Via dei Georgofili, 25 anni senza verità

Avvenire, 27.5.2018

“Non possiamo perdonare i mafiosi e continueremo a lottare finché non verrà fuori tutta la verità”. Le parole di Giovanna Maggiani Chelli, portavoce dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Via dei Georgofili sono rotte dall’emozione, nel ricordare il venticinquesimo anniversario dell’attentato che colpì il centro di Firenze nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993. Erano da poco passate le una quando in tutta la città si sentì un boato assordante. L’esplosione di una bomba a pochi passi dalla Galleria degli Uffizi ridusse in cenere il palazzo dove aveva sede l’antica accademia dei Georgofili, uccidendo Fabrizio e Angela Nencioni e le loro figlie Nadia, di 9 anni, e Caterina, di appena 50 giorni, oltre allo studente 22enne Dario Capolicchio. I feriti furono una cinquantina, incalcolabili i danni al patrimonio storico-artistico. È trascorso un quarto di secolo da quella terribile notte che oggi Firenze celebra con una serie di iniziative che coinvolgono la cittadinanza e le scuole e con una messa in suffragio delle vittime nella chiesa di San Carlo, in via dei Calzaiuoli, a poche centinaia di metri dal luogo della strage, dove la notte scorsa è stata deposta una corona d’alloro nell’ora esatta dell’esplosione. La cerimonia è stata preceduta da uno spettacolo musicale e dagli interventi istituzionali in Piazza della Signoria, di fronte a Palazzo Vecchio. “Sono passati tanti anni ma la nostra rabbia nei confronti di Riina, di Brusca e di Graviano è sempre la stessa – ha detto Maggiani Chelli dal palco, a nome dei familiari delle vittime – di certo non abbiamo intenzione di fare come la figlia del giudice Borsellino, che è andata a trovare Graviano in carcere chiedendogli di pentirsi. Riteniamo che sia del tutto inutile. Appurato che è lui il responsabile materiale della strage, continuiamo a chiederci perché non parla dicendo tutto quello che sa”. Per quell’attentato sono stati comminati ben diciotto ergastoli ma a venticinque anni di distanza non è stata ancora messa la parola fine sulle indagini e la procura di Firenze ha da poco aperto una nuova inchiesta sui cosiddetti “mandanti occulti” di quell’atto terroristico che avvenne un anno dopo le stragi nelle quali rimasero uccisi i giudici Falcone e Borsellino insieme agli uomini delle rispettive scorte.
Le sentenze hanno stabilito che i boss mafiosi Totò Riina e Bernardo Provenzano, con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, avevano progettato di colpire lo Stato per chiedere di allentare il regime del 41 bis. Il primo processo si concluse con quattordici condanne all’ergastolo. Quattro anni dopo, un altro processo terminò con la condanna all’ergastolo per Riina, considerato l’ideatore dell’attentato. Infine arrivarono le condanne per Francesco Tagliavia e per Cosimo d’Amato, che fornì il tritolo. Ma già nei mesi successivi alla strage il procuratore capo Piero Luigi Vigna e il pm Gabriele Chelazzi cominciarono a parlare di “mandanti occulti”. “Chelazzi, in particolare, si è battuto a lungo per cercare la verità indagando anche oltre il livello mafioso – prosegue Maggiani Chelli – ma purtroppo è morto prematuramente nel 2003. Finora abbiamo sperato invano che qualcuno continuasse sulla sua strada, scoprendo una volta per tutte chi c’era accanto alla mafia quella notte”. Tanti sono i punti che rimangono al momento ancora oscuri sulla vicenda e su un capitolo terribile della recente storia italiana, a cominciare dalla trattativa stato-mafia – la cui esistenza è stata accertata da una sentenza passata in Cassazione – e sul ruolo dei servizi segreti. “Non ho mai creduto a un loro diretto coinvolgimento – conclude la portavoce dei familiari delle vittime – ma ritengo quantomeno che non abbiano fatto il loro dovere. Non capisco infatti come possa essere stato possibile, all’epoca, che duemila chili di tritolo abbiano girato per l’Italia a loro insaputa”. Almeno un segnale di speranza, ieri, c’è stato: uno degli affreschi più danneggiati dalla bomba è tornato finalmente al suo posto, agli Uffizi, dopo un complesso restauro. È il dipinto “I giocatori di Carte” del pittore di scuola caravaggesca Bartolomeo Manfredi.
RM

Una figlia due volte vittima

di Mario Calabresi

Una ragazzina di 19 anni ha passato notti insonni, poi ha raccolto tutto il coraggio che aveva ed è entrata in un’aula di tribunale di Milano per testimoniare contro il padre, un boss della ’ndrangheta. Lo ha fatto per aiutare l’accusa a sostenere che è stato lui a uccidere e sciogliere nell’acido la mamma, colpevole di aver collaborato con la giustizia. C’erano volute due giornate intere per raccontare le ultime ore di vita della madre e rispondere alle mille domande degli avvocati della difesa. Pensava di aver finito, di aver fatto la sua parte, ma ieri le hanno comunicato che è stato tutto inutile: il processo verrà azzerato e si dovrà ricominciare da capo. Il presidente della Corte, Filippo Grisolia, è stato chiamato a Roma come capo di gabinetto del nuovo ministro della Giustizia e così si tornerà alla casella di partenza. Quando gliel’hanno detto, ieri pomeriggio, Denise non riusciva a crederci. Non riusciva a credere che a guidare il processo non ci fosse più quel presidente che era stato così attento a difenderla dalle domande trabocchetto, dalle mille furbizie degli avvocati, dagli eccessi di sofferenza. Quel magistrato è stato certamente scelto dal nuovo ministro perché è persona seria e scrupolosa, come ha dimostrato nella sua lunga carriera, ma il vuoto e l’angoscia restano senza risposta.
Denise Cosco aveva accettato di testimoniare contro il papà Carlo Cosco e di affrontare la paura – da oltre un anno è entrata in un programma di protezione, ha dovuto cambiare nome e vive nascosta – perché si era convinta ad avere fiducia nello Stato, perché vuole che sua madre abbia giustizia. Ora pensava solo di aspettare la sentenza per poi rifugiarsi nell’anonimato per sempre. Non sarà così: alla notizia del cambio del presidente della Corte, infatti, gli avvocati del padre e degli zii (considerati i complici dell’omicidio) si sono opposti all’idea di tenere valido tutto il lavoro fatto finora, vanificando ogni udienza tenuta. Denise presto dovrà tornare in quell’aula un’altra volta, coprirsi di nuovo la testa con il cappuccio della felpa, per cercare di proteggersi dagli sguardi del padre e degli zii, e ricominciare a raccontare.
Siamo certi su chi ha brindato ieri sera e su chi si è disperato. Ora non ci resta che sperare che il nuovo presidente trovi il modo per salvare la testimonianza di Denise, per non costringerla a rivivere tutto, a ripetere ogni particolare di quell’ultimo istante con la mamma, di quelle ore angosciose passate a cercarla per le strade del centro di Milano. Denise la cercava ma Lea era già morta e in un capannone della Brianza la stavano sciogliendo nell’acido. E non ci resta da sperare che tutto venga fatto con celerità e precisione: i termini di custodia per i presunti assassini scadono all’inizio della prossima estate. Ma questo a Denise non l’hanno detto.

(da “La Stampa” del 24 novembre 2011)