“Il nostro governo non ha condannato l’abolizione della democrazia, non ha denunciato le atrocità, non ha preso misure drastiche per proteggere i propri cittadini ma al contrario, ha cercato di nascondere all’opinione pubblica internazionale l’operato del Pakistan dell’ovest […] Noi, in qualità di funzionari dello stato, dissentiamo con l’attuale politica del nostro governo e speriamo fermamente che i nostri interessi possano essere chiariti e la nostra politica riorientata allo scopo di recuperare la posizione del nostro paese come guida morale del mondo libero”. Il clamoroso telegramma che giunse al Dipartimento di Stato di Washington il 6 aprile 1971 resta ancora oggi una pietra miliare del dissenso interno della politica statunitense. La durissima requisitoria recava la firma di Archer Blood, console generale a Dacca e veterano della diplomazia statunitense in Pakistan, e di un’altra ventina di funzionari a stelle e strisce. “Qui a Dacca siamo testimoni muti e inorriditi del regno del terrore innescato dai militari pakistani”, aveva scritto lo stesso Blood in una comunicazione inviata appena una decina di giorni prima, nella quale definiva senza mezzi termini “genocidio selettivo” quanto stava accadendo in quella fetta di territorio pakistano che di lì a poco avrebbe preso il nome di Bangladesh. Il diplomatico aveva elencato una lunga sequela di aggressioni, omicidi, razzie chiedendo a gran voce un intervento per porre fine al massacro. Ma le sue precise e circostanziate denunce erano destinate a rimanere tragicamente inascoltate e a non spostare di una virgola la politica degli Stati Uniti, guidati dal presidente Richard Nixon e dal suo potente consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger. Quello di Washington fu un silenzio assordante e complice, considerando che all’epoca erano proprio gli Stati Uniti a rifornire l’esercito e l’aviazione pakistana di armamenti e aerei da guerra per massacrare i bengalesi.
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