Con oltre cento anni di ritardo il governo tedesco riconoscerà finalmente le sue colpe per quella che molti storici hanno definito l’“Auschwitz africana”, il genocidio perpetrato in Namibia alcuni decenni prima della Shoah. Il ministero degli Esteri tedesco sta lavorando a una dichiarazione congiunta con il governo namibiano che conterrà, per la prima volta, le scuse ufficiali di Berlino per lo sterminio di circa centomila esponenti della tribù Herero e Nama colpevoli di essersi ribellati al dominio tedesco nella regione tra il 1904 e il 1907. La Germania ha però escluso a priori il riconoscimento di alcuna forma di indennizzo ai discendenti delle vittime, spiegando che i torti subiti dalla popolazione sono stati ampiamente ripagati con anni di aiuti economici stanziati a favore della Namibia. Una prima apertura in tal senso c’era già stata una decina d’anni fa, quando l’ex ministro Heidemarie Wieczorek-Zeul si recò in Namibia in occasione del centesimo anniversario della decisiva battaglia di Waterberg. In quell’occasione, per la prima volta un funzionario dello stato tedesco chiese scusa agli africani per i fatti avvenuti all’inizio del XX secolo, parlando chiaramente di ‘genocidio’. D’altra parte, già nel 1985 il rapporto Whitaker delle Nazioni Unite aveva inserito a pieno titolo lo sterminio delle tribù Herero e Nama tra i primi atti genocidari del ‘900. L’esecutivo guidato da Angela Merkel ha deciso adesso di accelerare sul riconoscimento ufficiale con un tempismo tutt’altro che casuale. Alcune settimane fa il Bundestag, la camera bassa del Parlamento tedesco, ha infatti votato quasi all’unanimità una risoluzione che riconosce il genocidio della popolazione armena da parte delle forze ottomane nel 1915, scatenando la durissima reazione della Turchia, che ha immediatamente richiamato il suo ambasciatore a Berlino. Il presidente turco Erdogan ha accusato i tedeschi di ipocrisia sulle stragi compiute in Namibia alcuni anni prima del Metz Yeghern. Prima di condannare gli altri paesi la Germania dovrebbe fare i conti col proprio passato, ha detto Erdogan, le cui argomentazioni sono apparse per una volta convincenti almeno per gli storici. Da qui la necessità immediata, per Berlino, di cancellare una volta per tutte i fantasmi di un crimine lontano e quasi rimosso, mettendo a tacere le polemiche e ogni possibile parallelismo con il genocidio armeno. Anche perché, se è vero che la fredda contabilità delle due tragedie appare assai diversa, la dinamica e la brutalità con le quali sono state perpetrate appaiono invece drammaticamente speculari.
All’epoca in cui risalgono i fatti la Namibia era il fiore all’occhiello delle colonie tedesche dell’Africa sud-orientale, governata da un regime durissimo che prevedeva lavori forzati, schiavitù, violenze e confische delle terre e del bestiame. Nel gennaio del 1904 scoppiò la rivolta della tribù Herero. Circa duecento coloni tedeschi furono uccisi scatenando la reazione di Berlino, che inviò un nuovo governatore deciso a reprimere la sommossa con qualunque mezzo. Il famigerato generale Lothar Von Trotha lanciò un ultimatum alla popolazione della colonia: ogni esponente della tribù presente all’interno dei confini tedeschi – a prescindere dall’età e dalla sua partecipazione o meno alla rivolta – sarebbe stato eliminato senza pietà. In poco tempo le truppe di von Trotha, armate di artiglieria e mitragliatrici, annientarono la debole resistenza africana e massacrarono tutti quelli che trovavano sul loro cammino, avvelenando fiumi e torrenti. Nei mesi successivi non si contarono i villaggi rasi al suolo, le impiccagioni di massa, le stragi e le violenze gratuite secondo un copione che sarebbe stato recitato di lì a poco anche dai turchi contro gli armeni e dai nazisti nella Seconda guerra mondiale. In circa tre anni le truppe tedesche sterminarono l’85% della popolazione Herero, confinando i pochi sopravvissuti in riserve tribali per utilizzarli come schiavi. Centinaia di vittime furono decapitate e i loro teschi spediti in Germania per effettuare ‘ricerche scientifiche’ ed esperimenti per cercare di dimostrare la superiorità della razza ariana. Nel campo di concentramento dell’isola di Shark l’antropologo Eugen Fischer condusse esperimenti medici su cavie umane ai quali contribuì anche l’antropologo italiano Sergio Sergi, autore di uno studio intitolato eloquentemente Craniologia Hererica. Fischer divenne in seguito uno scienziato di spicco dell’eugenetica nazista e un teorico delle leggi razziali, mentre uno dei suoi allievi più promettenti – Josef Mengele – sarebbe passato alla storia come il boia di Auschwitz. Qualche anno più tardi, ben prima che le risoluzioni delle Nazioni Unite chiarissero la natura genocidaria dell’intervento tedesco in Namibia, Hannah Arendt comprese chiaramente che il massacro degli Herero era stato in un certo senso la “premessa” della Shoah. “La distruzione dei popoli coloniali fu una preparazione all’Olocausto – scrisse la grande filosofa nel suo Le origini del totalitarismo del 1951 – i campi di raccolta e le impiccagioni di massa degli Herero, un gigantesco e infernale addestramento ai campi di concentramento nazisti; stessi i cognomi dei protagonisti, identici i metodi; gli africani – prima e durante la Shoah – vittime tra le vittime”. Non a caso, il primo governatore della colonia africana era stato Heinrich Goering, padre di quell’Hermann Goering divenuto poi il braccio destro di Hitler. Nel 1990, dopo decenni di guerre interne, la Namibia ha raggiunto finalmente l’indipendenza e ha oggi un’economia in grande espansione che trae la sua ricchezza dai giacimenti di diamanti, dal turismo e dalle energie rinnovabili. Ancora oggi però, i discendenti degli indigeni cacciati dalle loro terre un secolo fa minacciano periodicamente di riprendersele con la forza. Nel 2001 l’associazione per i risarcimenti al popolo Herero ha intentato una causa davanti ai tribunali americani chiedendo al governo di Berlino e alle imprese tedesche presenti all’epoca in Namibia milioni di dollari che difficilmente riusciranno a ottenere. Il riconoscimento ufficiale del genocidio che inaugurò nel peggiore dei modi il XX secolo contribuirà, almeno in parte, a rendere giustizia alle vittime.
RM
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I figli dei nazisti, tra negazione e catarsi
Avvenire, 14.5.2016
È impossibile vivere un’esistenza normale se di cognome fai Himmler, Göring, Hess, Mengele. Se tuo padre è stato uno dei principali artefici della Soluzione finale e dello sterminio freddo e pianificato di milioni di esseri umani. I figli dei gerarchi nazisti sono stati anch’essi vittime della Storia, condannati a esistenze tragiche, sempre in bilico tra depressioni e idee di suicidio, oppure ostinatamente impegnati a cercare di riabilitare il fardello che pesava sui loro nomi. Nati tra il 1927 e il 1944, molti di loro hanno trascorso l’infanzia con i genitori nei pressi dello chalet di Hitler, sul massiccio dell’Obersalzberg, scoprendo la terribile verità sul loro passato soltanto dopo la guerra. Da allora sono stati emarginati a lungo, se non addirittura perseguitati, comunque costretti a confrontarsi con le colpe dei padri e a vivere una conflittualità costante con la loro ombra. In un bel saggio appena uscito in Francia (Enfants de Nazis, edizioni Grasset), Tania Crasnianski ricostruisce nel dettaglio otto storie esemplari, ciascuna delle quali richiama alla memoria le parole di Primo Levi: “i mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere davvero pericolosi. Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e obbedire senza discutere”. Tra i figli dei gerarchi c’è stato addirittura chi, non riuscendo a fare i conti con un passato troppo pesante, ne ha addirittura conservato e rafforzato i legami. È il caso di Gudrun Himmler: suo padre fu il capo delle SS e l’organizzatore del programma dello sterminio degli ebrei, lei ha consacrato la vita alla riabilitazione della sua figura ed è stata per anni alla guida di Stille Hilfe, un’organizzazione che ha fornito aiuti agli ex membri del regime. Qualcosa di simile ha fatto Edda Goering, figlia del numero due del Reich, che ha sempre mostrato grande rispetto per il padre senza rinnegare niente del suo passato. Dal libro di Crasnianski pare emergere che il rapporto avuto da alcuni di questi figli coi genitori in vita abbia poi condizionato il giudizio sulle loro scelte successive. Più forte è stato il legame, più è stato difficile respingere la tragica eredità che si portavano dietro. In alcuni casi questa doveva tramutarsi in cieca accettazione del loro operato. Rudolf Höss, comandante del campo di sterminio di Auschwitz e morto impiccato nel 1947, fu un padre esemplare e sua figlia, la modella e stilista Brigitte Höss, ha cercato a lungo di rimensionare il ruolo del padre nello sterminio. Suo fratello Wolf-Rüdiger si sarebbe spinto oltre, e dopo aver visitato il padre in carcere a vita a Spandau oltre un centinaio di volte, ne ha sostenuto l’innocenza fino a diventare uno dei più accaniti negazionisti dell’Olocausto. Ad Auschwitz operò anche Josef Mengele, tragicamente noto per i suoi esperimenti su cavie umane. Dopo la guerra sfuggì al processo di Norimberga e riparò in Sudamerica, dove morì da uomo libero. Suo figlio Rolf, nato nel 1944 e vicino alla sinistra radicale, si fece cambiare il cognome e incontrò il padre in segreto, in Brasile, per cercare di capire cosa l’aveva spinto a compiere quelle mostruosità. Non ottenne alcuna risposta ma si rifiutò di fornire alcuna indicazione che potesse portare al suo arresto. Ma c’è anche chi ha cercato in tutti i modi di condannare l’operato dei genitori. Niklas Frank, figlio di Hans Frank, governatore nazista della Polonia processato e mandato a morte nel 1946 per aver fatto uccidere oltre tre milioni e mezzo di polacchi ed ebrei, ha dedicato la sua vita alla pubblicazione di libri e articoli contro di lui. Ha odiato la memoria di suo padre al punto da non voler avere figli, “per non spargere il seme maledetto e far estinguere quel cognome infame”. Fino a Martin Adolf Bormann, figlio del luogotenente di Hitler, che dopo aver investigato a lungo sul suo passato, ha cercato infine di espiarne le colpe. Subito dopo la morte di suo padre – che fu uno dei più acerrimi nemici delle chiese cristiane, e arrivò a chiedere l’impiccagione del vescovo Von Galen – ha scelto la strada della fede, facendosi prete e trascorrendo lunghi anni in Africa come missionario.
RM
La complessità del male
Un gerarca nazista mosso da furore ideologico oppure un freddo burocrate che si limitò a eseguire il più mostruoso degli ordini? Da quando finì impiccato in un carcere israeliano nel 1962, Adolf Eichmann non ha mai smesso di suscitare l’interesse degli studiosi, che a lungo si sono divisi sul ruolo svolto dall’“architetto dell’Olocausto” nella Soluzione finale. Sfuggito al processo di Norimberga e giudicato da un tribunale israeliano solo molti anni più tardi, Eichmann divenne oggetto di studio per Hannah Arendt, che raccontò il processo di Gerusalemme sul New Yorker e fece poi confluire il suo lavoro nel famoso libro La banalità del male. La filosofa tedesca fu la prima a sostenere che il male assoluto potesse non essere radicale, affermando che Eichmann non era né uno psicopatico né un fervente antisemita, ma solo un uomo mediocre, “incapace di pensare” e intenzionato a fare carriera a qualsiasi costo. La controversa tesi della Arendt, risalente ormai a oltre 50 anni fa, è stata più volte messa in discussione dagli studiosi, a partire dal suo contemporaneo Gershom Sholem – che definì la banalità del male “uno slogan” – fino a Deborah Lipstadt, la storica statunitense che in un recente libro ha accusato la Arendt di aver voluto assolvere la cultura europea dalla colpa di antisemitismo.
Una disputa intellettuale che potrebbe concludersi definitivamente grazie al lavoro di un’altra filosofa tedesca, Bettina Stangneth, che in un libro da poco uscito anche negli Stati Uniti – Eichmann Before Jerusalem. The Unexamined Life of a Mass Murderer – ricostruisce la personalità del gerarca SS utilizzando molti documenti, lettere e testimonianze inedite. Arrivando alla conclusione che sia la Arendt che molti storici sono stati in realtà ingannati dal comportamento di Eichmann al processo, la cui analisi è di per sé insufficiente a far comprendere la sua vera natura: non un grigio e taciturno criminale di guerra in fuga, bensì un lucido ideologo che odiava profondamente gli ebrei e fu un convinto e fanatico esecutore dello sterminio. La chiave di lettura della Stangneth è incentrata sull’analisi dettagliata dei movimenti di Eichmann dopo la guerra, dalla sua fuga dalla Germania fino all’arresto da parte del Mossad nel 1960. Anni che trascorse in Argentina, senza curarsi neanche di nascondere la sua vera identità, dicendosi orgoglioso di quanto aveva fatto durante la Seconda guerra mondiale. Nel libro, che le è costato una decina d’anni di ricerche negli archivi di tutto il mondo, Stangneth esamina migliaia di documenti, memorie manoscritte e trascrizioni di interviste segrete rilasciate dallo stesso Eichmann. Emergono particolari clamorosi, come la lettera che scrisse nel 1956 al cancelliere Adenauer proponendogli un suo ritorno in Germania per farsi processare da un tribunale tedesco, ma niente è più rivelatore delle registrazioni audio che precedettero la sua cattura. “Non mi pento di nulla, e il pensiero di aver ucciso milioni di ebrei mi dà molta soddisfazione”, affermò l’ex gerarca. Il male che rappresentò fu tutt’altro che banale.
RM
La guerra segreta di Hitler alle donne
La storia dimenticata del campo di concentramento femminile di Ravensbruck, progettato dai nazisti con l’obiettivo specifico di eliminare le donne “non conformi”. Dal maggio del 1939 al 30 aprile del ’45, sono passate da qui 130mila donne, provenienti da 20 nazioni diverse. 50mila sono morte.
Un campo di concentramento femminile. L’unico fatto progettare da Hitler con l’obiettivo specifico di eliminare le donne “non conformi”: prigioniere politiche, lesbiche, rom, prostitute, disabili e donne semplicemente giudicate “inutili” dal regime. La terribile vicenda di Ravensbrück, è tra quelle che ricorrono meno tra le storie dei sopravvissuti, eppure da questo campo di concentramento, 90 chilometri a nord di Berlino, dal maggio del 1939 al 30 aprile del ’45, sono passate 130 mila donne, provenienti da 20 nazioni diverse, 50mila delle quali qui sono morte. Solo il 10% delle quali erano ebree.
Una storia nascosta, quella raccontata da Sara Helm, giornalista e autrice del libro, dal titolo evocativo dell’opera di Primo Levi, Ravensbrück: If this is a woman, “Se questa è una donna”, appunto.
Secondo Helm, le ragioni per cui Ravensbrück è rimasto ai margini della storia, sono diverse. Il campo era relativamente piccolo e non rientrava nella narrativa dominante dell’Olocausto, molti documenti poi sono stati distrutti, inotre il lager è stato per anni nascosto dietro la cortina di ferro. Anche la riluttanza delle vittime a parlare ha giocato un ruolo decisivo nel portare con grande ritardo la storia di Ravensbrück all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. “Chi è riuscita a tornare a casa – ha spiegato Sara Helm – spesso si vergognava per quello che aveva subito, come se fosse stata colpa sua. Parlando con diverse donne francesi, mi è stato detto che l’unica domanda che veniva rivolta loro, era se fossero state stuprate. Altre mi hanno raccontato che, quando si decisero a parlare nessuno credette a quelle storie orribili.” In Unione Sovietica le sopravvissute rimasero zitte per paura. Secondo Stalin i russi dovevano combattere fino alla morte, quelli che erano stati catturati potevano essere accusati di tradimento, indagati e spediti in altri campi di detenzione, questa volta in Siberia.
Eppure nulla spiega davvero l’anonimato di questo campo. I nazisti hanno commesso atrocità nei confronti delle donne, in molti altri posti. Più della metà degli ebrei uccisi nei campi di concentramento, erano donne. Ma mentre Auschwitz era la capitale dei crimini contro gli ebrei, Ravensbrück era la capitale dei crimini contro le donne. Le violenze atroci perpetrate nel lager erano infatti specifici crimini di genere, tra i più comuni, come sterilizzazioni, aborti forzati e stupri.
“Forse gli storici semplicemente non si sono interessati nello specifico a cosa accadesse alle donne. Eppure ignorare Ravensbrück significa ignorare una fase cruciale nella storia del nazismo. I crimini commessi qui non erano solo crimini contro l’umanità, ma crimini contro le donne.”
Negli ultimi mesi della guerra, nell’autunno del 1944, dopo che Himmler aveva ordinato la sospensione delle camere a gas, Ravensbrück ricevette un ordine diverso. Qui, in una baracca vicino al forno crematorio, venne costruita una camera a gas provvisoria, utilizzando componenti provenienti anche da Auschwitz.
6 mila donne vennero uccise, asfissiate. “Fu l’ultimo sterminio di massa del regime nazista”, scrive Helm. “Eppure è stato ignorato dalla storia per un lunghissimo periodo”.
Shoah-Ruanda: orrori a confronto
Ci sono tanti, troppi punti in comune tra il genocidio del Ruanda – di cui ricorre adesso il ventennale – e l’Olocausto, che fino a non molto tempo fa veniva considerato un evento unico e quindi incomparabile nella storia recente dell’umanità. Evidenziare le analogie e le somiglianze tra questi due orrori non è un esercizio accademico né una sterile comparazione tra contabilità delle vittime e atti di brutalità. È piuttosto un’esigenza dettata dalla memoria e dal bisogno di comprendere le responsabilità e le cause di due eventi che risultano assai meno distanti del mezzo secolo di storia che li separa. In un saggio breve ma intenso, Shoah, Ruanda. Due lezioni parallele (Giuntina), Niccolò Rinaldi declina in modo efficace l’inevitabile parallelismo tra i due maggiori orrori del XX secolo, senza scordare le inevitabili differenze. La prima e più eloquente di queste sta nella modalità: le vittime dell’Olocausto morirono nelle camere a gas, nei forni crematori e nei campi di concentramento; in Ruanda fu invece distrutto circa un milione di vite umane a colpi di machete, oppure bruciando gruppi di persone chiusi in chiese o scuole, o ancora seppellendo i vivi e i morti insieme. Differente è stata anche la presa di coscienza post-genocidio, poiché nel caso del Ruanda non c’è ancora stata una condanna unanime, al contrario di quanto è accaduto invece per l’Olocausto. Rinaldi – esperto di “memorie” e già autore di altri libri importanti su Afghanistan e Africa – delinea invece il parallelismo Shoah-Ruanda attraverso un caleidoscopio di parole attorno alle quali fa ruotare una narrazione che non scade mai nella retorica. Parole che hanno in alcuni casi un significato opposto (crudeltà e pietà, oblio e memoria, revisionismo e riconoscimento, rassegnazione e resistenza) e che rappresentano i punti di partenza di un percorso di approfondimento che risulta assai utile per fugare una volta per tutte l’equivoco più pericoloso: considerare ciò che è accaduto in Ruanda vent’anni fa uno “scontro tribale”, come a lungo l’Occidente ha voluto credere. Fu invece anch’esso, al pari della Shoah, uno sterminio pianificato basato su divisioni antiche e causate da politiche che, finita l’epoca colonialista, non hanno mai smesso nei fatti d’essere colonialiste, sostituendo il dominio territoriale con il controllo e lo sfruttamento economico. Dagli anni ’50 in poi il Ruanda è stato violentato per decenni da studiosi e da antropologi che hanno raccontato la storia del paese in termini di guerra tra razze, e a lungo le tradizioni del piccolo paese africano sono state demonizzate e occultate dagli hutu che le attribuivano solo alla cultura tutsi. È quindi confortante che in questi ultimi anni sia apparsa una nuova generazione di storici capace di fornire un’altra lettura della storia antica ruandese, non basata su pregiudizi razzisti ma su un passato comune. La tragedia del Ruanda conferma purtroppo che affermare “mai più” non basta per evitare gli orrori del passato. “C’è poco da stare tranquilli – conclude Rinaldi – ma se conosciamo siamo tutti più forti”.
RM
Se questo è un prete
“Priebke era un mio amico. Era un cittadino tedesco, cristiano cattolico, soldato fedele. E’ stato l’unico caso di un ultrasettantenne innocente dietro le sbarre. È uno scandalo come è stato trattato in Italia, è stato perseguitato mentre si accolgono modo dignitoso gli immigrati a Lampedusa. E’ una vergogna”. Sono le parole di Don Floriano Abrahamowicz, sacerdote lefebvriano, intervistato da Giuseppe Cruciani a “La Zanzara”, su Radio24. Il religioso veneto difende strenuamente l’ufficiale nazista e si rende protagonista di un rovente alterco con David Parenzo, a suon di insulti e di ingiurie. “Mettete una palla da tennis in bocca a Parenzo per farlo tacere” – insorge Don Floriano al disappunto del giornalista – “È lui il nazista, perché ha la camera a gas in testa. Dalla sua bocca esce pestifero gas ogni volta che la apre”. E prosegue la sua filippica pro Priebke: “Lui era semplicemente un poliziotto che ha applicato la legge marziale internazionale. È innocente, non è un criminale, è stato prosciolto due volte per la tragedia delle Fosse Ardeatine. Criminali sono quelli che hanno fatto saltare in aria i ragazzi di via Rasella, perché erano dei privati cittadini senza uniforme. E invece” – prosegue – “ai partigiani vengono date medaglie d’oro. Dite a loro di pentirsi. Priebke invece ha rispettato la legge”. E aggiunge: “Negli stati cattolici di una volta dove c’era la tremenda pena di morte, ahi ahi ahi che oscurantismo, il condannato a morte aveva la sepoltura e i sacramenti. E questa pseudo-democrazia rifiuta a un innocente vegliardo anche la sepoltura. Io sabato prossimo dirò una messa per il riposo dell’anima di Priebke”. Il sacerdote esprime la sua sulle camere a gas: “È una vergogna che nel ventunesimo secolo non si sia fatto ancora un vero studio scientifico sulle camere a gas. Quattro anni fa ho detto che servivano almeno a disinfettare. Confermo tutto. L’Olocausto? L’unico vero che c’è stato, nel senso pieno e biblico del termine, è la morte di nostro Signore Gesù Cristo. Quello ebraico” – continua – “non è stato un Olocausto, ma un eccidio. Vieto a chiunque al mondo, ebreo o non ebreo, di rivendicare per sé quello che è unico per Gesù Cristo”.
E Schindler salvò il “piccolo Leyson”
Quando entrò a lavorare nella fabbrica di Oskar Schindler, Leon Leyson aveva soltanto tredici anni ed era talmente basso che per azionare i macchinari doveva stare in piedi su una scatola di legno. Tre anni prima, subito dopo l’invasione nazista della Polonia, la sua famiglia era stata costretta al trasferimento forzato nel ghetto di Cracovia. Da allora i suoi occhi di bambino avevano visto solo brutalità e sadismo, morte e disperazione, finché quell’uomo alto e sicuro di sé non divenne il suo angelo custode. Prima di salvarlo da una fine atroce, l’industriale-eroe reso famoso dal libro di Thomas Keneally si prese cura di lui in modo particolare, mostrandogli con gesti semplici la sua grande umanità. L’aveva soprannominato “piccolo Leyson” e lo riforniva di razioni straordinarie di cibo, non negandogli mai il conforto del suo sorriso. Nella lista degli oltre 1100 ebrei che Schindler riuscì a salvare con lo stratagemma raccontato anche dal noto film di Steven Spielberg, c’era anche Leon Leyson con i suoi genitori e due dei suoi quattro fratelli. Il libro The Boy On the Wooden Box (“Il ragazzo sulla scatola di legno”) che arriverà nelle librerie statunitensi nel mese di agosto racconta la storia autobiografica del più giovane ebreo sopravvissuto grazie alla Schindler’s List e offre per la prima volta una prospettiva diversa sull’“uomo” Oskar Schindler, peraltro già debitamente celebrato come Giusto tra le Nazioni. “Ci trattava come esseri umani e in quell’epoca era l’unico a farlo”, ha spiegato tempo fa lo stesso Leyson, che purtroppo è stato stroncato da un linfoma nel gennaio scorso all’età di 83 anni, poco dopo la consegna del manoscritto alla casa editrice. In mezzo all’orrore del ghetto e del campo di concentramento, quell’uomo fu per il piccolo e per tanti altri come lui, l’unico barlume di speranza per il futuro. Il libro – che sarà pubblicato da Atheneum, una delle case editrici per ragazzi più importanti del mondo – è già stato paragonato al Diario di Anna Frank per l’intensità emotiva della storia raccontata e anche perché Leyson l’ha scritto basandosi esclusivamente sui suoi ricordi, usando un linguaggio simile a quello di un ragazzino. Dalle sue parole traspare infatti un’innocenza priva di alcuna forma d’odio o di rancore anche nei confronti di Amon Goeth, lo psicopatico aguzzino del campo di concentramento di Plaszów, che il “piccolo Leyson” ebbe la sventura di trovarsi di fronte in più occasioni. Continua a leggere “E Schindler salvò il “piccolo Leyson””
Fame a Dublino, il genocidio negato
Ci voleva tutta l’autorevolezza e la popolarità di uno storico come Tim Pat Coogan per rimuovere definitivamente il velo di ipocrisia che da sempre cerca di nascondere la scomoda verità su uno dei più drammatici eventi della storia europea del XIX secolo. La Grande Carestia irlandese, la gigantesca catastrofe che colpì l’isola tra il 1845 e il 1852, fu in realtà un atto di genocidio compiuto dagli inglesi per motivi opportunistici. Il grande studioso irlandese lo afferma con decisione nel suo ultimo libro The Famine Plot: England’s Role In Ireland’s Greatest Tragedy (Palgrave Macmillan), spiegando che quanto accadde in quegli anni può essere paragonato ai recenti fatti del Darfur e rientra perfettamente nella definizione di genocidio contenuta nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti umani.
All’inizio dell’‘800 l’Irlanda era stata privata del proprio parlamento e costretta all’unione politica con l’Inghilterra. Gran parte degli irlandesi viveva in condizioni miserabili e poteva cibarsi soltanto di patate finché, nell’estate del 1845, la rapida diffusione di un fungo velenoso non fece marcire tutti i raccolti creando le premesse di una delle più gravi carestie dell’Europa contemporanea. La popolazione cominciò a morire di stenti: nel solo 1847 si registrò la morte di mezzo milione di persone a causa della fame e delle epidemie legate alla malnutrizione. Ma mentre la popolazione moriva per le strade, dai porti irlandesi decine di navi cariche di generi alimentari partivano ogni giorno alla volta dell’Inghilterra. Nell’arco di una sola generazione l’Irlanda avrebbe conosciuto un declino demografico senza paragoni in Europa, perdendo circa un terzo della sua popolazione. Il bilancio finale conterà oltre un milione di morti e un’emigrazione forzata di dimensioni bibliche, destinata a dar vita alla grande diaspora irlandese in America e in Australia. Nella vulgata popolare e nella letteratura è sempre stata diffusa l’idea che la natura avesse mandato la malattia delle patate ma che fossero stati gli inglesi a “creare” la Carestia. Ma prima che Coogan decidesse di contribuire con forza al dibattito, gli studiosi irlandesi erano sempre stati assai cauti nell’affermare le responsabilità di Londra. Continua a leggere “Fame a Dublino, il genocidio negato”