C’è un episodio finora rimasto ignoto che è in grado di descrivere tutto il coraggio e la statura religiosa, morale e politica di suor Maura Clarke. Accadde in Nicaragua, alla fine degli anni ’70, quando questa piccola donna con gli occhiali afferrò per un braccio un alto ufficiale della Guardia Nazionale. “Perché avete arrestato queste persone? – gli chiese – stanno solo protestando per la mancanza di acqua potabile, è un loro diritto”. Il soldato, vedendo che ad affrontarlo era una religiosa, perlopiù straniera, le rispose con tono sprezzante. “Sorella, se ne torni al suo convento”. Allora Sister Maura perse la pazienza e iniziò a gridare, indicando la strada polverosa e piena di bisognosi: “questo è il mio convento! Questo è il mio convento!”. Qualche anno dopo, la sua storia avrebbe conosciuto un tragico epilogo in un altro dei disastrati paesi dell’America Centrale, il Salvador. Il 2 dicembre 1980, pochi mesi dopo il brutale assassinio dell’arcivescovo Oscar Romero, vennero ritrovati in una fossa i cadaveri di Maura Clarke e altre due religiose (Dorothy Kasel e Ita Ford), oltre a quello di una missionaria laica, Jean Donovan. Le quattro donne erano state torturate, violentate e barbaramente uccise dagli squadroni della morte del regime. Il colpo di stato militare dell’anno prima aveva rotto definitivamente gli argini della legalità nel piccolo, poverissimo paese centroamericano reduce da una lunga stagione di guerre civili e uccisioni indiscriminate. Il potere nelle mani delle forze armate e l’uso generalizzato della tortura e dell’assassinio contro gli oppositori – veri o presunti – avevano gettato il Salvador in un abisso di orrori senza fine. Gli omicidi, le stragi e le brutalità erano all’ordine del giorno: solo nel 1980 furono ammazzati circa ottomila uomini, donne e bambini ma l’assassinio delle quattro donne statunitensi segnò un punto di non ritorno destinato a passare alla storia.
Prima di essere chiamata in Salvador proprio da monsignor Romero, suor Maura Clarke aveva trascorso vent’anni di servizio in Nicaragua, diventando una delle missionarie più amate e rispettate di tutta l’America Latina. Eppure nessuno finora aveva mai scritto una biografia organica capace di renderle pienamente giustizia indagando a fondo sulla sua figura. Dopo tanto tempo la lacuna è stata finalmente colmata dalla giornalista investigava statunitense Eileen Markey, il cui libro A Radical Faith: The Assassination of Sister Maura, non è un’inchiesta sull’omicidio come il titolo potrebbe erroneamente far credere, ma un affascinante ritratto della sua vita, della vocazione e delle scelte radicali che l’avrebbero condotta verso quella tragica fine.
Nata nel 1931 nel distretto newyorchese di Queens da una famiglia di origini irlandesi, Maura Clarke imparò fin da bambina ad ascoltare la voce degli oppressi grazie ai racconti del padre, impegnato in gioventù nella lotta per la libertà dell’Irlanda. Giovanissima, entrò a far parte delle suore domenicane di Maryknoll e ricevette il suo primo incarico in Nicaragua. Per oltre vent’anni sarebbe rimasta a stretto contatto con la povertà dilagante della piccola cittadina di Siuna, a centinaia di chilometri dalla capitale Managua, lavorando a fianco delle popolazioni più derelitte e degli operai sfuttati delle miniere d’oro. Immedesimarsi nelle lotte per l’emancipazione dei poveri e nella condanna delle ingiustizie secondo lo spirito del Concilio Vaticano II e le teorie elaborate alla Conferenza episcopale di Medellìn del 1968 fu per lei una scelta naturale, che solcò tutto il suo percorso spirituale e umano. Ma il libro della Markey, basato su un’approfondita ricerca d’archivio, su decine di interviste a familiari, collaboratori e compagne di seminario di suor Maura, nonché sullo studio delle sue lettere private, mette anche in evidenza il suo atteggiamento fortemente critico nei confronti della politica estera statunitense e delle complicità indotte dalla Guerra fredda. La lunga esperienza in Nicaragua le aveva consentito di vedere con i suoi stessi occhi come gli Stati Uniti stessero sostenendo le dittature militari e i regimi repressivi dell’America Latina.
Suora Maura era arrivata in Salvador nell’agosto del 1980, cinque mesi dopo il martirio di Oscar Romero, nel momento in cui la persecuzione contro i religiosi aveva raggiunto ormai livelli parossistici. Si unì agli altri missionari a Chalatenango, nel nordovest del paese, e con loro si impegnò ad aiutare i rifugiati che scappavano dalle zone di conflitto, a curare i feriti, a offrire rifugio ai sopravvissuti, a trasportare cibo e medicinali. E non mancò di denunciare senza alcun timore le atrocità, i massacri e le sparizioni taciute da una stampa che era sottoposta a una censura strettissima. In un passaggio cruciale, il libro racconta che pochi giorni prima dell’assassinio, il ministro della Difesa salvadoregno José Guillermo Garcìa riunì la giunta militare del paese puntando il dito proprio contro quei religiosi impegnati a Chalatenango. Li aveva definiti “nemici del regime”, affermando che stavano collaborando con la resistenza armata. Furono le sue parole a renderli bersagli sempre più legittimi e a dare il via libera ai loro carnefici. Negli anni successivi, le inchieste avrebbero accertato che gli uomini del commando che assassinarono lei e le altre tre donne erano stati addestrati nella famigerata School of the Americas (SOA), la scuola di combattimento in Georgia, negli Stati Uniti, che insegnava tecniche di repressione e spionaggio militare. Suor Maura aveva ricevuto numerose minacce, ma non si era fatta scoraggiare, né aveva mai pensato di lasciare il Salvador per mettersi al sicuro. La notte in cui fu aggredita e uccisa dalle forze di sicurezza stava tornando da una preghiera incentrata sull’immagine biblica del buon pastore che non abbandona il suo gregge. Mai, neanche di fronte alla morte.
RM