Quando entrò a lavorare nella fabbrica di Oskar Schindler, Leon Leyson aveva soltanto tredici anni ed era talmente basso che per azionare i macchinari doveva stare in piedi su una scatola di legno. Tre anni prima, subito dopo l’invasione nazista della Polonia, la sua famiglia era stata costretta al trasferimento forzato nel ghetto di Cracovia. Da allora i suoi occhi di bambino avevano visto solo brutalità e sadismo, morte e disperazione, finché quell’uomo alto e sicuro di sé non divenne il suo angelo custode. Prima di salvarlo da una fine atroce, l’industriale-eroe reso famoso dal libro di Thomas Keneally si prese cura di lui in modo particolare, mostrandogli con gesti semplici la sua grande umanità. L’aveva soprannominato “piccolo Leyson” e lo riforniva di razioni straordinarie di cibo, non negandogli mai il conforto del suo sorriso. Nella lista degli oltre 1100 ebrei che Schindler riuscì a salvare con lo stratagemma raccontato anche dal noto film di Steven Spielberg, c’era anche Leon Leyson con i suoi genitori e due dei suoi quattro fratelli. Il libro The Boy On the Wooden Box (“Il ragazzo sulla scatola di legno”) che arriverà nelle librerie statunitensi nel mese di agosto racconta la storia autobiografica del più giovane ebreo sopravvissuto grazie alla Schindler’s List e offre per la prima volta una prospettiva diversa sull’“uomo” Oskar Schindler, peraltro già debitamente celebrato come Giusto tra le Nazioni. “Ci trattava come esseri umani e in quell’epoca era l’unico a farlo”, ha spiegato tempo fa lo stesso Leyson, che purtroppo è stato stroncato da un linfoma nel gennaio scorso all’età di 83 anni, poco dopo la consegna del manoscritto alla casa editrice. In mezzo all’orrore del ghetto e del campo di concentramento, quell’uomo fu per il piccolo e per tanti altri come lui, l’unico barlume di speranza per il futuro. Il libro – che sarà pubblicato da Atheneum, una delle case editrici per ragazzi più importanti del mondo – è già stato paragonato al Diario di Anna Frank per l’intensità emotiva della storia raccontata e anche perché Leyson l’ha scritto basandosi esclusivamente sui suoi ricordi, usando un linguaggio simile a quello di un ragazzino. Dalle sue parole traspare infatti un’innocenza priva di alcuna forma d’odio o di rancore anche nei confronti di Amon Goeth, lo psicopatico aguzzino del campo di concentramento di Plaszów, che il “piccolo Leyson” ebbe la sventura di trovarsi di fronte in più occasioni. Continua a leggere “E Schindler salvò il “piccolo Leyson””
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Le carestie? Colpa della politica
Intervista a Thomas Keneally uscita oggi su “Avvenire”
“Quando un Paese è così ricco di generi alimentari da poterli esportare non può esserci alcuna carestia. Sono state le leggi britanniche a costringere me e la mia famiglia a emigrare”. È passato più di un secolo da quando il grande drammaturgo irlandese George Bernard Shaw affidò al personaggio di una delle sue commedie la spiegazione più eloquente circa le cause della Grande Carestia che tra il 1845 e il 1850 decimò la popolazione dell’Irlanda.

Basta un rapido sguardo al passato per avere la conferma che certe calamità, come quella che da mesi colpisce la Somalia, non sono affatto “naturali”: ne è convinto lo scrittore australiano Thomas Keneally, autore di decine di romanzi di successo tra cui quello che ha ispirato il film Schindler’s list. Il suo ultimo libro, Three Famines, racconta alcune tra le più terrificanti carestie dell’ultimo secolo e mezzo – quella etiopica degli anni ‘80, quella scoppiata nel Bengala nel 1943 e, appunto, quella irlandese del XIX secolo – individuando molte analogie anche con altre tragedie simili, come quelle causate dai regimi comunisti in Ucraina e in Corea del Nord. Se la prende in particolare, Keneally, con la spiegazione malthusiana secondo la quale le carestie sarebbero la conseguenza della sovrappopolazione, e spiega invece che sono quasi sempre fattori naturali a innescarle, ma è la politica che le rende devastanti. Non ci sarebbe stata alcuna carestia nel Bengala – sostiene – se i britannici non avessero ostacolato le importazioni di generi alimentali nella provincia indiana dopo le inondazioni che distrussero i raccolti. Non fu la siccità a causare la tragedia della fame in Etiopia, bensì la guerra civile e la collettivizzazione forzata imposta da Menghistu. Quanto poi alla “carestia delle patate” in Irlanda, fu scatenata da un fungo ma ad amplificarla a dismisura ci pensarono i dogmi britannici del libero mercato: l’Irlanda aveva materie prime in abbondanza per sfamare la sua popolazione, se solo Londra avesse cessato di esportarle. La riflessione di Keneally risulta di particolare attualità oggi che, secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 25000 persone muoiono ogni giorno per cause legate alla denutrizione. Continua a leggere “Le carestie? Colpa della politica”