L’Irlanda è rimasto l’unico paese dell’Europa occidentale privo di una legge che dà alle donne la possibilità di abortire in caso di gravi rischi per la loro vita. Esattamente due anni fa, la Corte europea per i diritti umani ha condannato il governo di Dublino a causa del suo persistente rifiuto di legiferare in tema di aborto. La Costituzione irlandese afferma che l’interruzione di gravidanza è legale quando esiste un reale rischio per la vita della madre, ma il parlamento si rifiuta di prendere iniziative e non esiste ancora una legge che regolamenta e distingue il rischio di vita dal semplice rischio per la salute. Il discrimine (talvolta molto sottile) che ruota intorno a tale interpretazione spetta dunque al medico, e al suo eventuale ideologismo antiabortista. Purtroppo il tema è tornato di stretta attualità a causa di quanto accaduto in questi giorni a Savita Halappanavar, una donna 31enne di origini indiane che da anni lavorava in Irlanda. Savita soffriva da giorni di terribili dolori alla schiena e minacciava un aborto spontaneo, ma per i medici dell’ospedale di Galway, che ancora percepivano il battito cardiaco del feto, non c’erano le premesse per un’interruzione medica della gravidanza. “Questo è un paese cattolico”, le hanno detto – pur dopo aver constatato che la donna stava avendo un aborto spontaneo – e l’hanno lasciata morire di setticemia dopo un’agonia durata tre giorni. Il feto privo di vita le è stato rimosso solo quando ormai la setticemia le aveva avvelenato il sangue.
In Irlanda, l’aborto è ancora disciplinato da una legge inglese risalente al 1861 che dichiara l’aborto reato contro la persona e punisce i trasgressori con l’ergastolo. Non tutte le irlandesi, però, vogliono rischiare la fine di Savita. Ogni anno più seimila donne lasciano l’isola per recarsi in Inghilterra, in Olanda o in Belgio per esercitare il proprio diritto di scelta riproduttiva e di accesso ai servizi sanitari per un aborto sicuro.
RM