In esilio dall’Iran degli ayatollah

Avvenire, 21.10.2018

“Non avremmo dovuto vivere così a lungo. Avremmo dovuto morire durante la rivoluzione. O sotto le sue macerie. O in guerra”. Quando le viene diagnosticato un cancro in fase terminale, la cinquantenne Nahid, una profuga iraniana scappata in Svezia alla fine degli anni ‘70, si trova a fare i conti con il suo passato intraprendendo un lungo viaggio a ritroso nella sua vita. Il tradimento definitivo del suo corpo diventa lo specchio del tradimento di quegli ideali per i quali si era battuta in gioventù, lottando per rovesciare il regime dello scià. Il senso di appartenenza alle proprie radici e il loro legame con la morte sono le principali chiavi narrative di Un popolo di roccia e vento (Feltrinelli, traduzione di Anna Grazia Calabrese), il romanzo di Golnaz Hashemzadeh Bonde che è diventato un autentico caso letterario in Svezia e adesso è in corso di traduzione in oltre venti paesi. Nahid, la protagonista del libro, ripercorre le tappe della sua esistenza che l’hanno portata dall’Iran in Svezia, rivive i giorni della rivoluzione “che ci precipitò addosso come una pioggia di stelle” e l’amore per Masood, che diventerà suo marito e il padre di sua figlia. Ma poi l’ottimismo della gioventù si tramuta in disillusione, fino a sfociare nello sconforto. Quando la rivoluzione fallisce, le uniche immagini che le restano in mente sono quelle della repressione, delle università chiuse, della violenza nelle strade, della morte della sorella durante una protesta di piazza. Fino alla scoperta della gravidanza e alla fuga da Teheran, alla ricerca di un futuro migliore per la creatura che ha in grembo. L’asilo politico in Svezia potrebbe essere per loro un nuovo inizio. Come tutti gli iraniani costretti a fuggire dal loro paese, anche Nahid, Masood fanno parte di “una generazione di sabbia trasportata dal vento” e hanno radici solide, ma purtroppo il destino non è dalla loro parte. Il romanzo ruota attorno a un chiaro spunto autobiografico: l’autrice è nata in Iran nel 1983, è svedese di seconda generazione ed era una bambina piccola quando fuggì con la sua famiglia in Europa. I suoi genitori sono morti prematuramente, e da allora lei ha perduto gli ultimi legami effettivi con il suo paese d’origine. Nahid ha un rapporto complesso con Aram, la figlia ormai adulta e integrata nel nuovo paese, che degenera di fronte alla malattia. Quando volge lo sguardo al passato lo fa con amarezza e con rabbia, si rammarica di non essere stata capace di mettere radici nel paese adottivo e di non essere riuscita a garantire alla figlia la felicità e la stabilità che aveva sognato per lei. Ma soprattutto non si perdona di aver perso la sorella Noora nei giorni della rivoluzione, e si sente profondamente colpevole della sua morte. Soltanto sul finale del romanzo, quando Nahid scopre che nel suo cuore non c’è soltanto rabbia ma anche amore, riaffiora un barlume di speranza. Un popolo di roccia e vento descrive il senso di appartenenza e la solitudine dell’esilio sullo sfondo degli orrori della rivoluzione iraniana, offrendoci una riflessione a tratti sconvolgente sull’identità, sulla maternità, sulla morte.
RM

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