Avvenire, 19 agosto 2023
Se n’è andato ieri all’età di 78 anni Marko Vesovic, uno degli ultimi grandi intellettuali dell’ex Jugoslavia, il poeta che combatté con i versi per difendere l’anima di Sarajevo di fronte al feroce assedio degli anni ‘90. Durante la guerra avrebbe potuto lasciare la città ma scelse di non andarsene e di continuare a stare dalla parte delle vittime, perché la sua presenza e la sua scrittura infondevano coraggio e speranza ai sarajevesi. Per anni era stato docente di estetica all’università, editorialista e critico dei principali quotidiani bosniaci e montenegrini, autore di una trentina di libri in poesia e prosa.
Tra le sue opere principali spiccano la raccolta di poesie La cavalleria polacca e Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo, un libro uscito anche in edizione italiana nel 1996 in cui raccolse piccole storie di vita quotidiana al tempo dell’assedio. Originario del Montenegro, era arrivato a Sarajevo in gioventù, laureandosi in filosofia e iniziando a maturare un attaccamento profondo alla città e ai suoi abitanti. Risaliva ai tempi dell’università anche la sua amicizia con Radovan Karadzic, l’aspirante poeta divenuto poi uno dei principali carnefici della Bosnia condannati all’Aja per genocidio. Entrambi montenegrini, erano arrivati a Sarajevo per studiare e avevano fatto parte dei più importanti circoli culturali della città. Ma poi le loro vite avevano preso direzioni opposte e antitetiche, perché Vesovic riteneva di essere prima di tutto un uomo, e poi un montenegrino, un serbo, un cattolico o un musulmano.
In gioventù era stato amico anche di Nikola Koljevic, il grande esperto dell’opera di Shakespeare che sarebbe diventato uno degli ideologi della pulizia etnica e avrebbe autorizzato personalmente la distruzione della biblioteca nazionale di Sarajevo. Vesovic fu uno dei pochi intellettuali di quegli anni che rigettò il nazionalismo fin dagli albori, non volle in alcun modo accettare la menzogna dell’odio etnico e diventò il primo accusatore dei torturatori guidati dal suo ex amico Karadzic. Ma la scelta gli costò cara. Per quello che scriveva e diceva venne considerato un’anomalia e subì attacchi feroci da molti suoi connazionali. In Montenegro divenne la personificazione del traditore, gli tolsero la cittadinanza, la chiesa serbo-ortodossa lo scomunicò, fu persino ripudiato dalla sua famiglia. Nessuno riuscì però a scalfire le sue convinzioni. Durante la guerra rimase nel suo piccolo appartamento in centro, a farsi sparare addosso e a osservare un mondo che andava in pezzi, costretto a bruciare centinaia di libri per difendersi da quattro inverni. Proprio sotto le bombe, nello scantinato della sua casa, scrisse una delle sue poesie più note, Il manico: “Noi che abbiamo vissuto l’assedio di Sarajevo/ certamente, non ne trarremo alcun profitto/ Quell’esperienza non ci servirà a nulla…/ Sapere quanto puoi sopportare senza andare in pezzi/ questo è l’unico potere che avrai, se sopravviverai, dopo questa guerra infinita come il fazzoletto che un prestigiatore tira fuori dal cilindro”. Fino alla fine dei suoi giorni ha continuato a vivere a Sarajevo, a scrivere e a insegnare senza clamori. Sentendosi postumo in un mondo che non riconosceva più.