(di Vittorio Zucconi)
Se chiedere scusa per le proprie colpe storiche, oggi divenuta attività molto praticata, potesse davvero cancellare il passato, il lungo orrore dello schiavismo negli Stati Uniti si sarebbe dissolto ieri, quando il Senato americano ha approvato all’unanimità l’atto di contrizione e di pentimento per la «peculiare istituzione», come fu chiamata la schiavitù. Ultima nazione ad abolirla, con Abramo Lincoln nel 1865 dopo il reciproco massacro di 600 mila fratelli del Nord e del Sud, e ancora aggrappata alla coda velenosa della discriminazione razziale di legge per un altro secolo fino agli ‘60 del XX, l’America, che ha oggi alla propria guida un uomo di sangue europeo e africano, ha avvertito, senza particolare fretta, l’urgenza di chiedere scusa anche ai propri cittadini neri. Questo dopo avere già chiesto scusa ai giapponesi internati durante la Seconda Guerra per assurdi sospetti di collaborazionismo, agli hawaiani derubati della propria sovranità e annessi agli Usa, ai nativi americani, rapinati di un continente intero. Senza che quel nobile gesto avesse potuto restituire alle famiglie giapponesi i mesi trascorsi nei campi di concentramento, agli hawaiani il loro arcipelago, o agli indiani le loro praterie. Bel gesto comunque, il voto è stato confezionato in una “risoluzione non vincolante” come dice la formula, per evitare che esso riapra la piaga dei risarcimenti ai nipoti degli schiavi chiesti in passato della Camera alta del Congresso e segue un documento simile già approvato dalla Camera bassa, la House, lo scorso anno, quando non c’erano sospetti di piaggeria verso l’inquilino della Casa Bianca. Proprio per evitare il pericolo che qualche attivista afro-americano possa brandire questa risoluzione e portarla davanti alla Corte Suprema per chiedere quei quasi 100 miliardi di dollari di rimborsi ai discendenti degli schiavi per “lavoro non retribuito”, lo sponsor della mozione, il senatore Harkin dello Iowa e la piccola folla di co-sponsor bipartitici, Kennedy incluso, hanno specificato che essa non riconosce alcun diritto di risarcimento. Scuse sì, ma soldi niente. Ma le parole sono belle e coraggiose, seppure in ritardo di oltre un secolo e mezzo dalla obbrobriosa sentenza della Corte Suprema che nel 1857 riconobbe nella Costituzione il diritto a possedere schiavi e precisò che mai gli ex schiavi, e gli africani importati a forza, avrebbero potuto «aspirare alla piena cittadinanza», essendo creature inferiori. La risoluzione di ieri ha almeno il pregio di non misurare le parole e le espressioni di pentimento: «…Dobbiamo scusarci per secoli di brutale disumanizzazione, anche se le scuse non possono cancellare il passato… », «nella speranza che le ferite aperte dallo schiavismo possano rimarginarsi e possano aiutare tutte le genti degli Stati Uniti a onorare le loro storie diverse». Un riconoscimento della importanza fondamentale e necessaria della natura multietnica e multiculturale della nazione, che i cento senatori sembrano praticare meno bene di quanto predichino. Nella sua storia, infatti, il «più grande organo legislativo del mondo», come ama autodefinirsi, ha conosciuto soltanto quattro senatori di sangue africano. In questo momento ne conta uno solo, e neppure eletto, il molto discusso senatore Roland Burris di Chicago, scelto per sostituire Barack Obama eletto ad altro incarico dal deposto governatore dell’Illinois prima di andare sotto processo. Un personaggio stravagante della politica Chicago style che ha già provveduto a farsi costruire un mausoleo nel quale ha inciso su marmo tutti i suoi successi e accettato dai democratici con il tacito impegno a non ripresentarsi alle elezioni del 2010. Il Parlamento americano arriva dunque buon ultimo nel riconoscere quello che l’elettorato ha già sancito, nel segno del “meglio tardi che mai” e nell’onda di scuse offerte a popoli e nazioni tormentati nei secoli dello schiavismo, del colonialismo e del razzismo. Ora all’appello delle scuse mancano soltanto le migliaia di cittadini italo americani, oltre diecimila secondo gli ultimi studi, internati in campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale, qualcosa che futuri premier italiani in visita a Washington potrebbero opportunamente ricordare al Congresso e a Barack Obama, presidente particolarmente sensibile alle discriminazioni razziali.
(da “La Repubblica”, 19 giugno 2009)
E’ un passo. Non è la conclusione di altro. Il problema secondo me non era nemmeno questo. Le scuse sono sempre ben accette, sono un segno un simbolo, un qualcosa da stimare e da prendere ad esempio.
Ma non è la scusa di un governo che cambia il radicale pensiero dei cittadini verso il nero, l’ispanico e verso quanto altro.
Il tutto andrebbe bene, se, e ripeto se, il concetto della scusa è assimilato completamente dai cittadini.
Ma questo richiede tempo. E forse molto più di 150 anni.
sono d’accordo con te. E forse un gesto meramente simbolico come questo poteva arrivare anche prima…