In lutto contro Hitler e Videla

da “Diario” del 23 gennaio 2009, “Memoria”

Hitler e Videla. La Shoah e i desaparecidos. Auschwitz e i “voli della morte”. Facce, luoghi e orrori di due delle più efficaci macchine di sterminio del ‘900 si inseguono come variabili impazzite fino a incontrarsi nella lunga e dolorosa esistenza di una donna straordinaria. Dietro uno sguardo malinconico, Vera Vigevani Jarach nasconde le ferite profonde segnate da due dittature, che in epoche diverse l’hanno privata in modo straziante degli affetti più cari. S’incammina con passo lento, in una mattina di ottobre, trascinando i suoi splendidi ottant’anni dentro al “Bosco” di Mestre. Le istituzioni hanno deciso d’intitolare una porzione del grande polmone verde vicino a Venezia alla memoria di sua figlia Franca, rapita, uccisa e fatta sparire dai militari golpisti argentini nel 1976. Non nasconde la propria felicità, spiegando di aver sempre lottato per far intitolare giardini e piante, simbolo della vita, alla memoria dei giovani desaparecidos: “è la conferma che la dittatura ha ucciso tante persone, ma non è riuscita a cancellarne la memoria”. La piccola cerimonia assume involontariamente un doppio significato simbolico, perché originario di Venezia era anche il nonno di Vera, Ettore Camerino, deportato e morto ad Auschwitz nel 1943. Il salto temporale di oltre tre decenni non impedisce di accostare l’atroce sofferenza e il tragico destino di un nonno che raccontava storie meravigliose a quello di una figlia non ancora diciottenne, dal sorriso dolce e dal temperamento forte, avida di conoscenza e sicura dei propri ideali di giustizia nonostante la giovane età. La vita di Vera Vigevani Jarach, solcata da queste due atroci perdite, è un paradigma di resistenza alle dittature e di lotta per la conservazione della memoria. Ogni giovedì, per lunghi anni, ha interrotto alle tre del pomeriggio il proprio lavoro nella redazione dell’Ansa di Buenos Aires per raggiungere la manifestazione settimanale delle “Madri di Plaza de Mayo”, di cui è stata una delle fondatrici. Il primo girotondo delle Madres intorno alla piccola piramide che si trova di fronte alla Casa Rosada, sede del governo, risale al 30 aprile 1977. “Sono entrata nel movimento un mese dopo quel primo giro. In precedenza avevo bussato tante volte a porte che mi venivano sistematicamente sbattute in faccia: quelle delle istituzioni, degli enti internazionali, dei diplomatici e delle personalità civili e religiose”. Lo stato d’assedio imposto dalla giunta militare aveva proibito di riunirsi e chiacchierare in strada a gruppi di tre o più persone. Da qui la scelta di camminare in circolo, attorno alla piazza. “La prima volta ebbi un po’ di paura – racconta – ma fu un’esperienza sconvolgente e indimenticabile. Da allora divenne anche per me un appuntamento fisso che mi diede la forza per andare avanti. Una forza che veniva dalle viscere e dall’unione solidale fra noi madri”. Col tempo, quel movimento spontaneo di donne accomunate dal dolore per la perdita dei propri figli avrebbe trasformato quella piazza, centro politico della capitale argentina, nel simbolo della resistenza pacifica a un regime che stava annientando un’intera generazione. La reciproca solidarietà per la comune condizione di vittime dette vita ad amicizie fraterne che ricordavano quelle nate negli anni della seconda guerra mondiale, all’interno della piccola comunità di ebrei italiani rifugiati in Argentina. Continua…