di Paolo Rumiz
Non torno piú in Bosnia da anni e non so se ci tornerò mai piu. Non solo perché non vi troverei più le persone che ho amato, ma perche il Paese e peggiorato dopo la fine del conflitto. Se rileggo il libro di Stanisic, scritto a guerra appena iniziata, sento tutta la nostalgia per un mondo che non c’è più. Paradossalmente e stata proprio la guerra l’ultimo momento in cui Sarajevo ha espresso la sua secolare vitalità di citta-serraglio in bilico fra i mondi. Un po’ come il Friuli, distrutto più dalla ricostruzione che dal terremoto, anche l’identita di Sarajevo si e perduta in tempo di pace, schiacciata dal trionfo della malavita organizzata e dall’irruzione di una spietata economia di mercato.
Primavera del 2016. Quattro Bmw nere ultimo modello con vetri affumicati arrivano sgommando davanti a un ristorante sulla strada fra Tuzla e Sarajevo. Ne escono dieci uomini con giubbotto antiproiettile e pistole nelle fondine, seguiti da civili e qualche valigetta ventiquattrore. L’ultimo ad aprire la portiera è un uomo in giacca e cravatta, faccia rubiconda. Entra senza salutare nessuno, seguito dalla scorta, mentre nella locanda si fa silenzio. Consuma agnello arrosto, patate. Beve un bicchiere di yogurt misto ad acqua, poi butta sul tavolo una manciata di euro spiegazzati e se ne va, seguito dai guardiaspalle. Non è un boss. È un ministro, mi spiegano. Ma fa poca differenza. In Bosnia quasi tutti i ministri girano a quel modo. La Bosnia è in mano alla mafia, mentre il popolo è alla fame.
Vent’anni dopo la fine dell’assedio, in Bosnia la situazione peggiora anziché migliorare. Appena arrivi a Sarajevo e salti su un taxi, il conducente ti fa la lista dei misfatti. Che non sono più quelli del nemico del’92, ma quelli della criminalità organizzata attuale, incoronata dagli accordi di Dayton e nella quale l’Europa trova i suoi affidabili interlocutori. Che unità, ti dice la gente, può esprimere un Paese dove fin dalle elementari i bambini imparano, a seconda se sono serbi, croati o musulmani, una storia diversa della loro terra? Come puoi vivere – ti dicono altri – in un villaggio o in una città dove incontri ogni giorno l’assassino di tuo padre e di tuo figlio? Sono le frasi che in Bosnia suggellano l’accettazione rassegnata di una pace senza giustizia.
Negli anni Sessanta, a meno di un ventennio dal secondo conflitto mondiale, l’Italia era già in pieno boom. Nello stesso spazio di tempo in Bosnia è nata una generazione libera dalla memoria paralizzante del’92-’96, che avrebbe potuto far ripartire il Paese sbarazzandolo dai rancori etnici, ma così non è stato. Sarajevo vive ancora in uno stato di dopoguerra e centinaia di organizzazioni non governative continuano a operare sul territorio come se il disastro si fosse appena consumato.
Noi stessi ci siamo abituati a guardare alla Bosnia in termini caritatevoli anziché di sviluppo. Un turista, oggi a Sarajevo, sente ancora il fascino del vecchio mercato; anche il profumo del pane e dei cevapcici e sempre lo stesso. La prima impressione e che non sia cambiato nulla. Ma appena prendi la strada della periferia e della campagna scopri che tutto è misero, immobile, buio.
Nel ’92 Sarajevo non credette alla guerra e ci mise dei mesi ad accettare l’evidenza del fatto compiuto. Intorno alla città si scavavano trincee e nidi di cecchini, ma l’evento sembrava assurdo, inconcepibile. Irreale. Non era possibile, pensava la raffinata borghesia della città, uno scontro nella repubblica jugoslava che più delle altre aveva costruito un suo amalgama laico, forte, ben staccato dal divide et impera titoista fra serbi, croati e musulmani (gli ultimi letteralmente inventati dai geometri delle etnie per equilibrare il peso dei primi due).
Io stesso, alla vigilia del massacro, quando vidi trecentomila persone – in gran parte giovani – marciare a Sarajevo per la pace, mi dissi che la guerra sarebbe potuta scoppiare ovunque tranne che in Bosnia. Mi mostrai persino incerto che l’Italia, in una situazione analoga, potesse esprimere una simile, coraggiosa passione civile. Bastò un cecchino su un tetto per far saltare la polveriera.
Il fatto è che Sarajevo, così come all’inizio non aveva creduto alla guerra, alla fine dell’assedio ha mostrato di non credere alla pace. Nel marzo del ’96 non c’è stata nessuna esplosione di gioia. Era cambiato tutto in quei quattro anni. La parola mir – per l’appunto “pace” – si era svuotata di senso. La città aveva perso l’innocenza, aveva imparato a odiare. I Caschi blu avevano consentito il massacro di Srebrenica e l’Europa aveva mostrato le sue divisioni, i suoi opportunismi. Nello stesso tempo i dollari degli emiri avevano riempito i vuoti lasciati da un Occidente distratto, alimentando una rete di imam che all’Occidente avrebbero guardato con poca simpatia, se non con ostilità. Ovunque tornavano in auge i chierici, fossero cattolici, ortodossi o musulmani. Minareti contro campanili, entrambi enormi, nuovi fiammanti e fastidiosamente estranei alla tradizione locale. Anche il cielo veniva cantonizzato dai monoteismi militanti, e sul piano civile il mitico amalgama bosniaco crollava miseramente. Ogni speranza di rinascita veniva bloccata dalla fuga all’estero della migliore borghesia. Come oggi in Siria, in Ucraina o in Afghanistan, trionfavano i primitivi a spese degli evoluti.
Quando nel ’92 Bozidar Stanisic, bosniaco di cultura serba sposato a una bosniaca di famiglia croata, comparve sulla porta di casa mia, non capii subito di trovarmi di fronte a un dejà vu. Non mi resi conto che egli arrivava impaurito, incredulo e spaesato esattamente come migliaia di profughi istro-dalmati quarant’anni prima di lui. Quel professore di lettere mite e silenzioso rappresentava la stessa tragedia e anche la stessa indecorosa mascherata. Quella che consentiva, e consente tuttora, con l’alibi dell’etnia o della nazione (più tardi sarà anche con la scusa della religione), di espellere, terrorizzare, uccidere o rapinare pezzi importanti della societa civile di un Paese a vantaggio di una minoranza ben fornita di armi, ideologia e forme anche raffinate di persuasione mediatica.
La situazione della Bosnia di oggi non è che la conseguenza di un’emorragia iniziata non nel ’92, ma mezzo secolo prima. L’attuale governo nato dagli equilibrismi etnici di Dayton – nato da una perfida selezione negativa della popolazione a vantaggio dei peggiori – non è altro che la guida impotente di uno Stato fantoccio. Dicono che i suoi ministri non siano capaci di mettersi d’accordo su nulla, nemmeno sul bando del fumo nei locali pubblici, col risultato che oggi a Sarajevo sembra che il tempo si sia fermato, con cinema, bar e ristoranti ridotti a camere a gas. Ma il paradosso è che lo stesso – pachidermico – apparato della cooperazione internazionale in Bosnia ha trovato l’habitat ideale per perpetuare se stesso (vedi il film “Perfect day”), e oggi schiaccia la società civile, impedendole di esprimersi se non attraverso agende eterodirette.
Rileggo quel testo di allora e rifletto che se oggi viviamo con questa polveriera ancora attiva a cento e passa chilometri da Trieste, è perché ce la siamo voluta. Ce la siamo voluta come europei, perché non abbiamo compreso che lì abitava un Islam moderato, laico e aperto alle donne che ci avrebbe protetto da fondamentalismi.
Abbiamo consentito che si smantellasse una società plurale in nome di una geometria cantonale che coi Balcani non ha nulla a che fare e abbiamo
delegato la nostra difesa agli americani, esattamente come in Iraq, in Siria e in Maghreb. Sarajevo era Europa. A guerra finita era diventata lo specchio nel quale per la prima volta l’Europa si era potuta guardare allo specchio scoprendosi cinica e piena di rughe.
(da Il Messaggero Veneto, 21 settembre 2016)