Savitskij, che salvò l’arte sovietica ai tempi di Stalin

Avvenire, 12 febbraio 2023

“Ho trovato questi dipinti arrotolati sotto i letti di vecchie vedove, sepolti tra la spazzatura di famiglia, in angoli bui di studi d’arte, a volte utilizzati come rattoppi per i buchi nel tetto. Ne è venuta fuori una collezione che nessuno in Unione Sovietica avrebbe avuto il coraggio di mettere in mostra”. Igor Savitsky, archeologo russo con la passione per l’arte, non immaginava che con la sua attività di collezionista sarebbe passato alla storia rendendo un servizio all’umanità. Nel 1950 era arrivato a Nukus, nell’Uzbekistan del nord, al seguito di una spedizione etnografica e archeologica. Lontano da Mosca e dal clima opprimente che soffocava ogni istanza culturale non asservita al regime si era sentito finalmente libero e aveva deciso di stabilirsi in quella cittadina delle steppe centro-asiatiche. Si era messo a collezionare manufatti locali, tessuti e gioielli, poi aveva iniziato a raccogliere opere d’avanguardia di pittori dissidenti vittime del terrore stalinista.

Artisti che erano finiti nei gulag come Vladimir Lysenko, Yury Nikolaev, Mikhail Kurzin e tanti altri. Le loro opere avrebbero dovuto essere distrutte perché contrastavano con l’estetica del realismo socialista e con i canoni rigidamente codificati dal regime. A partire dai primi anni ‘30 qualsiasi altro stile dell’epoca – come cubismo, astrattismo, futurismo – era considerato illegale e veniva punito severamente. Ma qualche voce libera riuscì comunque a resistere e a esprimersi nell’ombra. Se è giunta fino ai giorni nostri gran parte del merito va proprio a Igor Savitsky, che con il trascorrere degli anni accumulò un’enorme quantità di opere d’arte “proibite” e a quella collezione dedicò il resto della sua vita. Nukus, capitale della regione uzbeka autonoma del Karakalpakstan, si trova ai confini del deserto del Karakum, tra l’Uzbekistan e il Turkmenistan, e proprio la lontananza dai grandi centri del potere sovietico permise a Savitsky di acquistare e salvare dalla distruzione quei dipinti che erano stati messi al bando. Nel 1966 riuscì ad aprire in quella remota città un museo di arte e di etnografia, nei cui magazzini accatastò di nascosto migliaia di opere d’arte critiche nei confronti di Stalin o di Lenin. Le autorità sovietiche non avevano idea di cosa stesse facendo, e quando arrivavano gli ispettori da Mosca, i dipinti più controversi venivano spostati, le didascalie venivano modificate e certe opere erano contrassegnate come “autore ignoto”. È quanto accadde, ad esempio, al famoso toro dipinto da Vladimir Lysenko, che venne occultato in occasione di una visita ufficiale per poi essere rimesso in mostra il giorno successivo. O ai disegni di Nadezhda Borovaya, che ritraevano il gulag in cui l’artista stessa era stata rinchiusa negli anni ‘30. Nelle lande più remote dell’Uzbekistan Savitsky scoprì e valorizzò anche una scuola di artisti locali sconosciuti che lì si erano rifugiati dopo la Rivoluzione d’ottobre, e avevano dato vita a uno stile assolutamente originale, frutto della fusione tra il modernismo europeo e le antiche tradizioni della cultura orientale. L’uomo che sfidò l’impero sovietico dedicando la sua vita al salvataggio dell’arte sarebbe morto nel 1984, in povertà, senza avere il tempo di veder riconosciuto l’immenso valore del suo lavoro. Soltanto qualche anno più tardi, con la Perestrojka, e soprattutto a partire dal 1991, in seguito all’indipendenza dell’Uzbekistan, il museo Savitsky di Nukus è stato reso accessibile ed è diventato una meta per gli appassionati d’arte di tutto il mondo. Oggi raccoglie una splendida collezione di avanguardia russa, seconda per ampiezza e importanza soltanto a quella del museo statale di San Pietroburgo, oltre a sculture e reperti archeologici dell’antichissima civiltà Corasmia e a manufatti delle tribù nomadi del Karakalpak. È quasi un Louvre dell’Asia centrale, simbolo della forza e della resilienza dell’arte.

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