Il “libro nero” dell’umanità

Da “Avvenire” di oggi

Sono passati appena settant’anni da quando il giurista polacco Raphael Lemkin coniò un termine destinato a entrare tristemente nel nostro linguaggio comune: genocidio. Quella parola, che univa il prefisso ‘geno’ – dal greco razza o tribù – al suffisso ‘cidio’ – dal latino uccidere – avrebbe indicato da quel momento in poi la metodica distruzione di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Nato nella Russia zarista e fuggito in Svezia subito dopo l’invasione nazista della Polonia, Lemkin era un profondo conoscitore del primo grande sterminio di massa del XX secolo (quello armeno) e ancora non poteva sapere che la storia stava per ripetersi drammaticamente con l’Olocausto, né tantomeno che tra i milioni di morti di quegli anni ci sarebbero stati anche decine di suoi familiari. Dopo la guerra, per cercare d’impedire alla storia di ripetersi di nuovo, Lemkin si adoperò a lungo alle Nazioni Unite per far riconoscere il concetto di genocidio nel diritto internazionale e anche grazie al suo lavoro, nel 1951 entrò finalmente in vigore la “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio”, che individuava per la prima volta le responsabilità degli individui e degli stati. Fu una sorta di accordo-spartiacque, che senza mezzi termini definiva il genocidio “crimine internazionale”, e impegnava gli stati firmatari a combatterlo e a punirlo. Purtroppo sappiamo bene che i progressi sul piano giurisdizionale non sono stati affatto sufficienti a prevenire i genocidi che hanno solcato la storia recente fino ai giorni nostri, dalla Cambogia all’Indonesia, dalla Bosnia al Ruanda. E allora studiarne le cause, i possibili punti in comune, i segnali d’allarme che hanno scatenato quei corti circuiti della storia pagati a carissimo prezzo in termini di vite umane, diventa sempre più importante anche a livello accademico.
Gli studi pionieristici di Lemkin sono stati un punto di riferimento imprescindibile anche per Cathie Carmichael, direttrice della rivista Journal of Genocide Research e storica dell’Università dell’East Anglia di Norwich, nel Regno Unito. Carmichael è la curatrice, insieme a Richard Maguire, di The Routledge History of Genocide, un volume appena uscito in lingua inglese che contiene una ricca varietà di opinioni e di prospettive ed è destinato a diventare una pietra miliare degli studi sul tema.
Un’opera del genere non può ovviamente far a meno di parlare della Shoah e della tragedia ruandese, delle stragi dell’ex Jugoslavia e della terribile carestia con la quale Stalin causò la morte per fame di milioni di ucraini negli anni ’30 del XX secolo, e di tanti altri casi simili. Ma nel lungo elenco di orrori che il libro analizza nel dettaglio, i fatti più noti si alternano a vicende piccole e remote dei secoli scorsi: dall’anglicizzazione forzata dell’Irlanda compiuta dai sovrani inglesi della dinastia Tudor a partire dal XVII secolo fino alla questione dei “bambini rubati”, i piccoli aborigeni australiani sottratti alle loro famiglie nel secolo scorso per “farne dei bianchi”, fino ad arrivare addirittura, compiendo un salto a ritroso nel tempo di decine di secoli, agli omicidi di massa avvenuti nella penisola iberica nella Seconda Età del ferro.
Avvalendosi delle ricerche più aggiornate dei cosiddetti Genocide studies di scuola britannica e utilizzando il concetto di genocidio come categoria di analisi, il libro risponde a quesiti decisivi e inquietanti sulla violenza di massa rivelando la varietà storica, geografica e ideologica dei singoli atti di genocidio. D’altra parte, lo stesso Lemkin era convinto che l’epoca nella quale stava vivendo non fosse “la più crudele della storia dell’umanità”, né si illudeva che il progresso avrebbe inerzialmente risolto il problema. Non tutti gli esperti che hanno firmato la ventina di saggi contenuti nel libro giungono alla conclusione che il termine genocidio sia storicamente applicabile al caso da loro analizzato ma ritengono comunque necessario utilizzarlo per inserire le singole vicende in un contesto storico più ampio. Il volume ha infatti il grande pregio di descrivere il genocidio non come un insieme di fatti isolati, talvolta apparentemente insensati e inspiegabili, bensì come un fenomeno purtroppo globalmente diffuso a livello mondiale, che può ripetersi in qualunque momento. Anche in Europa, come ha dimostrato il recente caso bosniaco. Nel libro ci sono specifiche sezioni riservate al ruolo svolto dalle ideologie nel genocidio, al rapporto tra guerra e genocidio e all’importanza delle armi nucleari nel dibattito sul genocidio. Nel 1939 Hitler chiese ai suoi ufficiali, per spingerli alla Soluzione finale della questione ebraica: “Chi si ricorda, oggi, dello sterminio degli armeni?”. Ancora adesso, queste parole devono risuonare come un monito contro l’oblio, che garantendo l’impunità consente alla storia di ripetere i suoi errori più tragici. La giustizia e la memoria, ma anche l’approfondimento e la ricerca, sono gli unici antidoti contro questo male apparentemente incurabile.
RM

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