“Mio piccolo Diario, io non voglio morire, voglio vivere anche se di tutto il distretto rimanessi soltanto io. Aspetterei la fine della guerra in una cantina o in una soffitta, o in un buco qualsiasi; mio piccolo Diario io mi lascerei baciare dal gendarme dagli occhi storti che ci ha portato via la farina, basta che non mi uccidano, che mi lascino vivere!”. L’ultima, struggente pagina delle memorie della tredicenne Éva Heyman prende forma il 30 maggio 1944. Appena una settimana più tardi, mentre gli Alleati stanno sbarcando in Europa per la prima volta, la ragazzina sorridente con le lunghe trecce viene deportata ad Auschwitz dove morirà insieme a mezzo milione di ebrei ungheresi. Per più di due mesi, a partire dal 13 febbraio di quell’anno, la piccola Éva raccoglie in un piccolo diario pensieri e riflessioni intime, oltre a racconti dettagliati sulla situazione sempre più drammatica degli ebrei della cittadina di Nagyvárad, l’attuale Oradea, al confine tra la Romania e l’Ungheria. In poco tempo vede il mondo intorno a sé precipitare inesorabilmente verso un abisso senza ritorno: prima l’internamento nel ghetto, le notizie degli arresti e delle persecuzioni che si susseguono, poi la deportazione di Márta, la sua migliore amica. È il segnale ineluttabile che presto la stessa sorte toccherà anche a lei, eppure dai suoi scritti lucidi e commoventi continua a trasparire una speranza di salvezza, la convinzione di poter continuare a vivere. “A Budapest ci sono continui allarmi antiaereo – scrive il 18 marzo -, ho tanta paura che presto ce ne saranno anche qui. Non riesco quasi a scrivere a causa della preoccupazione per quello che potrebbe succedere se dovessero bombardare Nagyvárad. Io voglio vivere a tutti i costi”.
Sono trascorsi esattamente settant’anni da quando, nel 1947, la giornalista Ágnes Zsolt fece pubblicare il diario di sua figlia Éva, che oggi viene proposto per la prima volta in italiano da Giuntina, una delle case editrici più attente al tema della memoria dell’Olocausto, col titolo Io voglio vivere. Diario di Eva Heyman. È senza dubbio sorprendente che una testimonianza straordinaria come questa non avesse finora suscitato alcun interesse editoriale nel nostro paese. Éva Heyman trascorse i suoi ultimi mesi di vita nel lager C del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau e secondo testimoni oculari fu selezionata personalmente da Mengele per il forno crematorio, il 17 ottobre 1944. Dalle lettere riportate in appendice al libro si apprende che prima di essere deportata, la ragazza era riuscita ad affidare le sue preziose memorie a una domestica cattolica della famiglia, Mariska Szabó. Fu lei, al termine della guerra, a consegnarle alla madre, scampata miracolosamente allo sterminio fuggendo da Bergen-Belsen, lo stesso campo di concentramento nel quale alcuni mesi più tardi sarebbe morta Anna Frank. Anni dopo il suo patrigno, lo scrittore ungherese Béla Zsolt, la definì nel suo libro autobiografico Le nove valigie “la ragazzina con quel meraviglioso visino da mela, con la sua avida curiosità, l’ambizione, la vanità, gli occhi luminosi che sprizzavano energia”. Il diario di Éva venne dato alle stampe poco prima che sull’Ungheria e sugli altri paesi del blocco sovietico calasse il lungo silenzio imposto da Mosca sulla Shoah. Da quel momento in poi, l’Olocausto divenne un argomento tabù e portò alla censura persino opere come quelle del premio Nobel ungherese Imre Kertész. Un paragone con il ben più famoso diario di Anna Frank sorge spontaneo, e non si limita all’età delle due autrici, come sottolinea opportunamente nella postfazione del libro la traduttrice italiana della Heyman, Andrea Renyi. Entrambi i diari iniziano infatti nel giorno del tredicesimo compleanno delle due ragazze e si concludono a un paio di mesi di distanza l’uno dall’altro. Anna è più colta e i suoi scritti sono più completi, anche perché coprono un periodo di tempo più ampio: il suo diario inizia infatti nel 1942 e prosegue per due anni, quando la Frank è più grande ed è quindi in grado di articolare riflessioni più profonde e mature. Ma anche la ragazza ungherese, nel pur breve periodo di tempo che ha a disposizione, riesce a fornire una testimonianza intima sulla Shoah dallo straordinario valore documentale. Éva sogna di diventare una fotoreporter, non nasconde le sue inquietudini, le sue paure e una profonda tristezza per il divorzio dei genitori. Sua madre, dopo essersi risposata con lo scrittore Béla Zsolt, si è trasferita prima a Budapest e poi a Parigi. La ragazza, affidata ai nonni materni, soffre percependo di non essere al primo posto nel cuore della madre e prova invidia per l’amica Anni che è invece amata e coccolata dai suoi genitori. Contrariamente ad Anna Frank, non è costretta a nascondersi in un alloggio segreto: può ancora uscire, camminare e percorrere le strade della città con la sua bicicletta. La sua vita con i nonni – che possiedono una farmacia – prosegue serena e relativamente agiata fino all’invasione nazista dell’Ungheria, il 19 marzo del 1944. Da quel momento in poi niente sarà più come prima. Il freddo, la fame, le privazioni e i soprusi quotidiani seguiranno un copione tristemente noto, con un finale già scritto. L’autenticità del suo diario è fuori discussione, anche se il manoscritto non esiste più e un ritrovamento è ritenuto ormai impossibile, poiché nel frattempo sono scomparse tutte le persone a lei vicine. Il suo patrigno morì nel 1949. Sua madre, Ágnes Zsolt, è morta suicida nel 1951, molto probabilmente dopo aver ritoccato e corretto, almeno in parte, le memorie della figlia.
RM