La piccola Mela aveva dieci anni e sognava di diventare prima ballerina al teatro nazionale di Sarajevo quando l’esercito serbo-bosniaco scatenò il terribile assedio che distrusse la sua città. Era la primavera del 1992. Quel che resta del suo sogno è un paio di scarpette da ballo bianche, scolorite dentro a una teca di vetro illuminata. È uno dei tanti oggetti che sono stati esposti nelle settimane scorse al museo storico della Bosnia Erzegovina, a Sarajevo, all’inaugurazione del progetto di un museo partecipato dell’infanzia cresciuta durante la guerra. Mela Softic ha oggi poco più di trent’anni e fortunatamente il suo nome non compare tra quelli degli oltre milleseicento bambini che hanno perso la vita nei 44 mesi in cui i cittadini di Sarajevo furono costretti a convivere con la fame, la paura, il dolore, la morte. Quelli come lei, che sono stati bambini durante la guerra e hanno avuto la fortuna di sopravvivere all’orrore, sentono adesso la necessità di condividere i loro sentimenti per rielaborare attraverso i ricordi quei fatti del tutto incomprensibili ai loro occhi di bambini. Jasminko Halilovic aveva appena quattro anni quando iniziò l’assedio dei primi anni ’90: è stato lui ad avere l’idea del museo. Tempo fa ha iniziato a raccogliere gli oggetti che riportavano alla sua memoria quegli anni terribili, poi ha capito che anche molti suoi coetanei sentivano il bisogno di condividere le loro storie per far uscire, come in una catarsi, il dolore represso per due decenni. Così ha lanciato un appello via internet: raccontate le vostre storie e portate qualcosa che vi è appartenuto durante quegli anni maledetti. Un oggetto, un disegno, una foto, una registrazione. In poco tempo l’onda del ricordo si è materializzata e centinaia di cittadini hanno risposto portando non semplici residuati bellici ma frammenti di memoria personale e di un’infanzia trascorsa, nonostante tutto. Lettere, quaderni, diari personali, giochi, indumenti ma anche testimonianze audio e video di famiglia, magari registrati negli anni felici prima della guerra, e poi custoditi gelosamente come un tesoro personale. Poiché in una situazione sempre in bilico tra la vita e la morte anche i piccoli oggetti del ‘prima’ possono fornire un conforto, uno sguardo verso la vita che continua e aprire la strada alla speranza.
Il materiale è stato prima raccolto in War Childhood, un libro già tradotto in sei lingue, ed è poi confluito in un’originalissima mostra che in un certo senso ribalta la prospettiva adottata da iniziative simili, perché non si limita a raccontare la storia delle vittime più indifese ma fa vedere la guerra e l’assedio attraverso gli occhi dei bambini. Filip Andronik ha donato la sua collezione di barattoli di latta spiegando che come tanti bambini, anche lui aveva la passione per il collezionismo e la raccolta di quei barattoli di aiuti umanitari “Icar”, contenenti carni in scatola di pessima qualità, fu il suo unico divertimento durante l’assedio. A prima vista, molti dei duemila oggetti esposti nel museo possono sembrare banali e irrilevanti, oppure non aver niente a che fare con la guerra. Eppure ciascuno di essi è in grado di rivelare piccole storie personali dal profondo significato. Non soltanto storie di dolore ma anche di gioia, nostalgia e speranza. Molte teche ospitano giochi in plastica e in legno – un vecchio Monopoli, bambole, scatole di costruzioni – miracolosamente conservati sotto la pioggia quotidiana di granate e oggi trasfigurati in simboli della resistenza umana in tempo di guerra. Per Sanja Stevanovic, che ha visto coi propri occhi il suo fratellino di dieci anni abbattuto da un cecchino, l’oggetto che meglio racconta la storia della sua famiglia in guerra è un piccolo forno artigianale costruito da suo padre, che fu usato per cuocere il riso, le lenticchie e il pane ma anche per scaldarsi nei mesi invernali. Una teca ospita invece i miseri resti di un libro con le pagine annerite. La giovane Alma Telibecirevic lo raccolse dalle rovine della biblioteca nazionale distrutta dalle bombe nell’estate 1992 e recentemente restaurata. L’ha poi conservato per anni, come un cimelio, prima di donarlo al museo. La didascalia che ha scritto sotto la teca spiega: “non potevo sapere quanto sarebbe durata la guerra e cosa sarebbe accaduto dopo, ma mi sembrava che avesse un senso salvare questo libro. Sentii di aver fatto qualcosa di importante”.
Oltre quattromila persone sono intervenute all’inaugurazione della mostra al museo nazionale di Sarajevo, che si trova al centro della Ulica Zmaja od Bosne, la grande arteria del centro della città che durante l’assedio divenne tristemente nota come “viale dei cecchini”. “Purtroppo il museo dell’infanzia non ha ancora una sede fissa – spiega Halilovic – l’esposizione è rimasta aperta nel maggio scorso e adesso sta adesso viaggiando in altre città della Bosnia, con l’idea di allargarsi per includere ricordi d’infanzia provenienti da altre località del paese. È un progetto aperto a tutti i bambini dell’epoca, senza alcuna distinzione etnica, che vuol essere un antidoto all’odio e alle divisioni del passato”.
RM