Beirut, Antigone ferma la guerra

Avvenire, 19.1.2017

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Sfidare la guerra, la violenza, la morte con la forza politica dirompente dell’arte e del teatro. Forse non può esistere un’utopia più grande di quella immaginata dallo scrittore francese Sorj Chalandon nel suo ultimo romanzo tradotto in italiano, La quarta parete (Keller editore, traduzione di Silvia Turato, pp. 288). Ambientato nei primi anni ’80 in una Beirut dilaniata dalla guerra, il libro racconta la storia di un giovane francese che cerca in tutti i modi di mantenere la promessa fatta a un amico, compagno di ideali e di lotte universitarie: mettere in scena l’Antigone di Jean Anouilh in una zona di guerra, offrendo un ruolo a ciascuno dei belligeranti, portando la pace tra casa e casa, mischiando ex oppressori ed ex oppressi per una sola, breve rappresentazione. Chalandon è stato per trent’anni inviato del quotidiano francese Libération sui fronti di guerra di tutto il mondo, prima di iniziare a dedicarsi con successo all’attività di romanziere. Memorabili i suoi precedenti libri tradotti in italiano, Il mio traditore (Mondadori, 2009) e soprattutto Chiederò perdono ai sogni (Keller, 2014), entrambi ambientati ai tempi della guerra in Irlanda del Nord.

Sorj Chalandon
Sorj Chalandon

Dal 1981 al 1987 ha seguito il conflitto in Libano, innescato in quegli anni dal corto circuito che aveva fatto saltare il fragile equilibrio tra le comunità cristiane, perlopiù maronite, e quelle musulmane, sciite e druse. Anche stavolta, come nei due romanzi precedenti, l’universo narrativo di Chalandon è ispirato a una realtà ben precisa che lascia ben poco spazio alla finzione. La quarta parete è un libro sull’assurda quotidianità della guerra, sull’implosione dei rapporti umani e sulla perdita dei valori morali e ideologici di fronte agli orrori del mondo. Ma è anche un romanzo fortemente autobiografico, dove l’autore è trasfigurato nei panni di Georges, il protagonista, un giovane appartenente a una generazione idealista e disillusa. “Georges è una parte di me – ci spiega Chalandon – ed esprime tutti i fantasmi che ho accumulato in quell’epoca, rappresenta tutto ciò che non mi piace di me stesso. Ho scritto questo libro anche per uccidere una parte del mio passato”.
Un’amicizia nata nelle aule universitarie ai tempi delle contestazioni studentesche lega Georges a Samuel Akounis, regista greco scappato alla dittatura dei colonnelli e adesso costretto dalla malattia ad attendere la morte in un letto d’ospedale. Per rispettare l’ultimo desiderio del suo amico, Georges si ritrova nelle strade di Beirut sotto il fuoco delle bombe e dei cecchini: vuole mettere in scena l’Antigone di Jean Anouilh, la pièce teatrale che fu rappresentata per la prima volta nel 1944, nella Parigi occupata dai nazisti. All’epoca la commedia di Sofocle attualizzata da Anouilh era stata accolta come una suprema forma di resistenza, e la fanciulla che osava sfidare Creonte, il potente re di Tebe, era divenuta per gli spettatori il simbolo di un popolo che rifiutava l’autorità degli occupanti. “Nata in Grecia, immaginata tra le mani del Reich o interpretata nella Parigi occupata, Antigone era di tutti i tempi, della nostra attualità”, spiega il protagonista in un passaggio-chiave del libro. Il sogno di Samuel e Georges è quello di interrompere la guerra in Libano e patteggiare una tregua di due ore per rappresentare almeno qualche atto dell’Antigone con un cast di attori provenienti da ciascuna delle parti in campo. Il ruolo di Antigone spetterà a Imane, palestinese e sunnita, quello di Creonte a Charbel, cristiano maronita, quello di Emone, fidanzato di Antigone, al druso Nakad, quello di Ismene all’armena Yeckine. Ciascuno di loro riuscirà a liberarsi, almeno per breve tempo, della propria identità adattando il testo della commedia e dandogli una tensione nuova. Ma oltre al parallelo con la rappresentazione nella Parigi occupata dai nazisti, c’è un altro valido motivo per il quale Chalandon ha scelto di far rappresentare la commedia rivisitata da Anouilh e non la versione originale di Sofocle. “L’Antigone di Sofocle si ribella contro gli dei – spiega – e credo che chiedere a sciti, drusi e cristiani libanesi di rivoltarsi contro gli dèi fosse assai fuori luogo, oltre che estremamente complicato. L’Antigone di Anouilh si ribella invece contro il re, contro l’autorità degli uomini, quindi era adattabile più realisticamente alla realtà libanese e alle guerre moderne”.
Questo libro riesce a raccontare meglio di tanti reportage la complessità del contesto sociale e religioso mediorientale – non a caso in Francia ha già ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il prestigioso Prix Goncourt Des Lycéens – e la sua tragica conclusione ci accompagna dentro a uno dei “cuori di tenebra” del ‘900: il massacro di Sabra e Chatila del settembre 1982. Chalandon fu all’epoca uno dei testimoni del terrificante eccidio compiuto dalle falangi libanesi e dall’esercito israeliano nel campo profughi palestinese alla periferia di Beirut. La barbarie che si presentò ai suoi occhi è rimasta per lunghi anni sepolta nel profondo del suo cuore e della sua mente, fino a quando non è tornata fuori, e lo scrittore francese ha sentito che era arrivato il momento di rielaborarla, come in una catarsi. “Per anni ho negato a me stesso che le guerre che avevo visto mi avessero ferito psicologicamente. Col passare degli anni mi sono reso conto invece di aver accumulato un’enorme quantità di dolore. Ho cominciato a svegliarmi di notte, continuamente, per andare a vedere se le mie bambine erano vive o morte. Una volta, ricordando la mia esperienza di reporter di guerra nel corso di un’intervista, sono scoppiato a piangere. Allora ho deciso di tornare a Sabra e Chatila in forma letteraria, perché là avevo lasciato una parte di me ed era giunto il momento di riportarla indietro, di far versare a Georges quelle lacrime che all’epoca non ero stato capace di versare io”. Anche per tenere a bada, a posteriori, il senso di colpa per non aver pianto di fronte a quel massacro. “Un giornalista deve essere in grado di raccontare la guerra senza farsi coinvolgere”, ci dice. “Il mio lavoro di romanziere comincia dove finisce quello di reporter. In Libano il mio taccuino era aperto sempre su due pagine, su quella a destra scrivevo i fatti, registrando la realtà come la vedevo; su quella a sinistra annotavo invece le emozioni e le reazioni più intime di fronte a quello che avevo vissuto. Questo libro raccoglie di fatto tutte le pagine sinistre dei miei taccuini libanesi”. La potente metafora teatrale della “quarta parete” – il muro immaginario che gli attori costruiscono intorno alla scena per rinforzare l’illusione e proteggere il loro personaggio – diventa in questo senso una barriera invisibile che separa la guerra dalla pace, la vita dalla morte, e che l’autore di questo splendido romanzo è riuscito infine a superare attraverso gli occhi, il cuore e le gambe di Georges.
RM

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