Stefano Cucchi, un calvario senza fine

di Mauro Palma*

Assolti agenti e infermieri perché il fatto non sussiste; qualche condanna ai medici per omicidio colposo: si chiude il processo di primo grado per la morte di Stefano Cucchi. Dunque un caso di malasanità, uno come tanti, con la sola specificità dell’essersi verificato in un luogo di detenzione. Tutto qui: una vicenda «normale» come appare «normale», anche se colpevole, l’incuria rispetto ai soggetti difficili da trattare perché refrattari alle cure mediche.
Questa verità ci consegna la terza Corte d’Assise di Roma, derubricando la realtà di un giovane che dopo poche ore di detenzione muore, senza aver avuto accesso a familiari e avvocati, in un ambiente che dovrebbe contenerlo, ma proteggerlo in quanto responsabile della sua persona, della sua sicurezza, della sua vita; di un giovane che muore in condizioni fisiche pietose caratterizzate da evidenti segni sul corpo, lesioni, di cui nessuno ha saputo dare ragione.
Sono segni che parlano di giornate dure prima di arrivare in quel luogo dell’incuria accertata. Segni della cui origine non si è voluta dare una ragione e che acquistano una capacità descrittiva quando, attraverso le testimonianze, si ricostruisce il loro manifestarsi e il loro evolversi fino a darci l’immagine di una persona che non riusciva più a tenersi in piedi (leggo da una dichiarazione ufficiale: «Presenta ecchimosi sacrocoggicea, tumefazione del volto bilateralmente periorbitaria, algie alla deambulazione e arti inferiori, …»).
Non solo, ma sono segni che gettano una sinistra e plastica luce su quelle ore, se si li associa alle dichiarazioni rese da lui stesso circa una caduta per le scale – tipica causa con cui si giustificano i segni di botte nei luoghi di privazione della libertà – e alle sue confidenze a coloro con cui è entrato in un contatto ‘alla pari’ nelle ore successive all’arresto.
Questi segni negati da un dispositivo che parla di fatti che non sussistono e di semplice negligenza colposa, restano come pietre a interrogare tutti noi sulla capacità effettiva di ridare giustizia a chi è stato vittima.
Non si tratta di contestare una sentenza, di cui leggeremo in futuro le motivazioni. Si tratta di riscontrare l’incapacità di un sistema di cogliere la globalità di un evento, limitandosi a sminuzzarlo in piccoli passi che finiscono col negarne il senso complessivo. Perché una sentenza è il punto finale – a volte quasi ineludibile – dell’impianto di un’indagine che, in questo caso, ha seguito una via che andava dritta verso questo esito. Non è quasi mai possibile, infatti, se non in casi eccezionali, stabilire un nesso di stretta causalità tra le lesioni riscontrate e la morte perché queste sono sempre una concausa, sebbene fondamentale, che agisce insieme ad altri elementi, inclusa la negligenza.
Ma il punto vero di un’indagine che possa definirsi effettiva, quando si tratta di presunti maltrattamenti di indagati o arrestati, è rispondere alla domanda sul perché di quelle lesioni: come si siano prodotte, da parte di chi, quale ipotetica giustificazione possano avere. Questa è la domanda iniziale – che non ha avuto risposta – a cui segue l’altra: su come esse siano state un elemento aggiuntivo o determinante per provocare la morte. Se, al contrario, si derubricano a inessenziali quei segni solo perché non in grado di produrre da soli un esito fatale, si opera un’inversione logica che finisce coll’oscurare il fatto incontrovertibile che se Stefano Cucchi non avesse trascorso quelle ore in quei luoghi, non avrebbe avuto neppure bisogno di ricovero e oggi sarebbe vivo.
Ha percorso invece varie tappe di un calvario istituzionale in cui è venuto in contatto con quasi tutti gli organi a cui noi affidiamo la tutela collettiva: dai carabinieri, alla polizia penitenziaria, ai direttori di carcere, ai medici penitenziari, agli operatori del 118. Ora, da morto, è venuto anche in contatto con il sistema di giustizia. Da nessuno ha avuto attenzione; da molti ha ottenuto il girarsi dall’altra parte per non voler vedere, dai peggiori i segni visibili sul suo corpo.
Forse l’unica attenzione potrà venirgli da un’opinione pubblica che recuperi la volontà di vedere cosa può accadere nei luoghi «opachi» e che rivendichi come diritto di tutti e di ciascuno la tutela fisica e psichica di qualunque persona privata della libertà e la capacità effettiva di individuare e punire chi tale diritto non rispetta. Oppure potrà venirgli da una completa ricostruzione di quei suoi ultimi giorni che la giustizia saprà dare nelle sue prossime fasi.

* Ex presidente del Comitato europeo contro la tortura (da Il Manifesto di oggi)

Il lager nero e rosso diventerà un museo

(di Antonio Giuliano)

Forse pochi luoghi al mondo possono vantare un così triste primato come la cittadina di Bautzen in Germania. In questo insospettabile centro medievale, nel cuore della verde Sassonia, ha operato uno dei peggiori istituti di reclusione del secolo scorso: tra le sue grate furono rinchiusi i nemici degli opposti totalitarismi del Novecento, nazismo e comunismo. Un reportage a firma di Delfina Boero, sul numero in uscita di “La Nuova Europa”, bimestrale della fondazione Russia Cristiana, getta nuova luce su un penitenziario diventato il simbolo della follia ideologica nera e rossa. Nel corso degli anni Trenta il carcere fu al servizio degli uomini di Hitler, ma dal maggio 1945 fu scelto senza esitazione anche dai sovietici che lo trasformarono in uno «Speziallager» (campo speciale) per criminali nazisti e oppositori del comunismo. Per il colore dei suoi mattoni e il trattamento inflitto ai detenuti venne subito ribattezzato «das Gelbe Elend», «Miseria gialla». Dal 1945 al 1950 vi furono spediti circa 27 mila detenuti, metà dei quali avrebbe conosciuto poi anche i lager della Polonia e dell’Urss. Oltre 3 mila invece quelli che morirono per stenti e malattie infettive non curate. Quando nacque la Repubblica democratica tedesca (Ddr) i reclusi sperarono che l’incubo fosse finalmente finito, però le loro condizioni peggiorarono. Nel 1950 si ribellarono gridando tutti insieme dalle finestrelle e la notizia arrivò sulla stampa occidentale grazie a due lettere clandestine. Ma la rivolta fu soffocata senza pietà. Solo tra il 1954 e il 1956 molti di loro sarebbero usciti. Eppure a Bautzen stava nascendo sullo stesso sito una nuova prigione al soldo della Stasi, l’implacabile organizzazione di sicurezza e spionaggio dell’ex Germania Est. Il governo comunista tedesco riuscì a nascondere all’opinione pubblica tutto ciò che successe in quella fortezza fino al crollo del Muro di Berlino. Solo nel 1992 il penitenziario fu definitivamente chiuso, ma la Stasi fece in tempo a cancellare le prove della vergogna. Ora l’istituto è stato trasformato in un museo che è al tempo stesso custode della memoria e promotore delle ricerche volte a riannodare i tasselli dell’orrore. Tuttavia il luogo conserva ancora gli aspetti sinistri del passato, al punto che, come spiega l’autrice, sembra richiamare gli scenari del film Le vite degli altri. È stato infatti ormai dimostrato che ogni cella era provvista di altoparlanti e microfoni nascosti dappertutto. Perfino le stanze dove i prigionieri incontravano i parenti per le visite erano filmate da telecamere segrete. Ogni dialogo o informazione sospetta doveva essere trasmessa subito al ministero per la sicurezza di Stato. Dal 1956 al 1989 a Bautzen finirono almeno 2700 persone arrestate per lo più per motivi politici. Spesso rinchiusi in totale isolamento o usati in lavori rischiosi o demotivanti come la produzione di interruttori o pennarelli. Una volta al mese avevano il permesso di entrare in una sala cinematografica in cui assistevano a pellicole che li indottrinavano sulla bontà del comunismo. Molti furono quelli che tentarono invano di fuggire da lì, ma anche da un Paese che anche all’esterno si presentava come un enorme penitenziario a cielo aperto, diviso dal mondo occidentale dal Muro di Berlino innalzato nel 1961. Conobbero la prigione di Bautzen personaggi come Georg Dertinger, primo ministro degli esteri della Ddr, tra i fondatori dell’Unione cristiano­democratica (Cdu) e sostenitore della riunificazione della Germania, condannato per spionaggio nel 1954. E altri come il drammaturgo Walter Janka, il letterato Gustav Just e il cantautore e poeta Wolf Biermann, il cui arresto negli anni Settanta suscitò molte proteste tra i giovani tedeschi. Nelle loro testimonianze spiccano le particolari «celle di rigore», definite dai detenuti «le gabbie della tigre», per l’esiguo spazio a disposizione. In esse un’ulteriore grata divideva la cella dalla zona dei sanitari accessibile solo col permesso dei secondini. Appesa al muro c’era una branda ribaltabile che però poteva essere usata solo in determinati orari. A chi osava infrangere il regolamento fu riservata sino al 1977 una «punizione supplementare», per cui il prigioniero non riceveva più la coperta o veniva alimentato con cibo ancora più scadente. Bastava il semplice sospetto di discorsi proibiti per farsi anche tre settimane di rigore. Nella lunga storia del carcere della Stasi di Bautzen soltanto un recluso riuscì ad evadere: Dieter Hötger, catturato nel 1962 mentre stava scavando un tunnel da Berlino Ovest a Berlino Est per permettere alla moglie, residente nella Ddr, di raggiungerlo nella Germania occidentale. Fu condannato a nove anni di reclusione, ma la sua voglia di libertà fu più forte dei suoi carcerieri: fece un buco nel muro della cella, dietro un armadietto, e attraverso un cunicolo riuscì a scappare. Venne nuovamente arrestato dopo nove giorni, ma il governo della Repubblica Federale nel 1972 pagò il riscatto per farlo scarcerare. Oggi nel museo di Bautzen si può ancora riconoscere la sua cella con l’unico foro di una prigione senza via d’uscita.
(da “Avvenire”)