Cinquant’anni fa, per la prima volta, venivano contestate le frontiere degli stati africani
Il 30 maggio 1967 il colonnello Emeka Ojukwu, governatore della Regione Orientale della Nigeria, dichiara la secessione del territorio, che in questo modo assume il nome di Biafra. Questa è la reazione al mancato rispetto degli accordi di Aburi (4-5 gennaio 1967) da parte del governo di Lagos. Tali accordi prevedevano che la Nigeria divenisse una confederazione. Il governo centrale, anziché cercare una soluzione politica, risponde con una guerra che assume presto proporzioni mondiali. Dalla parte del Biafra si schierano molti paesi, fra i quali Cina, Israele, Portogallo e Rhodesia. Dall’altra parte, la Gran Bretagna e l’URSS forniscono un sostegno decisivo alla Nigeria, che fa di tutto per bloccare l’arrivo degli aiuti umanitari provocando una terribile carestia. Un genocidio dove muoiono circa due milioni di persone. La tragedia oscura velocemente le ragioni politiche della secessione. Il 30 gennnaio 1970, dopo 30 mesi di guerra, le truppe biafrane si arrendono. La regione viene reintegrata nel paese e la parola “Biafra” viene messa fuorilegge.
Nata nel 1970 dopo circa 150 anni di dominazione britannica, la Nigeria ha conservato la struttura fissata dal colonialismo. Come in tutta l’Africa. Oggi, grazie a questo, l’uomo della strada ignora i popoli africani: i Diola e gli Oromo, i Berberi e gli Wolof, i Tuareg e gli Yoruba. Al loro posto conosce i Senegalesi e gli Algerini, i Nigeriani e gli Ivoriani, nomi senza volto e senza storia inventati per occultare il passato dell’Africa. Per poter presentare al resto del mondo un continente segnato dalla corruzione, dalla violenza e dalla povertà. Ma l’Africa non era questo. Il Biafra, che fin dal nome si ricollega al passato africano, resta un esempio tragico ma indimenticabile: la prima volta che gli africani hanno detto NO alla frontiere coloniali e hanno rivendicato il diritto di fissare le proprie. Le grandi potenze non hanno risposto “col dialogo”, come si sente dire oggi, ma con le armi.
Alessandro Michelucci