di Rodolfo Toè, Osservatorio Balcani e Caucaso
Le rivelazioni sugli abusi sessuali del vescovo di Tuzla, padrino spirituale di Karadžić e Mladić, trascinano la Chiesa ortodossa serba in uno dei più gravi scandali degli ultimi anni. Le dichiarazioni delle vittime, la ricostruzione del giornalista bosniaco entrato in possesso dei verbali degli interrogatori dei testimoni
In una sua lettera, nell’ottobre del 2012, il Patriarca della Chiesa ortodossa serba aveva deciso di rivolgersi direttamente al premier Ivica Dačić. Nella missiva, Irinej esprimeva la propria inquietudine per “l’immagine morale” di Belgrado e della Serbia, “dei nostri secoli di cultura cristiana e della dignità della nostra famiglia come cellula fondamentale della razza umana”. “Scrivo a tutti voi in nome della Chiesa ortodossa serba – aggiungeva – e dei suoi fedeli: le autorità devono provvedere immediatamente a far cessare lo scandalo”.
Irinej non si riferiva, però, ai casi di pedofilia che – resi noti a partire dall’estate del 2012 – cominciavano a impensierire l’opinione pubblica. Al contrario, le sue invettive si volgevano scandalizzate contro il gay pride di Belgrado. Difficile ipotizzare che Irinej ignorasse quelle notizie che – nonostante tutti i tentativi di insabbiamento avvenuti – avrebbero avuto nei mesi successivi una portata tale da scuotere l’intera struttura ecclesiastica in Serbia e Bosnia Erzegovina. Monaci, seminaristi e religiosi, di fronte a un’apposita commissione guidata dal vescovo di Nikšić, Joanikije, cominciavano a rivelare gli abusi sessuali perpetrati dal vescovo di Tuzla e Zvornik, Ljubomir Kačavenda. Abusi che sarebbero durati per decenni.
“Kačavenda mi chiedeva di fornirgli bambini di dieci anni”
Il primo a parlare di quanto accaduto è stato Bojan Jovanović, un ex pope che aveva prestato servizio proprio nell’episcopato di Kačavenda, prima di allontanarsi, una volta per tutte, dal mondo ecclesiastico.
Il vescovo di Tuzla non è un personaggio secondario nel panorama delle autorità ecclesiastiche ortodosse. In passato era stato colpito da pesanti accuse, mossegli anche per il comportamento tenuto durante la guerra. Ljubomir Kačavenda, nato nel 1938 a Sarajevo, è stato una sorta di padrino spirituale di Ratko Mladić e Radovan Karadžić. Lo si può vedere in numerosi video , alla caduta di Srebrenica, mentre auspica la pulizia etnica del territorio conquistato dalle milizie serbe. La sua figura non è uscita esattamente immacolata dagli anni del conflitto: nel 2009, l’associazione Žena-Žrtva Rata (Donna-vittima di guerra) aveva raccolto la testimonianza di una ragazza musulmana di Doboj, appena sedicenne, che accusava Kačavenda di averla stuprata dopo averle imposto il battesimo.
Jovanović incontra per la prima volta Kačavenda nel 1998. All’inizio sembra tutto normale, sebbene in poco tempo egli riesca a rendersi conto di quali fossero le frequentazioni e gli affari di questa “cricca di pedofili e del loro capo”, come da lui definiti. L’ex religioso ha ammesso in seguito di aver partecipato a festini organizzati dal vescovo, insieme a molti uomini d’affari. In alcuni casi, Kačavenda gli avrebbe chiesto di procurargli nuove vittime, in particolar modo, secondo i verbali degli interrogatori, bambini di dieci anni.
Jovanović, diventato uno dei diaconi al servizio del vescovo, ha dichiarato di essere stato violentato a sua volta a più riprese dopo il suo arrivo a Bijeljina e il suo trasferimento nel monastero di Kaona, in Serbia. “Non sapevo cosa fare”, ammetterà nel 2011 Jovanović a Radio Sarajevo. “Da una parte non potevo abbandonare il monastero e tornarmene a casa mia come se niente fosse; dall’altra, non avrei mai potuto rivolgermi alla polizia: nessuno avrebbe mai creduto alle mie accuse”.
Le prime denunce concrete di Bojan risalgono a dodici anni fa, quando un giovane seminarista, Milić Blažanović, venne rinvenuto senza vita, in circostanze non chiare, nel monastero di Paprać, dopo aver resistito alle avances di Kačavenda. Quelle prime denunce furono ritrattate quasi subito: “Venni minacciato di morte”, ricorda Jovanović. “Mi costrinsero a smentirmi da solo, attraverso una lettera nella quale dichiaravo che le accuse erano frutto soltanto della mia fantasia malata”.
Le cose cambiano nel 2010, quando Dejan Nestorović, un famoso spogliarellista serbo, scatta una foto in compagnia di Kačavenda nella sede episcopale a Bijeljina. L’immagine diventa rapidamente pubblica e suscita un enorme scalpore. Nestorović ammette di avere rapporti personali con il vescovo. In cambio del proprio silenzio, il giovane avrebbe poi ottenuto 50 mila euro per frequentare un’università privata a Roma.
L’inchiesta del Sinodo, la partenza di Kačavenda
A quel punto, la situazione diventa propizia per rompere il silenzio, e Bojan ne approfitta. “Incontrai Bojan qualche anno fa”, ha dichiarato a Osservatorio Balcani e Caucaso Vuk Bačanović, giornalista del settimanale Dani di Sarajevo, che ormai da due anni cerca di portare avanti l’inchiesta sugli scandali della diocesi di Tuzla e Zvornik. “All’epoca, però, non era ancora pronto a rivelare tutto ciò che sapeva. Poi, negli ultimi due anni, le cose sono cambiate: sempre più persone hanno cominciato a rompere la cappa di omertà attorno ai casi di pedofilia e abusi sessuali che li riguardavano. Anche la famiglia di Blažanović, rimasta in silenzio per più di dieci anni, ha deciso di fare ricorso alla giustizia. E’ lo scandalo più grave della storia della Chiesa ortodossa serba, non c’è dubbio. Lo stesso Patriarca Irinej era al corrente dei crimini di Kačavenda, e delle storie che circolavano a proposito della diocesi di Tuzla e Zvornik, tant’è che di solito i preti che vi prestavano servizio non venivano mai trasferiti. Si temeva che gli stessi scandali potessero ripetersi altrove”.
Nell’estate 2012 il Sinodo della chiesa ortodossa ha deciso di aprire un’inchiesta ufficiale, affidando gli interrogatori al vescovo Joanikije, di Nikšić. Dani è entrato in possesso dei verbali degli interrogatori e ha cominciato a pubblicarli settimanalmente. “Non è facile fare luce su questa faccenda – ammette Bačanović – quasi tutti i testimoni temono per la loro vita e devono restare nell’anonimato”.
Il Sinodo, da parte sua, di fronte a quello che rischiava di diventare un terremoto, ha deciso di correre ai ripari con la più classica delle soluzioni: mettere ‘in pensione’ Kačavenda, costretto a ritirarsi ufficialmente “per ragioni di salute”. Per Jusuf Trbić, giornalista e presidente della comunità culturale bosgnacca Preporod (Rinascita) di Bijeljina, è un segno incoraggiante, anche se è difficile pensare che ci saranno sanzioni più dure di questa. “Per noi bosgnacchi, il vescovo Kačavenda incarna tutto il marciume degli ultimi vent’anni”, ha dichiarato alla tedesca Deutsche Welle. “Tutto ciò di orribile che avvenne in questa regione durante la guerra, in un modo o nell’altro, è connesso al suo nome. Ora, finalmente, i suoi comportamenti cominciano a essere noti al pubblico. Anche se – conclude – è inaccettabile pensare che difficilmente pagherà i propri crimini di fronte alla legge”.