Venerdì di Repubblica, 8 dicembre 2017
Sette anni fa, la “rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia inaugurò con tante speranze – poi disilluse – la stagione delle Primavere arabe. Da allora, mentre tutti gli altri paesi dell’area sono stati travolti da colpi di stato, guerre civili e svolte autoritarie, i tunisini hanno avviato un percorso democratico che potrebbe contribuire alla stabilità dell’intera regione. “Merito di una società civile che è riuscita a colmare i vuoti lasciati dalla politica”, ci spiega Abdelaziz Essid, l’avvocato tunisino che due anni fa ricevette il premio Nobel per la pace assegnato al “Quartetto del dialogo”, il gruppo di mediatori protagonista del processo di democratizzazione. A Tunisi e nel resto del paese le proteste divamparono all’inizio di dicembre. La svolta arrivò appena un mese dopo. Il 14 gennaio 2011 oltre duemila avvocati uscirono dal tribunale indossando le loro toghe, si radunarono nel cuore della capitale e rimasero per l’intera giornata a manifestare accanto alla popolazione. La polizia li affrontò con violenza, ci furono feriti, ma nel pomeriggio arrivò la notizia che Ben Ali, il dittatore al potere da 23 anni, era fuggito dal paese. “Fu una gioia incontenibile”, ricorda oggi Essid, “quando siamo scesi in piazza non sapevamo come sarebbe andata a finire. C’erano già i morti nelle strade e temevamo il peggio”. Ma tutto sarebbe stato vanificato senza l’enorme lavoro svolto in seguito. Il giorno dopo, proprio nella sede dell’Ordine degli avvocati, si riunirono i rappresentanti della società civile che volevano lavorare per un cambiamento pacifico del paese. Nacque il Consiglio per la transizione democratica, primo embrione di quel “Quartetto” da Nobel composto da avvocati, sindacalisti e difensori dei diritti umani che ebbe un ruolo decisivo due anni dopo, quando alcuni omicidi politici rischiarono di far ripiombare il paese nell’anarchia.
Come avete fatto a farvi ascoltare dal popolo?
La gente ci riconosce un’autorità morale. Ogni volta che ci siamo trovati di fronte a crisi e tensioni, abbiamo ribadito che la strada da percorrere è quella di un paese laico e democratico.
Quali sono oggi i rischi maggiori della transizione democratica in Tunisia?
Sicuramente i disagi sociali. Risentiamo ancora della crisi dovuta in larga parte al crollo del turismo, a causa dei gravi attentati terroristici di matrice islamica del 2015. Molti giovani lasciano il paese perché non c’è lavoro.
Quali sviluppi ci sono stati sul tema dei diritti delle donne?
Di recente il presidente Essebsi ha cancellato il bando che dal 1973 impediva alle donne di sposare uomini non musulmani. Era l’ultimo limite rimasto alla legislazione. In estate il Parlamento aveva abrogato anche la legge sul matrimonio riparatore che consentiva agli stupratori di non essere condannati se sposavano la propria vittima.
All’inizio del 2018 si terranno elezioni considerate cruciali.
Sì, saranno le prime elezioni municipali della storia tunisina e sono molto importanti soprattutto per la gente che vive nelle regioni del sud, quelle più vicine alla frontiera con la Libia. Dando potere ai sindaci contiamo di consolidare la democrazia anche nelle aree più periferiche.
RM