di Paolo Rumiz
La inaugurò Francesco Ferdinando nel 1906 prima di morire ammazzato a Sarajevo. La usarono come terminal i convogli di lusso della Canadian Pacific giunti dalle gallerie dei Tauri. Vi partirono i soldati della Grande guerra e vi arrivarono gli italiani in fuga dallo jugo-comunismo. Negli anni Settanta vi approdarono dall’ Est carrozze piene di compratori affamati di jeans, poi vi vennero girati film come Anna Karenina. Oggi non arrivano più treni e va di scena lo sfratto, la chiusura definitiva, la fine della più gloriosa stazione triestina e delle meraviglie in essa contenute, uno dei più bei musei ferroviari d’ Europa. Succede che Trenitalia ha costretto i volontari che lo gestiscono ad andarsene, triplicando loro l’affitto già pesantissimo. La loro colpa? Avere impedito che andasse in rovina il capolavoro del più prestigioso waterfront dell’ Adriatico. La stazione di Campo Marzio, capolinea di quella che l’Austria chiamò “Transalpina”. Narrano che nel 2008 Mauro Moretti, gran capo dell’ azienda, in una sua visita a Trieste, dopo avere visto nelle sale d’ aspetto le stufe originali in maiolica, la piumata feluca del primo capostazione, montagne di cimeli e un secolo di vaporiere schierate all’ esterno, abbia dato una pacca sulle spalle ai custodi del Dopolavoro ferroviario, dicendo loro «bravi ragazzi». Aveva buone ragioni per fregarsi le mani. Quelli non solo gli avevano messo insieme un patrimonio collezionistico inestimabile e si erano presi sulle spalle il costo della manutenzione straordinaria, ma pagavano di tasca propria un affitto di 54mila euro l’anno senza un centesimo di aiuto pubblico. Ma la partita, si capì di lì a poco, era più importante di un museo. Era la vendita della seconda stazione triestina. Era la chiusura della linea, la rottamazione dei binari “in sonno” che ancora collegano la città all’Istria, alla Slovenia e al Centro Europa. E poiché i “bravi ragazzi” erano un intralcio a questa operazione immobiliare, si è ben pensato di alzare loro il canone a 140mila euro. Cifra insostenibile, che – in assenza di aiuti dall’ esterno – condanna il museo alla chiusura e la stazione (sulla quale Trenitalia non ha mai speso un euro) al decadimento e alla rovina. Sfratto, come a clandestini morosi e non a benefattori che danno lustro a Trenitalia e senso alla memoria ferroviaria del Paese. Per chiudere in fretta l’affare Moretti andrà di persona a Trieste ai primi di febbraio, e subito si è capito che la partita sarà di vasta portata. Il rischio è la definitiva cancellazione della città dalla mappa ferroviaria italiana. Per capire cosa accade basta guardare gli orari conservati nelle bacheche della stazione. Un secolo fa, con una sola coincidenza si andava a Praga, Cracovia e Stoccarda. La città era al centro d’ Europa. Perfino trent’ anni fa era meglio di oggi, senza Schengen e con la cortina di ferro di mezzo. Sull’ altopiano passava ancora il Simplon Orient Express diretto a Istanbul, e in wagon lit potevi andare a Parigi, Genova, Roma, Budapest, Belgrado. Oggi vai solo a Udine e Venezia, con i treni più lenti d’Italia. Il confronto più deprimente è quello che tocca i collegamenti con Vienna. C’erano dodici treni al giorno, tutti diretti. Oggi nessuno. Con trazione a vapore, il viaggio durava dieci ore e sette minuti contro le novee ventotto di oggi, epoca dell’alta velocità. Un viaggio così lento e così umiliante – due cambi, tre biglietti e una tratta in pullman – che il sindaco di Trieste Roberto Cosolini, dovendo incontrare il Burgermeister di Vienna, ha voluto farlo di persona, per masticare fino in fondo l’amaro della sua emarginazione. Prima della Grande guerra, Trieste aveva tre strade di ferro per la città imperiale: una via Lubiana-Graz, una via Pontebba e una via Gorizia-Villach, linea che avvicinava la Germania di 250 chilometri. Oggi è rimasta solo la seconda. Fra Trieste e Lubiana due mesi fa è stato tolto l’ultimo treno. Quanto alla linea di Gorizia, è chiusa dai tempi della Guerra fredda, anche se i binari esistono ancora. Tutto è finito: niente per l’Ungheria, per Zagabria, per l’Istria, per Fiume e Dalmazia. Per Roma il mondo finisce a Mestre. È chiaro: la gloriosa stazione inaugurata da Francesco Ferdinando non è solo un gioiello da conservare. È l’unico vettore di traffico alternativo al miserabile doppio binario che ancora collega Trieste al resto d’Italia. I soldi per ripartire ci sono, Bruxelles ha stanziato milioni di euro (progetto “Adria A”) per riattivare i vecchi binari come linee metropolitane. Trenitalia partecipa alle trattative per l’operazione, ma intanto, alla chetichella, spolpa le linee ovunque è possibile. Con la parola d’ordine «rete snella» si attua l’indicibile. Binari di precedenza tolti, declassamento di fermate, saccheggio di scali merci, caselli storici venduti o lasciati alle ortiche, linee vitali ridotte a raccordi industriali. Persino la bella stazione di Miramare, dove Massimiliano d’ Asburgo scendeva dal treno per raggiungere in carrozza il castello, si è vista estirpare i binari di sorpasso. Il grave è che lo smantellamento trova alleati nel porto che, senza la minima lungimiranza, pare ora disposto a comprare i binari (vicinissimi ai moli) per ampliare l’area di sosta dei camion dietro il terminal traghetti. Operazione catastrofica, che significa waterfront degradato a parcheggio, scelta di un trasporto su gomma che Amburgo e Rotterdam hanno abbandonato da tempo, e soprattutto cancellazione di una strada ferrata vitale per lo sviluppo della città. In questa corsa alla rottamazione, i matti del museo restano asserragliati nella loro trincea e conservano, conservano come formichine. Timbri, telefoni a manovella, quadri di comando, carri passeggeri, tappezzerie, amperometri, pompe, scambi, segnali, divise, spartineve, locomotive, fotografie, mappe, plastici, sigilli doganali per la piombatura dei vagoni, cappelli con visiera e decorazioni in oro di un mestiere che fu nobile. Nelle sale di Campo Marzio leggi la storia commerciale di mezzo mondo. Tutto è cominciato al tempo della dismissione delle vaporiere, ai tempi in cui per entrare in ferrovia dovevi giurare sulla bandiera. Ed è stata subito una lotta. Il mobilio della “Sala reale” della stazione centrale era già stato buttato via. «Stessa cosa per l’archivio delle ferrovie austriache, già destinato al macero», racconta Luciano Muran, classe ‘29, macchinista dell’Orient Express. I treni all’esterno sono pezzi unici, tutti funzionanti. La vecchia Gomulka sovietica usata dai treni di Tito. La Kriegslokomotive nazista, macchina di morte che deportò gli ebrei e poi divenne macchina di pace col trasporto degli aiuti del Piano Marshall. Carrozze fine Ottocento con tappezzeria intatta. La rete c’è ancora, i treni storici possono entraree uscire, ma- mentre in Austria e Germania i viaggi della nostalgia fanno soldi a palate – le nuove, esose richieste tariffarie romane hanno bloccato anche questa opportunità. Non c’ è un euro per il turismo, mentre se ne trovano milioni per iniziative truffaldine come il contiguo museo della fotografia, mai aperto e lasciato a metà. E dire che non c’è niente di simile in Italia. Il museo di Pietrarsa, presso Napoli, ha i suoi bei cimeli, ma è lontano dalla città e i treni non possono entrarvi. E per giunta costa, perché Trenitalia, lì, paga il personale di custodia. Trieste no, funziona da sola. È in pieno centro. E i fessacchiotti pagano pure l’affitto, aggiustano i tetti, raccolgono i pezzi di un tempo perduto che anche l’Austria ci invidia. I turisti vengono da lontano, specie dalla Germania. Un dirigente delle ferrovie francesi ha mandato al sindaco una lettera d’allarme per le voci di chiusura. «Ho ammirato un gioiello – scrive il signor Vignaud – e so che un tale lavoro di conservazione non va ostacolato ma al contrario valorizzato». «Ci amano più all’estero che in patria», lamenta Roberto Carollo, capo dei volontari al Dopolavoro. Nel 2009, racconta, il municipio di Vienna si offrì di dare al suo ex porto la preziosa copertura in ferro della vecchia Sudbahnhof, ex “stazione Trieste” ora in ristrutturazione, che sarebbe andata a pennello su quella di Campo Marzio. Era un magnifico regalo, e l’allora sindaco Roberto Dipiazza promise mari e monti. Poi tutto finì in nulla, i costi del trasporto parvero eccessivi, Trenitalia non volle spendere, la Regione non diede una mano. Così, a Vienna il glorioso ferro da museo è stato trasformato in barre. E a Trieste la stazione del “secolo breve” è stata condannata a morire sotto la pioggia.
(da “La Repubblica”, 29 gennaio 2012)
Che tristezza !