sotto le bombe erano indistruttibili, solo dopo alcune di loro andavano in pezzi.
È tornata in Cecenia dopo la fine dell’ultimo conflitto?
No, non ne sopportavo più la distruzione. Ma già dopo la prima guerra voluta da Boris Eltsin ha fatto capolino il fondamentalismo islamico. Se la resistenza armata, almeno all’inizio, era un semplice moto popolare, i comandanti come Basaev si sono poi fatti crescere la barba, inneggiando all’islam radicale, e hanno obbligato le donne a coprirsi il capo. L’Arabia Saudita ha distribuito brochure religiose tra le macerie. I giovani contadini che non potevano andare a scuola sono stati trasformati in wahhabiti. Nel nord del Caucaso completamente distrutto rimanevano solo le armi e il Corano. Una società brutalizzata, demoralizzata, che ha sperato di trovare una nuova morale nell’islam radicale. Nella breve fase di indipendenza tra le due guerre, tra il 1996 e il 1999, il governo ceceno ha adottato la shari’a.
Com’è cambiata la percezione di quella guerra dopo la morte di Anna Politkovskaja?
Anna Politkovskaja era tenuta in grande considerazione in Cecenia: non era l’unica giornalista russa ad accusare il Cremlino di crimini di guerra ma era la più eminente, e ha pagato con la vita il suo coraggio e la fedeltà ai suoi principi. Per i ceceni il suo assassinio è stata una tragedia, avevano la sensazione che non ci fosse più nessuno cui rivolgersi, che riferisse i crimini dell’esercito russo in Russia. Pensavano che non valesse più la pena di ribellarsi contro Mosca, e che qualsiasi atto di resistenza o un resoconto fedele della guerra fosse insensato. I ceceni sono oggi un popolo piegato, traumatizzato, sconvolto, sia che vivano nel Caucaso o nei campi profughi di tutta Europa, sia che combattano per il Daesh.
RM

“Verità e giustizia per Beslan”

Beslan_photo

Da Avvenire di oggi

La strage degli innocenti della scuola n. 1 di Beslan, in Ossezia del nord, rivive nelle parole di una delle vittime con particolari inediti, spesso intimi, che gettano una nuova luce sulla più terribile strage della storia della Federazione russa. Ella Kesaeva abita ancora a pochi passi dall’edificio dove nel settembre del 2004 , durante la festa del primo giorno di scuola, un commando di guerriglieri ceceni prese in ostaggio oltre mille persone, tra studenti, genitori e insegnanti, chiedendo il riconoscimento dell’indipendenza e il ritiro dell’esercito russo dalla Cecenia. L’assedio durò tre giorni e finì con l’irruzione delle teste di cuoio russe nella scuola ma fu una carneficina, con 334 morti, oltre la metà dei quali bambini. Quel giorno Ella Kesaeva perse due nipoti adolescenti – i figli della sorella – e il cognato. Lei stessa rimase ferita. Da allora non ha mai smesso di lottare per tenere in vita la memoria delle vittime e per accertare le responsabilità della strage: da anni presiede Golos Beslana (La voce di Beslan), un’associazione che nonostante le minacce e le intimidazioni continua a battersi per i diritti delle vittime. In questi giorni è uscita l’edizione italiana del libro Beslan, nessun indagato (Carabba Editore) – realizzato in collaborazione con la Onlus Mondo in cammino -, nel quale Ella Kesaeva rivive le fasi concitate del sequestro e i terribili giorni dell’assedio, condivide il suo dolore di fronte ai corpi dei nipoti, gli anni di lotte alla ricerca della verità, la raccolta delle prove del massacro per accertare le responsabilità. La sua è una testimonianza che non può lasciare indifferenti e non lesina critiche nei confronti dell’operato delle forze speciali russe. “Abbiamo visto coi nostri occhi il fuoco che si abbatté sulla scuola con l’utilizzo di tecnologia militare pesante mentre gran parte degli ostaggi era ancora all’interno”, ci ha detto. “Col loro operato, col pretesto della guerra al terrorismo, non hanno salvato gli ostaggi. Li hanno condannati”.

Nella foto: Ella Kesaeva
Nella foto: Ella Kesaeva

Con questa convinzione, suffragata da prove e testimonianze – 43 chili di documenti, si legge nel libro – negli anni l’associazione ha presentato decine di ricorsi e denunce, l’ultima delle quali un anno fa, nel decennale dell’attentato. L’accusa, per i servizi segreti russi, è quella di essere responsabili dell’attacco terroristico, con la volontà di instaurare un ‘potere verticale’ all’interno del paese. Ma ancora nessun alto funzionario è stato messo sotto processo. Il solo colpevole della strage di Beslan resta ad oggi Nur-Pasha Kulaiev, unico superstite del commando ceceno. Per lui nel 2006 è arrivata la condanna all’ergastolo. Anni fa, su consiglio della compianta giornalista Anna Politkovskaja, Golos Beslana è stata la prima e finora unica associazione a presentare ricorso di fronte alla Corte europea per i Diritti umani. L’appello ai giudici di Strasburgo fu firmato da circa cinquecento persone, coinvolte a vario titolo nella strage. Ma per questo l’associazione è stata prima privata dei propri uffici e dello status giuridico, infine tacciata di estremismo. “Non hanno mandato giù le nostre accuse alle autorità federali – spiega Kesaeva – circa l’uccisione degli ostaggi. Ma noi abbiamo tutto il diritto di fare tali accuse perché ne abbiamo le prove e le abbiamo messe per iscritto in una dichiarazione alla comunità internazionale e al Congresso degli Stati Uniti”. In questi undici anni la determinazione e il coraggio a proseguire il percorso verso la verità e la giustizia non sono mai venute meno. “Crediamo che il grande sacrificio di Beslan non sia stato inutile e noi sopravvissuti all’attacco terroristico ci siamo impegnati prima di tutto per rispetto verso noi stessi”. “È proprio questo – prosegue – che ci ha aiutato a continuare a vivere e a lottare. La storia insegna che le autorità che versano il sangue dei propri cittadini alla fine ne pagano le conseguenze. Crediamo che prima o poi il Cremlino dovrà rispondere di quei fatti di fronte al tribunale dei diritti umani. Molti cittadini hanno già aperto gli occhi, anche se purtroppo solo molti anni dopo Beslan”. Intanto, il 2 luglio scorso, la Corte europea si è pronunciata a favore dell’ammissibilità dei ricorsi presentati dai familiari delle vittime in base agli articoli 2 e 13 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (diritto alla vita e diritto a un ricorso effettivo). La speranza – conclude Kesaeva – è che il verdetto definitivo dei giudici di Strasburgo consenta la riapertura di ulteriori procedimenti giudiziari.
RM

Il libro “Beslan. Nessun indagato” può essere richiesto all’associazione Mondo in cammino all’email info@mondoincammino.org al prezzo di 17 euro spedizione compresa. Il ricavato andrà a sostegno dei progetti per l’infanzia e la riconciliazione nei paesi dell’ex Unione Sovietica.