di Alessandro Michelucci
Può accadere che un giornale armeno metta in copertina la foto di un turco accompagnandola con un testo elogiativo? Certo, ma a una condizione: deve trattarsi di un turco che riconosce il genocidio degli armeni, o per meglio dire delle minoranze cristiane presenti nell’impero ottomano. Quindi non soltanto armeni, ma anche assiri e greci. Ebbene, questo turco esiste: si chiama Dogan Ozgüden. Proprio per questo il numero 340 (15 maggio 2009) della rivista “France Armenie” gli ha dedicato la copertina. Ozgüden è un giornalista che da oltre 40 anni vive in Belgio. Ha dovuto lasciare il suo paese per sfuggire alla persecuzione della dittatura militare. Ma per capire meglio il tema che ci interessa è necessaria una digressione. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in Europa, si manifesta contro la guerra del Vietnam; si leggono i libri di Sacharov e Solgenitsin; si ascoltano le canzoni di Victor Jara, oppositore della dittatura militare cilena che ha deposto e ucciso Salvador Allende. Al contrario, quasi nessuna attenzione viene riservata alla Turchia, che vive sotto la costante minaccia della dittatura militare. Fra il 1960 e il 1980 l’esercito realizza tre colpi di stato. Molte persone – intellettuali, giornalisti, registi, esponenti politici – si schierano apertamente contro le varie giunte militari, che invece vengono tollerate o addirittura appoggiate da alcuni governi europei. Il motivo per il quale il dissenso turco viene sostanzialmente ignorato è evidente. La Turchia, cerniera fra Europa e Asia, confina con vari paesi dell’impero sovietico (Bulgaria, URSS). Il paese ha già cominciato il processo di avvicinamento al blocco euro-atlantico: prima aderendo al neonato Consiglio d’Europa (1949), poi alla NATO (1952) e chiedendo di aderire alla CEE come membro associato (1959). Nel 1961 Bonn e Ankara hanno concluso un accordo che favorisce l’immigrazione di lavoratori turchi nella Repubblica Federale Tedesca. Nel 1963 la CEE ha accolto la richiesta suddetta accettando la Turchia come membro associato. Tutto questo favorisce l’acquiescenza europea nei confronti di un regime liberticida che non si esaurisce negli anni delle dittature militari, ma continua con i governi retti da civili. Ma tanti turchi, come si diceva prima, non si arrendono e gridano il proprio dissenso, anche dopo aver visto che il loro grido è destinato a cadere nel vuoto. Fra questi dissidenti coraggiosi ma ignorati spicca Dogan Özgüden, un giornalista che ha dedicato la propria vita alla difesa della libertà d’opinione, delle minoranze, dei diritti civili e sindacali. Özgüden ha raccontato la propria esperienza nel libro Journaliste “apatride” (ASP, Bruxelles, pp. 624, € 24,95). Il volume è la traduzione francese dell’originale turco, edito dall’autore con il titolo omonimo “Vatansiz” gazeteci. Il giornalista, costretto a lasciare la Turchia, si è stabilito in Belgio, dove insieme alla moglie Inci Tugsavul ha promosso molte iniziative politiche e culturali: convegni, dischi, dvd, libri, riviste. La coppia ha parlato di temi a lungo proibiti in Turchia, come il genocidio delle minoranze cristiane che segnò la fine dell’impero ottomano. A lungo invisi al potere, che li ha perseguitati in vario modo, i due sono stati privati della cittadinanza turca nel 1984.
Dal 1975 guidano l’agenzia di stampa Info-Türk, che pubblica un prezioso bollettino mensile su tutto quello che riguarda la Turchia: politica, cultura, problemi delle minoranze, etc.. Özgüden è sempre stato un giornalista di sinistra. Socialista, ma non simpatizzante del comunismo sovietico o cinese. La sua battaglia, comunque, non l’ha combattuta per far trionfare le ragioni della sua parte politica, ma per difendere i diritti di tutti. Questo impegno, che ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti di vario tipo, rappresenta un esempio illuminante di lotta nonviolenta per la libertà. Recentemente il vasto archivio raccolto da Dogan Özgüden e Inci Tugsavul è stato acquisito dall’Istituto internazionale di storia sociale di Amsterdam.