Derry, rabbia e paura dopo l’autobomba

Avvenire, 31 gennaio 2019

Erano sette anni che non esplodeva un’autobomba da queste parti. Per la popolazione di Derry è stato un brusco risveglio: ha fatto svanire di colpo la convinzione che la guerra fosse ormai solo un lontano ricordo. “Sembrava un sabato sera come tutti gli altri, finché non abbiamo ricevuto la chiamata della polizia che ci ordinava di evacuare immediatamente l’edificio”. Ciaran O’Neill è il direttore del Bishop’s Gate Hotel, l’elegante albergo che si trova a poche decine di metri dal luogo dell’attentato del 19 gennaio scorso.

Il luogo dell’attentato del 19 gennaio
(foto R.Michelucci)

Erano le otto di sera, e il ristorante dell’hotel era pieno di gente. “Gran parte del mio staff ha meno di trent’anni e non si era mai trovato in una situazione simile. In pochi minuti siamo stati costretti a portare al sicuro quasi duecento persone”. Aperto nell’estate di due anni fa, il Bishop’s Gate è stato votato secondo miglior albergo del Regno Unito dagli utenti di Tripadvisor ed è il simbolo più eloquente della riqualificazione di un’area che negli ultimi anni ha visto fiorire nuovi negozi, bar, ristoranti e un mercato coperto. Adesso O’Neill teme che l’evento possa avere gravi ricadute sull’economia cittadina. All’angolo della strada si trova invece la libreria Little Acorn. La proprietaria, Jenny Doherty, non si è ancora ripresa dallo choc. Il sabato sera di solito chiude alle sei ma quel giorno aveva deciso di restare più a lungo per rimettere a posto il negozio. “Stavo per chiudere la saracinesca quando ho sentito un botto enorme. Mi sono affacciata fuori e ho visto i poliziotti che stavano evacuando l’area in tutta fretta. Uno di loro mi ha gridato di tornare nel negozio e restare chiusa all’interno”. Jenny abita all’interno dell’area che è stata evacuata per motivi di sicurezza, e ha potuto far ritorno a casa solo due giorni dopo, quando l’allerta è terminata. Quasi per miracolo il potente ordigno sistemato nel veicolo in sosta di fronte al tribunale non ha fatto vittime.

(foto R.Michelucci)

Ma chi l’ha piazzato ha scelto con cura sia il luogo che una data precisa per compiere l’attentato. Eamonn McCann, 75 anni, scrittore e storico attivista politico di Derry, è convinto che la bomba non abbia avuto niente a che fare con la Brexit. “I repubblicani dissidenti contrari al processo di pace hanno voluto celebrare in questo modo il centenario dell’inizio della guerra d’indipendenza, nel 1919. L’eredità della storia è ancora pesante da queste parti, e alcuni vorrebbero rivivere il passato”, spiega McCann, che nel 1972 fu uno degli organizzatori della marcia che culminò nella strage della Bloody Sunday.
Bishop street, dov’è esplosa l’autobomba, si trova nel cuore del centro di Derry, all’interno delle mura cittadine, in un luogo dal forte valore simbolico. Il piccolo tratto di strada scende verso il Diamond – la piazza centrale -, costeggia la cattedrale anglicana di San Columba ed è adiacente al Fountain, una piccola enclave protestante chiusa dietro a un recinto di grate metalliche. Uno dei tanti muri che continuano a dividere le città dell’Irlanda del Nord. L’area è controllata da decine di telecamere a circuito della polizia e pare impossibile che gli autori dell’attentato non siano stati ancora scovati. Le cinque persone arrestate finora sono state rilasciate nel giro di poche ore, senza alcuna accusa. Il giorno dopo la bomba, gruppi di uomini armati hanno sequestrato tre veicoli seminando il caos in città. Anche adesso che l’allarme è finito gli agenti continuano a pattugliare il centro giorno e notte con i cani anti-esplosivo.

La polizia sulle mura di Derry (foto R.Michelucci)

La gente è scossa, ma la paura delle prime ore ha ormai lasciato spazio a una profonda rabbia nei confronti di chi vorrebbe riportare l’Irlanda del Nord agli anni bui del passato. Un gruppo che si è presentato con il nome di “IRA” ha inviato una dichiarazione al Derry Journal rivendicando l’attentato al tribunale e minacciando nuovi attacchi. Molti temono che i gruppi paramilitari possano usare la Brexit e l’eventuale ripristino del confine con la Repubblica d’Irlanda come pretesto per compiere nuovi atti di violenza ma nessuno crede che il conflitto possa riesplodere come in passato. Nei giorni scorsi alcune centinaia di persone si sono radunate in centro, al Giardino della pace, per manifestare contro i dissidenti. C’erano i rappresentanti dei principali partiti nordirlandesi, anche quelli un tempo vicini alla lotta armata come Sinn Féin e gli unionisti del DUP. Dalla manifestazione sono emerse critiche nei confronti dei leader politici, per l’impasse che da oltre due anni blocca il parlamento di Stormont. Dal palco ha infine preso la parola Antoinette McMillen del NIPSA, il più grande sindacato d’Irlanda. “I nostalgici della lotta armata – ha gridato – dovrebbero innanzitutto dare ascolto alla gente comune e ai lavoratori, che non vogliono un ritorno al passato e sono decisi a resistere a qualsiasi forma di intimidazione”.
RM

L’infinita letteratura sull’Irlanda divisa

Avvenire, 20.12.2018

È curioso che proprio nell’anno in cui si è celebrato il ventennale dell’Accordo di pace in Irlanda del Nord il principale premio letterario in lingua inglese sia stato assegnato per la prima volta a una scrittrice nordirlandese per un romanzo ambientato durante il conflitto. Anna Burns, originaria di Belfast ma ormai radicata in Inghilterra, si è aggiudicata il prestigioso Man Booker Prize con Milkman, un’opera dalla scrittura definita “altamente letteraria” che affronta temi quali l’oppressione, il patriarcato, il sospetto, la paura. “Nessuno di noi aveva mai letto qualcosa di simile prima”, ha chiosato il presidente della giuria del premio, Kwame Anthony Appiah, alimentando l’attesa per la traduzione italiana del romanzo che uscirà nei primi mesi del 2019 con l’editore Keller. Prima della 56enne Burns, il Booker Prize è stato vinto in passato da superstar letterarie come Nadine Gordimer, Salman Rushdie, Ian McEwan, John Banville e da futuri premi Nobel, fra cui J.M. Coetzee, Doris Lessing e Kazuo Ishiguro. Ma l’aspetto più sorprendente, nella vittoria della scrittrice di Belfast, è l’ambientazione scelta per il suo romanzo. Dopo la firma dell’Accordo del Venerdì Santo del 1998, la guerra in Irlanda del Nord aveva infatti smesso di essere un soggetto letterario: l’attenzione degli scrittori irlandesi si era rivolta altrove, quasi come se non vi fosse più niente da raccontare all’interno di un genere che tra i suoi capisaldi conta molti testi di grande spessore ma ormai storicizzati. Era il 1977 quando uscì lo splendido romanzo Shadows on Our Skin di Jennifer Johnston (tradotto in italiano col titolo Ombre sulla nostra pelle). La grande scrittrice dublinese ‘inaugurò’ il genere con una storia di violenza raccontata attraverso gli occhi innocenti e lo sguardo acuto di un bambino di dieci anni, una prospettiva che in seguito sarebbe stata ripresa da molti altri autori. Joe Logan, il piccolo protagonista del romanzo ambientato a Derry, scrive poesie in rima mentre fuori il mondo va a rotoli e la sua famiglia si disgrega tra alcol, malattie e disperazione. I fragili equilibri interiori del piccolo finiranno per spezzarsi a causa di Brendan, il fratello maggiore che condivide l’aspirazione del padre per un’Irlanda libera. Il protagonista è descritto magistralmente dalla prosa di Johnston, intessuta di molteplici sottotrame e capace di creare un’attesa continua nel lettore. Solo pochi anni più tardi, nel 1983, uscì un’altra pietra miliare, Cal di Bernard MacLaverty. Un romanzo a tratti commovente, che racconta la crescita spirituale di un giovane cattolico di Belfast costretto a trovare rifugio in una baracca dopo l’incendio doloso della sua casa. McLaverty descrive un personaggio complesso, dalle mille sfaccettature, la cui vita è in realtà una metafora dell’Irlanda divisa tra le opposte convinzioni politiche e religiose. L’odio settario, il pregiudizio e la guerra a bassa intensità che per decenni ha costretto la gente comune a vivere nel terrore sono il contesto nel quale prende forma anche Le menzogne del silenzio di Brian Moore, che nel 1990 fu tra i romanzi finalisti del Booker Prize. Michael Dillon, il protagonista, è “un poeta fallito in abiti eleganti”, che decide di chiedere il divorzio e di fuggire con la giovane amante ma è costretto a compiere un attentato da un commando dell’IRA che ha preso in ostaggio sua moglie. Un romanzo memorabile, nel quale il compianto Moore è capace di fondere in modo straordinario la tensione del thriller con i dilemmi morali degli abitanti dell’Irlanda del Nord di quell’epoca. Gli anni ‘90 sono stati senza dubbio il periodo più prolifico, anche sul piao qualitativo, di opere letterarie incentrate sul conflitto anglo-irlandese. Persino due mostri sacri come Edna O’Brien e Seamus Deane si sono cimentati con il genere. Con Uno splendido isolamento – uno dei suoi romanzi più belli, uscito nel 1994 -, la O’Brien si discostò anche stilisticamente dalle sue opere precedenti con una storia incentrata sul rapporto di fiducia e amicizia che si instaura tra un membro dell’IRA braccato dalla polizia e una donna anziana e malata. La grande scrittrice lasciò l’Irlanda come alcuni suoi illustri connazionali – Joyce e Beckett su tutti -, ma l’Irlanda e i cosiddetti “Troubles” non l’avrebbero lasciata mai: nella sua vasta produzione il tema torna di nuovo nel racconto Fiore nero, contenuto nella raccolta Oggetto d’amore, recentemente uscita in traduzione italiana per Einaudi.
Seamus Deane ha invece ambientato a Derry il suo romanzo più famoso, Le parole della notte, uscito nel 1996 e poi tradotto in decine di edizioni in tutto il mondo. Anche in questo caso la voce narrante è quella di un ragazzino, affascinato dalla dimensione fantastica che lo circonda. Ben presto però il suo mondo intriso di leggende si scontra con la realtà della vita quotidiana a Derry. Con il precipitare degli eventi la narrazione di Deane si fa claustrofobica, proprio come le strade dell’enclave cattolica della città, che diventano teatro di una feroce guerriglia urbana. “Rischiammo di soffocare per i gas sparati dall’esercito, vedemmo o udimmo le esplosioni, i colpi d’arma da fuoco, i disordini che si avvicinavano con i loro confusi rumori di vetri infranti, i lampi delle bombe molotov, le urla isolate che sfociavano in un latrare prolungato e il concertato tamburellare dei manganelli sugli scudi antisommossa”. E si svolge sempre a Derry, nello stesso periodo, anche quello che molti critici irlandesi considerano uno dei più bei romanzi mai scritti sul conflitto: The International di Glenn Patterson, pubblicato nel 1999 pochi mesi dopo la firma dell’accordo di pace e purtroppo non ancora tradotto in italiano. Patterson dà forma a una circolarità di eventi condita da un’amara ironia e riesce a evocare un senso di nostalgia per quello che Belfast era prima della guerra. Con un incipit indimenticabile. “Se avessi saputo che la storia sarebbe cambiata per sempre il giorno dopo, avrei fatto lo sforzo di svegliarmi prima dell’ora del tè” chiosa Danny, barista diciottenne, osservando le persone che affollano un hotel del centro di Belfast un sabato sera di gennaio del 1967.
Risalgono sempre a quegli anni anche due romanzi che hanno riscosso in Italia un successo superiore a quello ottenuto in patria. Si tratta di Resurrection Man di Eoin McNamee e di Eureka Street di Robert MacLiam Wilson. Il primo è ispirato alla storia degli “Shankill Butchers”, una feroce banda di protestanti che terrorizzò Belfast negli anni ‘70, i cui componenti rapivano, torturavano, mutilavano e ammazzavano sadicamente le loro vittime cattoliche. Non è un capolavoro letterario ma un contributo prezioso per comprendere l’isteria e la crudeltà gratuita di quella guerra. Quello di MacLiam Wilson, divenuto negli anni quasi un libro di culto per gli amanti del genere, è invece un romanzo di formazione, una storia di amicizia, di amore e solitudine, tra persone comuni che vivono in una città e in un paese in preda al caos. Jake e Chuckie, l’uno cattolico e l’altro protestante, eppure capaci di un affetto viscerale e disinteressato nonostante le differenze politiche, culturali, religiose. Sono il simbolo e l’auspicio di un futuro condiviso dopo anni di sofferenze.
RM

Il più grande romanzo mai scritto in irlandese

Avvenire, 14.10.2017

Può apparire paradossale, ma fino a un paio d’anni fa, uno dei più grandi romanzi irlandesi del XX secolo era rimasto inaccessibile al grande pubblico persino in Irlanda. Per un motivo semplice: era stato scritto in gaelico e non era mai stato tradotto in inglese. Nel 1948 Cré Na Cille, capolavoro indiscusso di Máirtin O Cadhain, figura leggendaria tra gli scrittori di lingua irlandese del Novecento, era uscito a puntate sul quotidiano Irish Press e l’anno dopo era stato pubblicato da un piccolo editore di Dublino, divenendo subito un caso letterario nelle aree occidentali dell’isola dove storicamente si concentra il maggior numero di persone che conoscono l’antico idioma dell’Irlanda. Ma divenne presto anche un libro di culto per generazioni di studiosi, che non esitarono a definirlo un capolavoro assoluto paragonabile a classici come Joyce e Beckett, un’opera modernista la cui forma sperimentale è stata incensata per decenni dal mondo accademico e dai più influenti scrittori irlandesi contemporanei, a cominciare da Colm Toibin. Eppure ci sono voluti ben sessantasei anni perché la prima traduzione inglese vedesse finalmente la luce. Un ritardo apparentemente incomprensibile, che qualcuno ha provato a giustificare sostenendo che fosse stato lo stesso O Cadhain – morto nel 1970 – a vietarne la trasposizione. Tuttavia il contratto originario di cessione dei diritti non prevedeva alcuna clausola del genere e indicava invece un compenso per lo scrittore nel caso in cui l’opera fosse stata pubblicata in altre lingue. Ma il timore reverenziale suscitato da quel libro ricco di neologismi coniati dall’autore era cresciuto col trascorrere del tempo, facendo sfumare qualsiasi ipotesi di traduzione. Nessuno sembrava essere all’altezza, o voleva cimentarsi con un’impresa ad alto rischio di insuccesso, che secondo il grande poeta Thomas Kinsella avrebbe richiesto anni di lavoro. Finché qualcosa non si è sbloccato e nel 2015, a distanza di pochi mesi, sono comparse due  traduzioni con titoli diversi. Una firmata dal grande scrittore e drammaturgo Alan Titley, intitolata The Dirty Dust, l’altra tradotta da Tim Robinson e Liam Mac Con Comaire, col titolo Graveyard Clay. A curare la pubblicazione di entrambe non è stato un editore irlandese o britannico, bensì una casa editrice accademica statunitense, la Yale University Press, a riprova del fatto che spesso la letteratura irlandese supera gli angusti confini dell’isola e prende forma oltreoceano, complice anche la presenza della numerosa e influente comunità Irish-American. Due traduzioni molto diverse tra loro, secondo la critica irlandese: quella di Titley che ha colto l’umorismo, l’energia e la carica  rabelaisiana di O Cadhain, mentre quella di Robinson e Mac Con Comaire è apparsa più fedele all’originale. In ogni caso, pur con colpevole ritardo, l’opera di ha trovato una seconda vita che l’ha resa accessibile a un vasto pubblico, promuovendone un’ulteriore diffusione, come dimostra l’opportuna edizione italiana fatta uscire proprio in questi giorni dall’editore Lindau (Parole nella polvere, traduzione di Luisa Anzolin, Laura Macedonio, Vincenzo Perna e Thais Siciliano), e basata proprio sulla seconda trasposizione inglese. Dunque – nonostante il doppio passaggio traduttivo – anche i lettori italiani avranno finalmente la possibilità di conoscere questo romanzo-pietra miliare, la cui trama si svolge interamente sotto terra, in un cimitero di campagna del Connemara, sulla costa ovest dell’Irlanda, al tempo della Seconda guerra mondiale. I personaggi del libro sono tutti morti e sepolti, imprigionati nelle loro bare, non sono spiriti ma essere umani privati di qualsiasi libertà corporea o incorporea, con la sola eccezione della voce. Sono un gruppo di cadaveri chiacchieroni, pettegoli, maligni e vendicativi, che danno vita a una singolare sinfonia di voci e mantengono, anche da morti, i difetti che avevano da vivi schiudendo un mondo rurale fatto di storielle di paese, imicizie e piccole faide familiari. I loro monologhi si trasformano in dialoghi – non a caso il libro divenne una trasmissione radiofonica di successo – e sono animati dai più comuni vizi degli esseri umani come la gelosia e il rancore, indugiano nelle lamentele e nei ricordi personali, oppure tendono alla presa di giro, o agli insulti veri e propri. Alcuni si lanciano in discussioni di politica, o in proclami. Su tutte le voci si erge quella di Caitriona Phaídín, una donna dal carattere infernale che se la prende continuamente con un’assente, sua sorella Nell, che ancora non l’ha raggiunta nell’aldilà ed è colpevole di aver sposato un uomo amato da entrambe. L’inizio del libro la vede scagliarsi eloquentemente contro la taccagneria dei vivi, nel timore di non essere stata sepolta nella parte più importante del cimitero, “Chissà se mi hanno sotterrata nel lotto da un sterlina o in quello da quindici scellini. O il diavolo li avrà convinti a buttarmi nel lotto da mezza ghinea, dopo tutte le mie raccomandazioni”. Caitriona è forse il personaggio centrale di un caleidoscopio di figure del tutto prive di slanci filosofici o spirituali, anche se è in realtà il parlato il protagonista principale di questa favola dall’umorismo nero che ricorda le opere di un altro gigante del modernimo irlandese, Flann O’Brien. Continua a leggere “Il più grande romanzo mai scritto in irlandese”

“La mia lotta in carcere con Bobby Sands”

Intervista a Séanna Walsh (Avvenire, 9.7.2017)

La svolta definitiva verso la pace in Irlanda del Nord arrivò il 28 luglio 2005, quando l’IRA annunciò la fine della lotta armata e l’avvio dello smantellamento del proprio arsenale. Mai prima  d’allora l’esercito repubblicano irlandese aveva fatto leggere un comunicato da un volontario a volto scoperto. Davanti alla telecamera, accanto a un tricolore irlandese, comparve lui: Séanna Walsh, una delle figure più note e rispettate all’interno del movimento repubblicano. Poco meno che cinquantenne, aveva trascorso ventuno anni in carcere, gran parte dei quali nei famigerati blocchi H di Long Kesh dove a partire dalla seconda metà degli anni ’70 si svolsero durissime proteste carcerarie.

Nella foto: Séanna Walsh

Ma soprattutto, Walsh era legato da un’amicizia fraterna con Bobby Sands, il martire irlandese morto il 5 maggio del 1981, dopo 66 giorni di sciopero della fame. L’abbiamo incontrato nelle stanze della City Hall di Belfast, dove oggi lavora come consigliere comunale per il partito repubblicano Sinn Féin, per chiedergli un ricordo di Sands. “Lo vidi per la prima volta nel 1972, avevo solo sedici anni ed ero appena entrato a Long Kesh dopo essere stato catturato durante un’operazione”, ci ha raccontato. “Mi misero in una delle baracche del campo, dov’era rinchiuso anche Bobby. Fu lui a introdurmi in quel mondo. Aveva solo due anni più di me, era estremamente alla mano. Diventammo subito grandi amici e trascorremmo più di tre anni là dentro insieme. Fummo rilasciati entrambi nel 1976, ci ritrovammo nell’IRA in quei pochi mesi che lo videro libero. Finché non ci catturarono di nuovo, io in agosto, Bobby in ottobre. Di fatto siamo rimasti in carcere insieme fino alla sua fine, anche se non nello stesso braccio. Le cose peggiorarono notevolmente quando Londra abolì lo status di prigioniero politico per quelli come noi. Lo scontro carcerario divenne durissimo.
Quando lo vide per l’ultima volta?
Nel settembre 1979, a una visita. Si era tagliato i capelli e la barba, era irriconoscibile. Lo abbracciai e gli augurai buona fortuna. Avevo capito che non l’avrei rivisto mai più.
Cosa ricorda di quei 66 giorni che lo condussero alla morte?
Due settimane dopo l’inizio dello sciopero della fame mi scrisse una lettera segreta nella quale mi confidò di essere molto preoccupato per la sua famiglia, sapeva che stava soffrendo molto a causa della sua decisione di entrare in sciopero ma diceva anche di essere fiducioso di arrivare a un accordo che potesse consentirgli di interrompere la protesta. Era convinto che se lui fosse morto per primo, gli inglesi sarebbero stati costretti a cedere e tutti gli altri avrebbero potuto salvarsi. Sperai con tutto me stesso che avesse ragione, ma purtroppo le cose andarono diversamente.
Non servì a niente neanche farlo eleggere in parlamento proprio durante lo sciopero.
Ricordo quando emerse l’idea di candidarlo alle elezioni supplettive. Fino a quel momento eravamo sempre stati assai sospettosi nei confronti dello strumento elettorale, eravamo convinti che non fossero in grado di cambiare niente. Ma pensai che se fosse stato eletto gli inglesi non avrebbero potuto consentire a un membro del parlamento di morire in quel modo. Mi sbagliavo.
Cos’è cambiato per lei dopo la sua morte?
Quando morì non mi sono permesso di piangere. Diventai ancora più determinato nel voler vedere la fine della presenza britannica in Irlanda. Fui rilasciato dal carcere tre anni dopo, nel 1984. Per prima cosa andai davanti alla sua tomba, al cimitero di Milltown, a giurare che avrei dedicato tutto me stesso al conflitto, fino alla riunificazione del paese e fino alla nascita di una nuova repubblica. Solo allora mi sono permesso di piangere. Nel 1988 fui arrestato di nuovo durante un attacco contro l’esercito britannico. Sono tornato in libertà solo nel settembre 1998, in seguito agli accordi del Venerdì Santo. Porto ancora Bobby nel mio cuore, sarà sempre nei miei ricordi più cari, ma non è il solo motivo per cui sono ancora un repubblicano convinto. Noi ricordiamo i nostri morti, ma continuiamo a lottare per i vivi.
RM

“Storia del conflitto”, una nuova edizione aggiornata

A otto anni esatti dalla prima edizione (luglio 2009) torna finalmente nelle librerie il mio Storia del conflitto anglo-irlandese. Questa nuova ristampa – la terza – si è resa necessaria sia perché le due precedenti sono completamente esaurite da tempo e il libro continua a essere richiesto anche dalle scuole, sia perché a quasi un decennio di distanza il volume aveva inevitabilmente bisogno di un aggiornamento e di alcune piccole modifiche. Oltre alla doverosa revisione, ho aggiunto un nuovo capitolo dal titolo “Pace senza giustizia” che fa il punto sulla situazione attuale delle numerose inchieste concluse o tuttora in corso. Le verità che col tempo sono venute a galla come quella sulla “Glenanne gang” – un gruppo composto da paramilitari lealisti, agenti dello stato britannico e della polizia nordirlandese che mise a segno decine di attentati – hanno aperto grossi interrogativi, anche in ambito giudiziario. La nuova edizione ha anche una nuova copertina.

L’eredità contesa di Bobby Sands

Venerdì di Repubblica, 24.3.2017

Rischia di finire in tribunale l’eredità di Bobby Sands, il simbolo della lotta di liberazione irlandese morto di sciopero della fame in carcere nel 1981. Oggetto del contendere è il controverso ruolo del Bobby Sands Trust, la fondazione controllata dal partito repubblicano Sinn Féin che detiene i diritti d’autore sugli scritti dal carcere di Sands, le testimonianze, le poesie e il toccante diario dei suoi primi diciassette giorni senza cibo. Da anni i familiari di Bobby sostengono che la fondazione lucra sulla sua memoria e utilizza il suo nome a fini commerciali senza avere più alcun titolo per farlo. L’ultimo scontro è nato in seguito alla pubblicazione del graphic novel Bobby Sands. Vita di un eroe di Gerry Hunt, appena tradotta in italiano da Red Star Press. La famiglia ha denunciato di non essere stata consultata durante la realizzazione del libro e ha chiesto lo scioglimento del Trust, accusandolo di voler sfruttare ancora una volta la vicenda a fini di lucro. Al centro del dissidio ci sarebbero perlopiù ragioni politiche. In passato anche Marcella e Bernadette, le sorelle di Bobby, hanno fatto parte del direttivo della fondazione ma negli anni cruciali del processo di pace qualcosa si è rotto poiché, a quanto sostiene la famiglia, il partito che la governa ha abbandonato i principi per i quali loro fratello lottò fino alla morte. Danny Morrison, ex prigioniero ai tempi di Sands e oggi presidente del Trust, ha spiegato che l’ente non ricava alcun profitto dalla biografia a fumetti, né da altre pubblicazioni simili. “Il nostro unico obiettivo – ha ribadito – è rispettare la volontà di Bobby, che in una lettera firmata davanti al suo avvocato poco prima di morire lasciò in eredità i suoi scritti al movimento repubblicano”. Un contenzioso legale potrebbe nascere proprio su quest’ultimo punto: all’epoca quel movimento coincideva infatti con l’IRA mentre la fondazione fu istituita dopo la morte di Sands per raccogliere fondi da destinare ai familiari dei prigionieri. Ma secondo la famiglia oggi i diritti d’autore dovrebbero appartenere a Gerard Sands, unico figlio del leader di quella memorabile protesta carceraria che segnò uno spartiacque nella lotta di liberazione irlandese.
RM

Spoon River d’Irlanda

Reportage dal cimitero cattolico di Milltown, Belfast, uscito su Avvenire il 10 marzo 2017

Bobby Sands e i martiri dell’indipendenza irlandese dormono su una collina che sovrasta il centro di Belfast, in un luogo che anche col trascorrere delle epoche storiche ha mantenuto intatta tutta la sacralità del suo passato. Nel cuore dell’ex ghetto cattolico di Falls road, il quartiere che fu per decenni il crocevia della lotta dell’IRA, si erge silenzioso e imponente il cimitero di Milltown. L’area che lo circonda è diventata ormai un percorso turistico e talvolta si stenta quasi a riconoscerla. La gigantesca stazione di polizia che ai tempi del conflitto incombeva sull’ingresso della necropoli con il suo massiccio apparato di sistemi di sicurezza è stata demolita alcuni anni fa: tonnellate di cemento e lamiera sono state rimosse per lasciare spazio a una piccola piazza, all’angolo con Springfield road. Sull’altro lato della strada le enormi volumetrie di una catena di supermercati inglesi hanno affiancato impietosamente quell’antologia di lapidi e croci celtiche, e le sue insegne luminose oscurano con irriverenza la prospettiva del cimitero.
Fin dagli anni ’20, le strade circostanti sono state teatro dei brutali pogrom anticattolici che alcuni decenni più tardi avrebbero innescato gli scontri culminati nei cosiddetti Troubles e nella fase moderna del conflitto anglo-irlandese. Milltown non è semplicemente un luogo della memoria, del silenzio e della preghiera, perché nelle sue pietre raccoglie oltre due secoli di storia della causa indipendentista irlandese. Nessun cimitero in tutta l’Irlanda – neanche il monumentale Glasnevin di Dublino – può annoverare al suo interno un numero così grande di caduti per la libertà del paese. Nel 1869 Patrick Dorrian, vescovo di Down e Connor, investì poco più di quattromila sterline per acquisire ventidue ettari di terreno sui quali fece realizzare un cimitero che, contrariamente al vicino City cemetery, doveva essere destinato esclusivamente alla sepoltura dei cattolici. Le tombe che ospita oggi sono circa 200mila, e tra queste soltanto una appartiene a un protestante: James Moore Neeley Hunter, un carpentiere navale morto nel 1954 all’età di 75 anni, sposato con una donna cattolica.

A Milltown si accede varcando il grande arco triangolare in pietra che segna l’ingresso principale, su Falls road, e percorrendo i viali che digradano giù verso l’autostrada e il centro cittadino. Curiosamente, sono poche le tombe risalenti alle due guerre mondiale – in totale centocinquanta – e l’unico monumento di rilievo è quello eretto a ricordo delle vittime non identificate del blitz dell’aviazione nazista che distrusse Belfast nella primavera del 1941. Basta spingersi poche centinaia di metri oltre l’ingresso per ritrovarsi nei cosiddetti poor ground, i prati dove sono state inumate decine di migliaia di vittime dell’influenza spagnola che flagellò l’Europa nel 1918 e solo a Belfast causò la morte di quasi ottantamila persone. I loro corpi giacciono anonimi in una zona che è quasi un’immensa fossa comune. Poco più avanti inizia il pantheon dei martiri della causa repubblicana indipendentista, disseminato in più aree non distanti tra loro. Il primo Republican Plot, dedicato alla memoria del feniano William Harbinson, morto nel 1867, ospita i resti di alcuni dei più noti caduti dell’IRA degli anni ’20, tra i quali spiccano Liam Mellows e Rory O’Connor, fucilati dalle truppe governative irlandesi durante la guerra civile nel 1922. Percorrendo sentieri costellati di lapidi e croci celtiche, ci si imbatte in un grande memoriale nero restaurato di recente che rappresenta un tributo ai caduti repubblicani della Contea di Antrim, dalla rivolta del 1798 ai giorni nostri. Più avanti, una stele nera segnata dal tempo ricorda Winifred Carney, una delle più grandi figure femminili della Rivolta di Pasqua del 1916. Fu la più stretta collaboratrice del leader socialista James Connolly, nonché l’unica donna che combatté con i rivoltosi asserragliati nell’edificio delle Poste Centrali di Dublino. Centinaia di cattolici caduti durante il conflitto e di volontari dell’IRA sono sepolti nelle rispettive tombe di famiglia. Tra questi c’è anche Tom Williams, uno dei più importanti martiri della storia repubblicana, impiccato ad appena diciotto anni nel 1942 per aver preso parte all’attentato contro un poliziotto. I suoi resti sono stati traslati a Milltown soltanto nel 2000, dopo essere rimasti per decenni nel vecchio carcere cittadino di Crumlin road, ormai chiuso. Tra i testimoni illustri della complessità del passato irlandese ci sono religiosi che hanno scritto la storia della comunità cattolica di Belfast dalla fine del XIX secolo. In uno spazio dedicato ai padri redentoristi riposa da tre anni Alec Reid, figura di spicco del processo di pace, che rese il vicino monastero di Clonard uno dei simboli del dialogo negli anni più cupi del conflitto. Bobby Sands è sepolto nel cosiddetto New Republican Plot, un vialetto circoscritto da un piccolo muro e costellato di lapidi ornate da corone di fiori e sormontato da un monumento sul quale sventola il tricolore irlandese. Il suo nome è iscritto su una lapide di marmo nero insieme a quello di Joe McDonnell (il compagno che prese il suo posto nello sciopero della fame del 1981 e morì qualche settimana dopo di lui) e Terence O’Neill. Purtroppo la sua tomba viene periodicamente profanata e sfregiata da attacchi che confermano quanto certe ferite siano ancora aperte e al tempo stesso ne riconoscono, implicitamente, l’importanza storica. Nel 2004 fu addirittura distrutta da un blitz dei fanatici orangisti, mentre l’ultimo oltraggio risale all’estate scorsa, e vide tutta l’area circostante imbrattata con graffiti e slogan neonazisti. Ma il fatto più tragico avvenne il 16 marzo 1988, quando il cimitero divenne teatro di una strage. Durante i funerali di tre volontari dell’IRA uccisi a Gibilterra dalle forze di sicurezza britanniche, Michael Stone, militante del gruppo paramilitare lealista Ulster Defence Association attaccò la folla a colpi di granate e fucilate, a pochi passi dalla tomba di Bobby Sands. Uccise tre persone e ne ferì una quarantina prima di sfuggire al linciaggio grazie all’intervento di una pattuglia della polizia. L’agghiacciante sequenza, ripresa dalle televisioni, è tristemente passata alla storia come uno dei fatti più tragici avvenuti negli ultimi anni del conflitto.
RM

Bobby Sands, l’internazionalismo inciso sul corpo

La recensione uscita ieri sul Manifesto del mio “Bobby Sands. Un’utopia irlandese”, a firma di Enrico Terrinoni, traduttore di Joyce e docente di letteratura inglese all’Università di Perugia.

«Di tutti i rivoluzionari irlandesi del passato che avevi imparato a conoscere in carcere, era quello che ammiravi di più. Per le sue idee, per il suo coraggio, per il sacrificio che mezzo secolo prima l’aveva visto cadere, abbattuto da un plotone di esecuzione nei giorni della guerra civile. Aveva ventisette anni, gli stessi che avevi tu, quando il tuo corpo si spense per sempre dopo quei sessantasei giorni di agonia. Chissà se avresti mai immaginato di ritrovarti al suo fianco tra i martiri repubblicani del cimitero di Milltown».
Pochi studiosi possono permettersi di dare del tu a Bobby Sands. Riccardo Michelucci è uno di questi. Già autore di una imprescindibile storia del conflitto anglo-irlandese, pubblica in questi giorni, per la collana «Sorbonne» delle Edizioni Clichy, Bobby Sands, un’utopia irlandese (p. 117, euro 7,90).
È un libro composito. Al suo nucleo e cuore, un monologo drammatico già perfetto per il palcoscenico che ripercorre l’esistenza di Sands, affianca pagine di puntuale biografia, a stralci dagli scritti di questo rivoluzionario che fu anche poeta, e a significative foto di quel conflitto che in tanti vogliono dimenticato.
Michelucci non è solo un attento osservatore della situazione in Irlanda del Nord. A Belfast e dintorni è addirittura di casa: «Oggi stenteresti a riconoscerla, Falls Road, il luogo che più di ogni altro fu il crocevia della vostra lotta. C’è chi dice che quegli odierni simboli del benessere rappresentino la svendita dei vostri ideali. Forse è davvero così, ma mi conforta sapere che quando torno a Belfast ci sei tu ad accogliermi con quel sorriso senza tempo, a indirizzare in uno spazio fisico la geografia della memoria che mescola le emozioni del presente con quelle del passato».
Sono parole vere più che mai oggi, in un momento storico in cui l’ebbrezza economica di parti dell’isola stona ancor di più con la situazione delle periferie dell’ultima colonia d’Europa, dove il tasso di disoccupazione è il più alto della Gran Bretagna.
A Derry, seconda città dell’Irlanda del Nord, spetta persino il primato doppio della disoccupazione giovanile e dei suicidi.
È certo un tradimento degli ideali di Sands, che a muso duro aveva dichiarato: «Non mi fermerò finché non raggiungerò la liberazione della mia nazione, finché l’Irlanda non diventerà una repubblica socialista, sovrana e indipendente».
Bobby non fu il primo né l’ultimo dei socialisti che hanno sperato di poter fondere le lotte di autodeterminazione con la speranza di un futuro di uguaglianza. Si muoveva sul solco di James Connolly, per cui la causa del lavoro e quella della nazione erano un tutt’uno. Ma anche di Wolfe Tone, che come ricorda Michelucci, aveva giurato, duecento anni prima di «rovesciare il dominio inglese in Irlanda», a due passi dalla prima casa di Sands.
Ma Wolfe Tone aveva anche lottato per una repubblica di people of no property, iscrivendo così sin dai suoi albori il repubblicanesimo nel novero delle lotte che oggi chiameremmo anticapitaliste.
In carcere, il giovanissimo Bobby si formò agli scritti di Marx, Fanon, Connolly e Guevara, e mai scinderà il suo impegno per il proprio popolo da una visione socialista e internazionalista del mondo. Un retaggio per fortuna sopravvissuto in scenari in cui il repubblicanesimo contemporaneo si muove quasi esclusivamente a sinistra dei conservatorismi bigotti.
Bobby Sands iniziò lo sciopero della fame il 1 marzo del 1981, e la sua esistenza si concluderà il 5 maggio. Un sacrificio, il suo, che ancora riecheggia tra le strade di Belfast, sui cui murales spesso campeggia la scritta, improntata a un eroico ottimismo della volontà, «la nostra vendetta sarà il sorriso dei nostri bambini». Una certezza grazie a cui Bobby e i nove compagni morti dopo di lui hanno saputo resistere a condizioni disumane, volute da apparati di una delle più antiche democrazie del mondo: «Quanto dolore per quelle madri che venivano a farvi visita e scoppiavano a piangere vedendovi ridotti a cadaveri ambulanti, con i capelli e la barba lunga, avvolti in quelle luride coperte. Ma il vostro fisico scheletrico e segnato dalle percosse mascherava in realtà la superiorità morale degli oppressi, la furia del pensiero indomabile di chi lotta per la giustizia».

(Enrico Terrinoni, da “Il Manifesto”, 1.3.2017)

Una spia di origine italiana a Belfast

Venerdì di Repubblica, 13.1.2017

“Quando chi fa le leggi è anche colui che le infrange, non esiste più legge”: una scritta a caratteri cubitali sulle mura di Derry, cittadina martire dell’Irlanda del Nord, esprime con eloquenza lo scontento della popolazione dopo quasi vent’anni di pace senza giustizia. Dalla firma degli Accordi del Venerdì Santo nel 1998 lo stato britannico resta ancora sotto accusa per la cosiddetta ‘guerra sporca’, una prassi sistematica di collusione ad altissimo livello che per anni ha visto le sue forze di sicurezza alleate con i gruppi paramilitari protestanti e coinvolte in omicidi settari e operazioni sotto copertura contro i civili. Uno scandalo più grande e diffuso della Bloody Sunday, la strage compiuta dall’esercito inglese nel 1972, sulla quale un’inchiesta lunga dodici anni ha già stabilito come andarono le cose, pur senza punire i colpevoli. Proprio sulla falsariga di quell’inchiesta è appena cominciata l’“Operation Kenova”, un’indagine giudiziaria che intende far luce sul ruolo dell’esercito, dei servizi segreti MI5 e della squadra politica della polizia nordirlandese nell’omicidio di decine di sospetti informatori. La figura-chiave sulla quale un gruppo di esperti britannici e internazionali è chiamato a indagare è l’agente soprannominato “Stakeknife”, da anni noto come la più importante spia infiltrata dall’esercito all’interno dell’IRA, ritenuto responsabile della morte di almeno una cinquantina di persone e pagato 80.000 sterline l’anno dal governo su un conto bancario segreto a Gibilterra. La sua identità è stata rivelata alcuni anni fa da fonti molto attendibili: si tratterebbe di Alfredo “Freddie” Scappaticci, ormai ultrasettantenne, originario di una famiglia italiana immigrata a Belfast nel Dopoguerra, per anni internato nel carcere di Long Kesh prima che il Consiglio militare dell’IRA lo mettesse a capo di una squadra speciale incaricata di eliminare i presunti informatori.

Nella foto: Freddie Scappaticci
Nella foto: Freddie Scappaticci

Un uomo violento e senza scrupoli che agiva da giudice, da giuria e da carnefice determinando la vita o la morte di decine di persone spesso innocenti, e che per almeno quindici anni sarebbe stato anche il collaboratore più prezioso dell’esercito britannico, tanto che il generale John Wilsey, ufficiale in comando in Irlanda quegli anni, l’ha definito “una gallina dalle uova d’oro”. Dopo aver negato con forza ogni accusa, Scappaticci ha fatto perdere le sue tracce, sapendo di rischiare non tanto il carcere quanto l’ineluttabile vendetta dei suoi ex compagni. Molti ritengono che sia già morto, altri sostengono invece che viva in Italia, dalle parti di Cassino, ormai irriconoscibile grazie a una plastica facciale.
L’indagine che lo riguarda durerà almeno cinque anni e sarà guidata da Jon Boutcher, capo della polizia del Bedfordshire, che ha già reso nota l’esistenza di nuove prove. Se andrà a buon fine scoprirà finalmente il vaso di Pandora sulla ‘guerra sporca’ accertando quanti e quali crimini sono stati compiuti dai membri dell’esercito e dei servizi di sicurezza collusi con i paramilitari protestanti. La ricercatrice Anne Cadwallader del Pat Finucane Centre, un’ong irlandese che si batte per i diritti umani, si dice fiduciosa. Molto più scettico è invece Ed Moloney, veterano dei giornalisti investigativi irlandesi: “l’inchiesta rischia di scoprire fatti talmente sensibili che non potranno essere resi pubblici, e i suoi esiti saranno secretati com’è già accaduto in passato”.
RM