Pietro Mirabelli è morto due giorni fa in un ospedale del Canton Ticino. Stava lavorando in galleria, come sempre, quando un sasso enorme si è staccato e gli è rovinato addosso senza lasciargli scampo. A sconfiggerlo è stato proprio quel mostro che aveva sfidato per tutta la vita, diventando un simbolo delle lotte dei lavoratori dell’Alta Velocità. Pietro era un minatore calabrese di 54 anni, testardo e gentile, costretto a emigrare tanti anni fa da Pagliarelle, paese sperduto in provincia di Crotone, regno di disoccupazione e assoluta povertà. Figlio di un minatore morto di silicosi a causa del lavoro in galleria, Pietro aveva fatto della dignità del lavoro una missione, cercando d’infrangere il silenzio sulla disumana condizione dei minatori moderni. Per oltre un decennio aveva lavorato in Mugello, nel cantiere del Cavet, l’impresa vincitrice dell’appalto per la realizzazione del tratto che oggi permette di collegare Firenze e Bologna con i treni ad alta velocità. Lavori che sono costati vite umane per le quali Pietro, sindacalista instancabile quando riponeva il casco da minatore, non smetteva mai di chiedere giustizia. Per anni anche lui ha fatto il famigerato “ciclo continuo” nei cantieri dell’Alta Velocità, fino a 48 ore la settimana in galleria tra fumi, polvere, acqua, umidità, rumore, con la sola luce artificiale. Nel 2001 scrisse a Carlo Azeglio Ciampi una lettera aperta per porre all’attenzione del presidente della Repubblica le inumane condizioni di vita dei lavoratori del tunnel tra Vaglia e San Piero a Sieve. Pietro ha combattuto tutta la vita contro le morti bianche, i subappalti selvaggi, per promuovere una gestione unitaria della sicurezza. Quasi sempre inascoltato, spesso ritenuto scomodo anche dai sindacati. Voleva che fossero garantiti i diritti e la dignità agli schiavi del Terzo Millennio, a quegli uomini che dopo il lavoro vivono, mangiano, dormono per mesi sotto l’imbocco delle gallerie tra la polvere e il rumore. Aveva scavato personalmente il Frejus, la Val di Susa, la galleria di Rivoli, l’Aurelia, la Carnia ma tutti lo ricorderanno come “l’alfiere del lavoro” (come l’ha definito l’associazione Idra) dell’Alta Velocità. Dopo il periodo di cassa integrazione seguito alla chiusura dei lavori Cavet in Mugello, aveva lavorato per un breve periodo ancora a Barberino, per realizzare nuove gallerie autostradali, fino alla decisione di abbandonare l’Italia per cercare lavoro all’estero. La sua esperienza non gli è bastata martedì scorso, quando un masso gli è precipitato addosso durante la perforazione di un tunnel ferroviario vicino a Lugano. Anche nel Canton Ticino, tragica ironia della sorte, stava lavorando per il passaggio dei treni veloci.
RM