Bhopal, 25 anni senza giustizia

E’ trascorso ormai un quarto di secolo ma il più grave disastro industriale della storia continua a mietere vittime. Oltre 500mila persone soffrono ancora le terribili conseguenze di quello che accadde la notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, quando oltre 40 tonnellate di gas tossici fuoriuscirono dalla fabbrica di pesticidi della Union Carbide a Bhopal, capitale dello stato indiano di Madhya Pradesh. La nube tossica si sprigionò a causa della cattiva manutenzione dell’impianto di proprietà della multinazionale statunitense e si diffuse tra le migliaia di persone che vivevano nelle vicinanze dello stabilimento. In poche ore i morti per asfissia furono oltre duemila ma salirono a circa ottomila dopo soli tre giorni, mentre decine di migliaia riportarono gravissime ustioni agli occhi e ai polmoni. Ad oggi i dati ufficiali parlano di almeno 25mila persone morte per le conseguenze del disastro della fabbrica di pesticidi, ma questa tragica contabilità continua a salire con una regolarità impressionante: “circa quindici persone muoiono ogni mese – precisa Mohammed Ali Qaiser, medico della Sambhavana Trust Clinic di Bhopal sopravvissuto a quella notte d’inferno. “All’epoca ero uno studente di quindici anni – ricorda – vivevo coi miei genitori, le mie sorelle, una delle quali incinta, e i loro figli piccoli. La nube ci ha colti silenziosamente nel sonno, come tutta la popolazione del luogo. Non riuscivamo più a respirare, la gola e gli occhi ci bruciavano, abbiamo cominciato a correre fuori dalle nostre case insieme a tutti gli abitanti della zona, un fuggi fuggi generale, per molti inutile”. Il racconto delle ore successive si fa ancora più drammatico. “Ricordo le pile di corpi ammassati nell’ospedale, centinaia di donne, vecchi, bambini, e un odore nauseabondo che infestava tutta la zona”. Tutta la famiglia di Mohammed, lui compreso, ha cominciato a soffrire di gravi deficienze respiratorie, di irritazione agli occhi e ai polmoni; suo padre è morto alcuni anni dopo il disastro tra indicibili sofferenze, mentre una delle sue sorelle ha dato alla vita un bimbo ritardato. Dopo quella notte, consapevole di essere un sopravvissuto, Mohammed ha deciso di intraprendere la carriera di medico per dedicarsi alla cura delle vittime, completamente abbandonate al loro destino dalle autorità locali. “Le istituzioni indiane non hanno fatto niente per aiutarci per paura di perdere gli investimenti occidentali – spiega – e se non fosse stato per la solidarietà scattata tra noi saremmo tutti morti di malattie, di stenti, di disperazione”. Secondo dati ufficiali dell’agenzia governativa indiana sono almeno 150.000 i malati cronici che necessitano di continue cure mediche, ma sono oltre il triplo le persone ancora affette da gravi problemi, come danni permanenti agli occhi e ai polmoni, disturbi neurologici, alterazione del sistema ormonale e non ultimo l’insorgere di cancro. Senza contare che molte donne contaminate dal gas hanno dato alla luce bambini malformati o gravemente ammalati. Per tutte queste persone la Sambhavana Trust Clinic, che si trova poco lontano dal luogo del disastro, è l’unica speranza di un futuro migliore. “La clinica dove lavoro è stata creata per assistere gratuitamente le vittime della tragedia e da anni riusciamo a tirare avanti solo grazie alle generose donazioni che arrivano dall’estero e al lavoro di tanti volontari”. Oltre la metà del personale della clinica è infatti composta da sopravvissuti alla strage, che giornalmente devono combattere contro l’impossibilità di individuare trattamenti adeguati per i malati poiché l’azienda si è sempre rifiutata di rivelare l’esatta composizione del gas tossico. “Quel che è più grave – denuncia Mohammed – è che la gente continua ad ammalarsi e anche chi all’epoca non era stato contaminato adesso sta avendo gravissimi problemi perché le falde acquifere della zona sono pesantemente contaminate dalle tonnellate di rifiuti tossici abbandonati sul posto”. Ma se le autorità del luogo hanno fatto ben poco per aiutare i sopravvissuti, i responsabili della tragedia hanno fatto ancora meno “La Union Carbide abbandonò immediatamente il sito industriale dopo l’incidente senza preoccuparsi minimamente di bonificare l’area, e solo dopo cinque anni di battaglie legali decise di corrispondere un irrisorio risarcimento alle vittime, tra i 300 e i 600 dollari a testa, che la gran parte di loro non ha ancora visto e forse non vedrà mai”. Un altro aspetto vergognoso della vicenda è rappresentato dall’impossibilità di perseguire Warren Anderson, l’ex presidente della Union Carbide. Per lui la corte indiana ha emanato dieci anni fa un mandato di comparizione per omicidio colposo, ma le autorità statunitensi non hanno mai concesso l’estradizione. Così Anderson è attualmente “latitante” in una villa a Long Island dove si gode una pensione dorata. Finora nessun dirigente della fabbrica è stato processato sebbene non vi siano dubbi che le cause della strage furono l’incuria, la scarsa manutenzione dell’impianto e i sistemi di sicurezza fuori uso. “Vogliamo giustizia una volta per tutte – spiega Mohammed a nome della sua gente – ma ancora più importante della condanna dei responsabili è che si proceda alla bonifica del sito industriale abbandonato e del territorio circostante”. Ancora oggi sono migliaia le famiglie del luogo che continuano a usare acqua avvelenata per dissetarsi e per innaffiare gli orti, semplicemente perché non hanno altra scelta. Nel febbraio 2001 la Union Carbide è stata acquistata dalla Dow Chemicals, la più grande industria chimica del mondo, una multinazionale che fattura oltre 30 miliardi di dollari l’anno. Ma per i disperati di Bhopal non è cambiato niente, perché i nuovi proprietari non vogliono ereditare il pesante fardello lasciato dalla Union Carbide, e si rifiutano di bonificare il territorio. Mohammed Qaiser, smessi per un momento i panni del medico per indossare quelli dell’ambasciatore delle sofferenze della sua gente, da anni gira il mondo per sensibilizzare l’opinione pubblica ma soprattutto per fare pressione sulle filiali europee della Dow Chemicals. “È assolutamente inaccettabile – conclude – che negli Stati Uniti la Dow abbia risarcito i danni ai lavoratori esposti all’amianto ma si rifiuti di fare qualcosa per le vittime di Bhopal”.

Un pensiero riguardo “Bhopal, 25 anni senza giustizia”

  1. La giustizia non è per tutti. E non è fatta per tutti.
    In Italia è lo stesso per il maxi processo Eternit. ancora nessuna risposta o quanto altro. O meglio ancora il raggiungimento di un accordo e un processo che non finisce più. Visto che questo barcamenare la giustizia favorisce sempre il grosso e mai il piccolo. E il fatto la class action non sarà retroattiva la spiega molto molto bene.

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