Il negazionismo alla fiera del libro di Belgrado

Non fossero bastate le polemiche dopo il premio Nobel assegnato a Peter Handke – criticato per le sue conclamate simpatie nei confronti del regime di Milosevic – il revisionismo storico sulle guerre balcaniche ha trovato ampio spazio anche all’ultima fiera del libro di Belgrado, conclusasi qualche giorno fa. Giunto alla 64esima edizione, il prestigioso appuntamento culturale della capitale serba ha ospitato anche quest’anno lo stand del governo della Republika Srpska, una delle due entità politiche della Bosnia-Erzegovina, nel quale è stato esposto orgogliosamente un libro dal titolo Srebrenica-stvarnosti i manipulacije (“Srebrenica. Realtà e manipolazioni”). Trattasi di un ponderoso volume di oltre ottocento pagine che raccoglie gli scritti di una cinquantina di autori – storici, studiosi, giornalisti ma anche politici e militari – con l’obiettivo dichiarato di “smontare il mito del genocidio e dei crimini serbi a Srebrenica”. Una vera e propria offensiva negazionista finanziata con soldi pubblici e stampata sia in serbo che in inglese. Per presentarla al pubblico della fiera sono intervenuti il curatore del libro, il colonnello Milovan Milutinovic, capo del servizio informazioni dello Stato Maggiore dell’esercito della Republika Srpska, e la ministra dell’istruzione e della cultura dell’entità serbo-bosniaca, Natalija Trivić. Il folto gruppo di autori del volume è allineato in un coro unanime di condanna nei confronti del Tribunale Internazionale per i crimini dell’ex-Jugoslavia. I più accaniti appaiono proprio gli ex militari, alcuni dei quali arrivano a negare che a Sarajevo e a Srebrenica siano stati commessi crimini di guerra, ipotizzando l’esistenza di un complotto internazionale contro il popolo serbo.
La Republika Srpska non è certo nuova a iniziative simili, dal chiaro intento revisionista. Nei mesi scorsi ha nominato due commissioni internazionali per provare a riscrivere la storia delle guerre degli anni ‘90, poi ha finanziato un convegno all’università di Banja Luka per contestare le sentenze del tribunale dell’Aja. D’altra parte sono le stesse posizioni che ribadisce da sempre anche Milorad Dodik, l’ex presidente della Republika Srpska e attuale membro della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina. Quello che stupisce è semmai l’atteggiamento del governo di Belgrado, che almeno in anni recenti era apparso assai più cauto su questi temi. In un altro padiglione della fiera del libro della capitale serba – quello del Ministero della Difesa – è stato presentato con tutti gli onori il libro di memorie del generale Nebojsa Pavkovic, già comandante della Terza Armata dell’esercito serbo durante la guerra del Kosovo, attualmente in carcere con una condanna a 22 anni per crimini contro l’umanità. Lo stesso stand ha poi ospitato un dibattito cui ha preso parte Vinko Pandurevic, uno degli alti ufficiali serbi condannati per il genocidio di Srebrenica, rilasciato nel 2015 dopo aver scontato tredici anni di carcere. Alcuni giorni dopo è stato presentato infine un libro che nega le responsabilità serbe in uno dei più feroci e insensati massacri degli ultimi giorni della guerra: la strage di Tuzla del 25 maggio 1995, nella quale persero la vita 71 persone. La verità giudiziaria da contraddire, stavolta, non era quella dell’Aja ma quella dei giudici di una Corte territoriale bosniaca. La sensazione è che, nonostante il trascorrere del tempo, creare una memoria condivisa sui conflitti etnici che hanno insanguinato i Balcani negli anni ‘90 sia sempre più un’utopia.
RM

Jovan Divjak, eroe di guerra e di…dopoguerra

Avvenire, 5 gennaio 2019

“Quando capii quali erano le intenzioni di Karadžić decisi di restare a Sarajevo per difendere le vite dei miei concittadini e per cercare di salvare l’ideale del multiculturalismo”. Dopo essere stato un eroe di guerra, Jovan Divjak è oggi un ex soldato che da anni lavora per la pace, aiutando le nuove generazioni nate e cresciute al tempo della mattanza bosniaca. Nel 1994, a guerra ancora in corso, ha fondato Obrazovanje Gradi BiH (L’educazione costruisce la Bosnia-Erzegovina), l’associazione con la quale è riuscito a dare un futuro a molti bambini e ragazzi orfani. A Sarajevo Divjak è una figura quasi leggendaria: è stato lui a organizzare e a guidare la difesa della città durante il lungo assedio degli anni ‘90. Di origini serbe, figlio di un insegnante elementare, in gioventù ha fatto parte del gruppo di ufficiali della guardia personale di Tito. Poi entrò nella difesa territoriale della Bosnia-Erzegovina fino a raggiungere il grado di generale ma nel 1992, all’inizio della guerra, disattese i comandi e lasciò l’esercito jugoslavo per schierarsi dalla parte della popolazione di Sarajevo. Da allora la Serbia lo considera un traditore. Oggi è un ottantenne che ci accoglie in jeans e camicia a quadri nell’ufficio della sua associazione, una piccola palazzina alla periferia di Sarajevo. Le pareti della stanza color giallo ocra, sulla scrivania alcune foto lo ritraggono in divisa militare. Altre appese al muro raccontano invece il suo lungo impegno umanitario. In una di esse c’è lui che tiene in braccio un bambino piccolo, sullo sfondo di un muro crivellato dai colpi. “Questa foto è un po’ il simbolo della nostra associazione”, ci spiega. “Rappresenta la tragedia ma anche la speranza per il nostro paese”. Ci racconta che il 10 giugno del 1992 due fratelli adolescenti rimasero uccisi da una granata e lui dovette portare le condoglianze alla madre. Tre anni dopo quella donna, Halida, bussò al suo ufficio e gli chiese di fare da padrino al figlio che avrebbe partorito di lì a poco. Quel bambino si chiama Muhammed, oggi ha 23 anni ed è iscritto al quarto anno di giurisprudenza. Dalla fine della guerra migliaia di giovani come lui sono stati aiutati dall’associazione dell’ex generale, il cui obiettivo è quello di favorire l’inserimento dei bambini orfani o disagiati nei percorsi scolastici. “Tutti i bambini, a prescindere dalla loro nazionalità, etnia o religione”, tiene a precisare lui. In venticinque anni d’attività l’associazione ha stanziato tre milioni di euro aiutando quasi settemila borsisti in tutto il paese. Ha distribuito materiale scolastico, cibo, vestiario e medicine. Ha organizzato campi estivi che si sono trasformati in straordinari momenti di condivisione per ragazzi serbi, croati, musulmani e rom. Centinaia dei “suoi” ragazzi sono riusciti in questi anni a laurearsi e a trovare un lavoro.
Durante la guerra lei avrebbe potuto andarsene dalla città sotto assedio e mettersi al sicuro. Perché decise invece di restare?
Perché Sarajevo è la mia vita. L’ambasciatore statunitense poteva aiutarmi a lasciare la città, anche un generale britannico mi offrì un salvacondotto. Ma io rifiutai perché qui, tra i miei soldati e la mia gente, mi sentivo al sicuro. È strano a dirsi ma durante la guerra non avevo paura mentre ne ho tanta adesso, se ripenso a quegli anni.
Sarajevo ha subito il più lungo assedio militare della storia moderna, un inferno durato quasi quattro anni. Come avete fatto a resistere così a lungo?
Per molte ragioni. Innanzitutto a Belgrado dettero per scontato che tutti i serbi residenti in città, che all’epoca erano un terzo della popolazione, avrebbero abbandonato Sarajevo. Al contrario molti serbi si unirono alla resistenza. E poi chi ci attaccò fece l’errore di sottovalutare le nostre capacità difensive. Radovan Karadžić, che all’epoca comandava l’esercito serbo-bosniaco, affermò che i suoi uomini avrebbero conquistato Sarajevo in una settimana e il resto della Bosnia in un mese.
Eppure il rapporto di forze era del tutto squilibrato. Il vostro esercito aveva equipaggiamenti scarsi e antiquati, mentre i serbi disponevano delle armi del potente esercito federale jugoslavo e tenevano sotto controllo Sarajevo dall’alto. Perché non riuscirono mai a entrare in città e a occuparla?
Perché noi eravamo comunque più numerosi. Assediare e bombardare una città dalla mattina alla sera è cosa assai diversa dall’occuparla. Gli Stati Uniti ne sanno qualcosa, basti pensare all’Iraq. I serbi sapevano che avrebbero pagato un prezzo molto alto in una battaglia per le strade e cercarono in tutti i modi di costringerci alla resa.
Si sente dire spesso che a salvare Sarajevo fu innanzitutto il carattere dei suoi abitanti.
Fu proprio così. I sarajevesi non si limitarono a difendere la propria città ma anche un’idea di convivenza che qui si respira da sempre. Chi è moralmente determinato a difendersi è più forte di chi attacca. Gli uomini hanno difeso la città ma sono state le donne a salvarla, lo dico senza alcuna retorica. Nonostante tutto ebbero il coraggio di far nascere i bambini in quell’inferno, di lavorare negli ospedali, di mandare avanti le scuole. Mentre i mariti e i figli erano al fronte, furono loro a custodire la voglia di vivere di questa città.
Eppure, anche a tanti anni di distanza, la Bosnia porta ancora addosso le cicatrici di quella guerra, è un paese diviso, che vive uno stallo politico perenne. Perchè?
Purtroppo i partiti nazionalisti continuano a manipolare la gente cercando di metterci gli uni contro gli altri. Ma il vero oppio delle nuove generazioni è l’attuale sistema educativo, che alimenta la frammentazione etnica di questo paese. Si studiano tre storie, tre geografie e tre lingue, in base alle diverse nazionalità. Negli ultimi anni ogni tentativo di varare testi che includessero il punto di vista degli altri è sistematicamente fallito e nei dodici distretti in cui oggi è divisa la Bosnia si adottano dodici programmi scolastici differenti.
Qual è il bilancio dei primi 25 anni di attività della sua associazione?
Grazie a tanti amici, volontari e sostenitori continuiamo a essere un punto di riferimento quotidiano per gli orfani di guerra, per i bambini svantaggiati e per quelli vittime di razzismo. Mi riferisco in particolare alla minoranza di etnia rom cui viene negata la cittadinanza. Abbiamo erogato migliaia di borse di studio senza ricevere alcun aiuto governativo. Ci siamo sempre autofinanziati con l’associazionismo e con il sostegno e la collaborazione di tante organizzazioni umanitarie di tutta Europa.
RM

Del Ponte: “giustizia per le vittime in Siria”

Left, 28.12.2018

Da almeno vent’anni Carla Del Ponte è il terrore dei governanti e dei capi di stato chiamati a rispondere davanti ai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità. La donna che ha portato alla sbarra Milosevic e Karadzic, nonché i principali responsabili del genocidio del Ruanda. Ma dopo aver trascorso gran parte della sua lunga carriera dando la caccia ai criminali di guerra, persino lei ha dovuto alzare bandiera bianca di fronte ai massacri compiuti in Siria. Un anno fa la magistrata ticinese ha lasciato polemicamente la Commissione d’inchiesta Onu sui crimini siriani. Si è ritirata dalla scena lanciando un duro atto d’accusa nei confronti della comunità internazionale. “È una vergogna”, ci dice quando la raggiungiamo al telefono nella sua natia Svizzera. “Avevamo trovato prove a sufficienza per condannare Assad e i suoi gerarchi, ma anche i ribelli che si erano resi colpevoli di gravi crimini. Per cinque anni ho provato a convincere il Consiglio di Sicurezza a istituire un tribunale per la Siria sulla falsariga di quelli per l’ex Jugoslavia e il Ruanda. Purtroppo è sempre mancata la volontà politica per farlo”. L’accusa di Del Ponte – circostanziata nel suo nuovo libro Gli impuniti (Sperling&Kupfer) – è rivolta in particolare nei confronti di Mosca per aver sempre esercitato il diritto di veto, bloccando le risoluzioni presentate al Consiglio di Sicurezza che chiedevano la creazione di un tribunale ad hoc sul modello di quello da lei presieduto sull’ex Jugoslavia. Eppure all’inizio sembrava che ottenere giustizia per le vittime fosse un obiettivo ragionevolmente possibile. Nel 2011 il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu aveva istituito una commissione d’inchiesta sulla Siria e aveva chiamato la stessa Del Ponte a farne parte per accertare le violazioni, stabilire l’entità dei crimini e arrestare i responsabili. Un incarico che doveva durare pochi mesi e invece si è protratto per sei anni. Fino al 2017, quando Del Ponte ha deciso di andarsene sbattendo la porta.
Quando si è accorta che mancava la volontà politica di fare giustizia in Siria?
Molto presto. Ma non è nel mio carattere arrendermi facilmente e allora ho deciso di restare per cercare di cambiare le cose dall’interno. In tanti anni di attività non ho mai visto una ferocia simile in un conflitto. Bambini torturati e uccisi, raid aerei che colpivano gli ospedali, bombe lanciate sulle persone in fila per il pane. Un orrore indicibile e documentato. I crimini erano così tanti e così gravi che continuavo a sperare che i nostri rapporti avrebbero infine smosso la politica. Per quasi sei anni mi sono impegnata in questo senso, non è stato possibile e allora non potevo far altro che andarmene. Spero che altri riescano laddove io non sono riuscita.
È ormai trascorso più di un anno dalle sue dimissioni dalla Commissione per la Siria. Da allora ha visto qualche cambiamento?
No. Sotto il profilo della giustizia non è cambiato niente. Continua a non esserci la volontà politica di istituire un tribunale che si occupi di quei crimini. La commissione esiste ancora ma non ha più alcuna efficacia. Rappresenta soltanto un alibi per la comunità internazionale, che attraverso di essa vuole far credere che sta facendo qualcosa. Ma in realtà non sta facendo niente. Gli sviluppi, in prospettiva, potrebbero esserci almeno dal punto di vista politico. È possibile che si arrivi finalmente alla pace, poiché il presidente Assad sta riconquistando tutto il territorio del paese. Ma mi domando fino a quando durerà. E purtroppo sono certa che le vittime non otterrano alcuna giustizia. Una pace che non affronta il problema della giustizia sarà sempre una pace fragile. Molto fragile.
Alcuni mesi fa però la Germania ha spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti di Jamil Hassan, una figura-chiave della repressione del regime, accusandolo di crimini contro l’umanità. Può essere il segnale che qualcosa sta finalmente cambiando?
È stato senz’altro un fatto positivo. Almeno qualcuno cerca di fare qualcosa di concreto, ma purtroppo sappiamo già che Hassan non sarà mai né arrestato, né processato per l’iniziativa di un singolo stato straniero.
Eppure i colpevoli hanno nomi e cognomi. La Commissione di cui lei ha fatto parte ha consegnato all’Alto Commissariato dell’ONU una lista che indica almeno un centinaio di criminali di guerra.
Gli impuniti di cui parlo nel libro sono tantissimi, quella lista non pretende certo di essere esaustiva. Il maggior responsabile dei crimini è il presidente della Siria, Assad. Ma abbiamo riscontrato gravi e ripeture violazioni del diritto internazionale da entrambe le parti. Sia le forze governative che i ribelli hanno per esempio fatto uso di armi chimiche. I casi accertati sono almeno ventisette. Abbiamo fornito le prove ma non basta: ci vuole un ufficio del Procuratore che possa terminare le inchieste, che formuli le accuse e soprattutto alla fine emetta i mandati d’arresto internazionali.
Perché nonostante tutto conclude il suo libro affermando che Assad verrà condannato all’ergastolo?
Volevo chiuderlo con una speranza. Non posso assolutamente accettare di aver lavorato oltre otto anni, e con successo, nei tribunali internazionali e dovermi adesso convincere che è stato tutto invano. Che adesso si torna indietro. Allora resto dell’idea che un giorno o l’altro qualcuno dovrà rispondere dei gravissimi crimini commessi in Siria. Sono i passi avanti compiuti dal diritto internazionale a 70 anni dall’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani a fornirmi questa speranza.
Il suo libro contiene un’accusa anche nei confronti dell’UE per come ha gestito la questione dei profughi.
Sì, ritengo vergognoso il fatto che l’UE non sia mai riuscita a trovare un accordo tra gli stati membri. Che ogni stato abbia deciso cosa fare per conto suo. È vergognoso anche perché i profughi non resteranno per sempre dispersi in Europa ma al momento opportuno torneranno a casa loro. Tutti i siriani con i quali ho parlato non aspettano altro che il momento di fare ritorno nel loro paese.
Anche dopo il caso siriano la sua fiducia nei confronti dei meccanismi di giustizia internazionale resta immutata?
Assolutamente sì. Riconosco che il momento sia delicato, poiché dopo i buoni risultati ottenuti con i tribunali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda adesso dobbiamo purtroppo registrare un passo indietro. Non solo in Siria, ma anche in Myanmar e in Yemen. Ma lo sapevamo fin dall’inizio: la giustizia internazionale funziona soltanto se sono gli stati a volerlo.
RM

Sarajevo, la rinascita è salita in funivia

Avvenire, 26.10.2018

Da lassù, Sarajevo sembra un’astronave sospesa tra le nuvole. È una vista che toglie il fiato, circondata da una natura rigogliosa e selvaggia. Sulle pendici del monte Trebević sono ormai tornati anche gli uccelli. Erano stati i primi a scappare, nell’aprile del 1992, quando l’armata serbo-bosniaca cominciò ad assediare la città da queste alture. Da pochi mesi anche gli abitanti si sono finalmente riappropriati della montagna sacra che venne trasformata in parco naturale dal Maresciallo Tito, che ospitò alcuni impianti delle Olimpiadi invernali del 1984 e poi divenne un simbolo di morte poiché da lì, per oltre quattro anni, piovvero le granate e i colpi dei cecchini. Prima che si scatenasse l’inferno, la salita al monte Trebević con la Žičara, la funivia che partiva dal centro cittadino, era la gita fuori porta preferita dai sarajevesi, un luogo di incontro amato dalle famiglie, un filo teso verso il cielo che consentiva di volare a 1200 metri sopra il livello del mare. Finché la guerra non cambiò tutto, trasformando la montagna sacra in un luogo maledetto popolato dai fantasmi. Mentre preparavano l’assedio della città, le truppe di Ratko Mladić distrussero la Žičara e uccisero senza pietà Ramo Biber, il giovane guardiano dell’impianto, destinato a passare alla storia come una delle prime vittime del conflitto. Poi le milizie serbo-bosniache occuparono la montagna e di lì a poco su quel territorio impervio e fitto di vegetazione fu insediata la prima linea del fronte, che in alcuni punti arrivava a ridosso delle case della città. La strada che risaliva il Trebević venne interrotta dai check-point dell’armata bosniaca e da quelli serbi, che impedivano persino il passaggio dei convogli umanitari diretti alla popolazione assediata. Finito il conflitto nel 1995, la priorità fu data alla ricostruzione di ospedali, scuole, edifici pubblici e luoghi di culto. Ma ciò non basta a spiegare un ritardo di oltre vent’anni per veder tornare in funzione la funivia. Più dei soldi è mancata a lungo la volontà politica di ricostruire un simbolo dell’unità cittadina, un tracciato che segna la linea di confine fra le due entità che compongono la Bosnia nata dagli accordi di pace di Dayton. Da un lato la Federazione di Bosnia-Erzegovina, dall’altro la Republika Srpska, l’area serbo-bosniaca in cui si trova la montagna. Sulle pendici del Trebević si trova anche la fossa comune di Kazani, dove i paramilitari bosniaci gettarono decine di civili, in gran parte serbi. Nel 2008 un’associazione di Belgrado cercò a tutti i costi di issare sulla cima del monte una gigantesca croce ortodossa alta ventisei metri. Doveva essere visibile da qualsiasi punto di Sarajevo, come quella eretta dai croati sul monte Hum, che sovrasta la città di Mostar. Il progetto suscitò forti proteste e venne infine accantonato in seguito all’intervento dell’Alto Rappresentante della comunità internazionale.
Ci sono voluti ventisei anni esatti dall’inizio della guerra, per rivedere finalmente la Žičara nel cielo di Sarajevo. Se dalla primavera scorsa è finalmente possibile tornare in cima al Trebević in pochi minuti gran parte del merito è di Edmond Offermann, un fisico nucleare olandese sposato con una donna di Sarajevo che ha donato quattro milioni di euro per contribuire alla ricostruzione dell’impianto. La nuovissima e luccicante funivia è stata progettata dall’architetto Mufid Garibija e realizzata dall’azienda altoatesina Leitner, ha trentatré cabine con dieci posti ciascuna che consentono di risalire la montagna dal centro città in appena sette minuti. Alla stazione di partenza è stata collocata una delle vecchie cabine dell’epoca, un monumento alla memoria di un recente passato che tutti qua ricordano con nostalgia. È rossa, ha ancora i simboli olimpici sui lati e colpisce per le sue piccole dimensioni. La salita è spettacolare, e per apprezzarla fino in fondo è necessario dare le spalle alla montagna. Appena partiti, volgendo lo sguardo di là dal fiume, si scorge l’inconfondibile profilo moresco color giallo-ocra della biblioteca nazionale, la Vijećnica, che fu bruciata durante la guerra e nel 2014 è stata riaperta per ospitare l’amministrazione cittadina. Poi la città si allontana assumendo contorni rarefatti e sfumati dalla fitta coltre di nebbia che la avvolge intorno al calar del sole. La stazione di arrivo è intitolata a Ramo Biber, come ricorda una targa alla sua memoria. La discesa dalla funivia è un brusco ritorno alla realtà, perché tutto intorno non c’è quasi niente. Per affacciarsi sulla città e scattare una foto ricordo c’è al momento solo una grande spianata di cemento grezzo. Gli anziani sarajevesi raccontano che in un tempo non troppo lontano lassù c’era il Vidikovac (Belvedere), un ristorante che prima della guerra era considerato ancora tra i migliori del paese. D’estate si cenava in terrazza all’aria aperta, contemplando le luci della città che sembravano stelle cadute dal cielo. Imboccando il sentiero che scende a valle ci si addentra velocemente nel bosco, dove sono ancora visibili i segni delle trincee e dei bunker antiaerei scavati un quarto di secolo fa. Le massicce operazioni di sminamento compiute in anni recenti consentono ormai di attraversare senza patemi quello che durante la guerra era stato trasformato in un gigantesco campo minato. Non lontano dai piloni della funivia, nascosti in mezzo agli alberi, spuntano quasi all’improvviso i resti della vecchia pista da bob usata durante le Olimpiadi del 1984. È un grigio binario di cemento ravvivato dai graffiti degli artisti di strada che oggi viene a volte usato dagli skaters. In alcuni punti si notano ancora i fori praticati ad altezza d’uomo, dai quali durante la guerra venivano fatte passare le canne delle mitragliatrici. Ma dall’altro lato della montagna è possibile imbattersi anche nelle piste da sci della Jahorina, tuttora funzionanti. Il trascorrere del tempo sta aiutando Sarajevo a lasciarsi alle spalle i ricordi terribili, e mentre gli abitanti riprendono confidenza con il loro immenso parco, a valle aprono caffetterie e ristoranti, le case sono ormai quasi tutte ricostruite, sono comparsi nuovissimi campi da tennis. Nell’opinione di molti, la riapertura della Žičara rappresenta il passo decisivo verso la rinascita della città.
RM

Il massacro, l’ingiustizia, il perdono

Avvenire, 1.8.2018

In tribunale si sono mostrati sprezzanti fino alla fine, senza manifestare il minimo segno di pentimento per la strage che avevano compiuto all’inizio della guerra in Bosnia, nell’estate del 1992. Nei giorni scorsi la Corte d’appello di Belgrado li ha assolti tutti, in via definitiva, sebbene vi fossero prove schiaccianti della loro colpevolezza. Il codice penale serbo non contempla il reato di associazione a delinquere per i crimini di guerra e i giudici non hanno potuto accertare le responsabilità individuali nel massacro di Skočić, vicino a Zvornik, a sessanta chilometri da Srebrenica. Sono tornati così in libertà i “cetnici di Simo”, una delle più efferate bande operanti all’epoca nella zona, agli ordini di Simo Bogdanović, un criminale di guerra morto in carcere alcuni anni fa. Non avranno alcuna giustizia le ventisette vittime civili di quel massacro, un’intera comunità di rom musulmani, tra cui anche donne e bambini, seviziati e uccisi a sangue freddo. La decisione dei giudici ribalta il verdetto di primo grado del 2013 – che aveva condannato gli imputati a 73 anni di carcere – e suona come una terribile beffa per il 34enne Zijo Ribic, unico sopravvissuto a quella strage.

Nella foto: Zijo Ribic

Al momento della lettura della sentenza era in aula anche lui, e ha assistito all’assoluzione dei carnefici della sua famiglia. Ci ha spiegato che continuerà a lottare per ottenere giustizia, intentando una causa presso l’Alta Corte di Strasburgo. Ma quello che stupisce è il suo perdono. “Anni fa ho deciso di non odiarli, gliel’ho detto anche in faccia che li perdonavo purché rivelassero la verità. Non cambio idea neanche adesso che sono tornati liberi”.
All’epoca dei fatti Zijo Ribic aveva appena otto anni, un’età sufficiente per far sì che quell’orrore si fissasse per sempre nella sua mente. Viveva in quel villaggio con i suoi genitori, le sorelle e il fratellino. “Mio padre lavorava da alcuni anni dall’altra parte del fiume Drina, in Serbia. In quell’estate del 1992 il suo datore di lavoro, un serbo, ci suggerì di abbandonare Skočić spiegando che di lì a poco si sarebbe scatenato l’inferno. Ci allontanammo per qualche giorno ma poi decidemmo di tornare per non abbandonare le nostre case, e fu la fine”. La sera del 12 luglio arrivarono due camion con i paramilitari serbi. “Fecero saltare in aria la moschea del villaggio, poi accerchiarono la nostra casa e ci fecero uscire tutti”, racconta Zijo. “Davanti ai nostri occhi ammazzarono uno degli uomini con un colpo alla testa, poi violentarono le ragazze, tra cui una delle mie sorelle che aveva solo tredici anni. Infine ci caricarono sui camion e ci portarono via”. Li fecero scendere lungo un fossato e li freddarono uno dopo l’altro, a colpi di pistola, o sgozzandoli con i coltelli. “Mi dettero una coltellata alla nuca, ferendomi solo di striscio, e mi credettero morto. Finii sui corpi dei miei parenti ma il destino aveva deciso che dovevo sopravvivere per diventare testimone di quel massacro, nel quale ho perso mio padre, mia madre incinta di otto mesi, sei sorelle e un fratellino di due anni”. Ferito ma ancora vivo, Zijo riuscì a scappare, e con l’aiuto di alcuni soldati fu affidato alle cure dell’ospedale di Zvornik, dove rimase nascosto per oltre due anni prima di essere trasferito all’estero. Tornato in Bosnia dopo la guerra, è cresciuto in un orfanotrofio e con l’aiuto del Centro per il diritto umanitario di Belgrado diretto da Nataša Kandić ha intrapreso una lunga battaglia legale. “Inizialmente la rabbia e l’odio mi avevano travolto, ma poi ho deciso di perdonare quei criminali, che nonostante tutto non sono riusciti a togliermi la voglia di vivere. La nostra cultura ci ha abituati a lasciare il dolore nel luogo dove sono avvenuti i fatti. E a ricominciare da capo”. Da anni Zijo vive con la sua compagna a Tuzla, dove lavora come cuoco. “Sei mesi fa è nata nostra figlia, adesso è lei a darmi la forza di andare avanti”. Ogni tanto torna a Skočić, il villaggio della sua infanzia diventato ormai un luogo spettrale, dove si trova anche il cimitero di famiglia. Solo di recente è riuscito a dare una degna sepoltura ai suoi cari. Nelle fosse comuni sono stati rinvenuti prima i resti dei suoi genitori poi, due anni fa, quelli di quattro sorelle. Infine, l’anno scorso, sono stati ritrovati anche un’altra sorella e il fratellino. “Ormai manca solo l’ultima sorella. Poi li avrò sepolti tutti”.
RM

Srebrenica, i conti con la memoria

Avvenire, 8.7.2018

Quest’anno Omer Dudic potrà finalmente seppellire i suoi cari morti nel genocidio. I resti di suo fratello Nijazija e di sua cognata Remzija, all’epoca incinta di sei mesi, sono stati riconosciuti grazie all’analisi del dna nel centro di identificazione di Tuzla e i loro nomi figurano oggi nella lista delle 35 persone che saranno tumulate l’11 luglio durante le celebrazioni per l’anniversario del massacro di Srebrenica. “In quei giorni del 1995 avevo appena vent’anni – ci racconta visibilmente commosso – e riuscii a salvarmi per miracolo, fuggendo attraverso i boschi e camminando per oltre cento chilometri a piedi nudi. Da allora non ho mai smesso di cercare i miei parenti”. Oggi Omer fa il contadino a Osmace, un villaggio a poca distanza da Srebrenica, immerso tra le verdi campagne che circondano la valle della Drina, al confine tra la Bosnia e la Serbia. Si stenta a credere che solo pochi anni fa un luogo così silenzioso e poetico sia stato teatro di una feroce pulizia etnica. Dei circa mille abitanti che vivevano qui all’epoca adesso ne sono rimasti appena un’ottantina. Poche case sparse abitate perlopiù da qualche anziana vedova, un memoriale alle vitime della guerra e intorno distese di campi a perdita d’occhio. Campi che potrebbero essere coltivati, se solo ci fossero ancora le braccia per farlo. Da qui si arriva a Srebrenica in meno di mezz’ora, scendendo lungo la strada che Ratko Mladic e le sue truppe di carnefici percorsero dopo la definitiva caduta della città. La fisionomia della piccola piazza del centro è stata modificata di recente da un imponente edificio rosso che ospita un albergo e una banca turca. Di fianco, il minareto della principale moschea cittadina è sovrastato dalla cupola della chiesa ortodossa. Dopo quanto è accaduto nella prima metà degli anni ’90, la convivenza tra la comunità serba e la minoranza musulmana è una scommessa quotidiana. Anche quest’ultima vive ormai con fastidio la rumorosa macchina delle celebrazioni che si attiva ogni anno l’11 luglio, la sfilata annuale delle delegazioni internazionali, i riflettori che si accendono per mezza giornata e poi si spengono di nuovo fino all’anno successivo. “È vero, questo sarà il primo anniversario dopo la condanna di Mladic e la chiusura della Corte penale dell’Aja – riconosce Bekir, che era un bambino durante la guerra – ma qua le notizie delle condanne arrivano come un’eco distante, che non sposta gli equilibri quotidiani della gente comune”. I sopravvissuti e i parenti delle vittime sono costretti a convivere ogni giorno con la memoria del genocidio e a confrontarsi con una ricostruzione morale e materiale che pur dopo tanti anni stenta ancora a decollare. Nonostante le iniziative di riconciliazione nate in questi anni il tessuto sociale della città appare irrimediabilmente distrutto. Lo si percepisce negli sguardi degli abitanti e nell’atmosfera surreale che si respira nelle strade, dove i segni della guerra sono ancora ben visibili, con palazzi bombardati e mai ricostruiti a cominciare dal grandioso hotel Domavia, affacciato sulla piazza principale, alle spalle della grande moschea cittadina. Di quella che un tempo era un’elleccenza turistica dell’era titina, oggi resta soltanto un macabro scheletro di cemento abbandonato. Ma tutta la città è ancora costellata da edifici distrutti e case ricostruite, in un’alternanza che pare una metafora delle cicatrici lasciate nelle persone. “Il processo di riconciliazione continua a essere ostacolato dalle ideologie nazionaliste che gettano sale sulle ferite di un dramma cominciato molto tempo prima di quello che il mondo ricorda”, ci spiega Hasan Hasanovic, curatore del centro di documentazione del memoriale di Potocari, nel quale è sepolto anche suo padre. L’assedio dei nazionalisti serbi alla città iniziò in un giorno di primavera di venticinque anni fa, nel 1993. “L’Onu aveva negoziato un cessate il fuoco, la popolazione si illuse di poter tirare il fiato e noi bambini uscimmo a giocare a calcio nel cortile della scuola – ricorda – ma all’improvviso dalle montagne circostanti iniziarono a piovere granate sulla città. Una colpì in pieno il campo da gioco ed esplose a pochi metri da me”. Quel giorno Hasan si salvò per miracolo ma vide morire quattordici suoi compagni di scuola. La mattanza che si sarebbe compiuta due anni più tardi segnò anche il fallimento della comunità internazionale, come ricorda anche la mostra fotografica allestita nei locali dell’ex base Onu di Potocari. Con le 35 sepolture previste quest’anno, il totale delle inumazioni supererà quota 6800 ma il lungo processo per ridare un’identità ai resti delle vittime prosegue, anche perché i boschi intorno a Srebrenica continuano a restituire le ossa sepolte nelle fosse comuni. Dragana Vucetic, antropologa forense del centro di ricerca sulle persone scomparse di Tuzla, confema che sono circa un migliaio di vittime che restano ancora da identificare.
RM

I giochi della pace delle due Sarajevo

Venerdì di Repubblica, 23 febbraio 2018

Vucko, il lupacchiotto simbolo dei giochi invernali di Sarajevo del 1984, è ancora oggi uno dei gadget olimpici più venduti ma sta per essere mandato in soffitta da Groodvy, una palla di neve con i riccioli colorati che sarà la mascotte ufficiale delle prossime Olimpiadi della gioventù del 2019. A distanza di trentacinque anni, la città bosniaca tornerà a essere una capitale dello sport con un evento che avrà ricadute positive anche sul piano politico. I giochi del 1984 sono l’emblema dei tempi che precedettero la guerra nell’ex Jugoslavia e il terrificante assedio della città che durò quattro anni, causando oltre undicimila morti. Quei giorni di sport, ancora ricordati con nostalgia, torneranno l’anno prossimo con una manifestazione che si svolgerà, come recita il sito ufficiale, a “Sarajevo e Sarajevo est”. Già, perché forse non tutti sanno che tra le eredità di quel conflitto c’è anche la divisione della città in due parti: la Sarajevo propriamente detta, capitale della Bosnia Erzegovina, e quella nota come Istočno Sarajevo (Sarajevo est), a maggioranza serba e situata amministrativamente nella Repubblica Srpska. Una frontiera invisibile creata dalla guerra, con confini che in alcuni casi sono stati tracciati dividendo i due lati della stessa strada. Nessuna restrizione alla mobilità per gli abitanti – c’è chi vive in una parte e lavora nell’altra -, se non per i taxi, che sono costretti a rimuovere le insegne in caso di “sconfinamento” per evitare multe salate. Ma a oltre due decenni dalla fine del conflitto, resistono ancora le divisioni etniche e i confini psicologici tra la gente, spesso alimentati dai politici che continuano a soffiare sul fuoco dei nazionalismi. Sarajevo doveva ospitare le Olimpiadi della gioventù europea già nel 2017, ma per convincere le due amministrazioni a lavorare insieme mettendo da parte i rancori del passato è stato necessario attendere altri due anni. Sia il vicesindaco di Sarajevo, Milan Trivic, che il presidente dell’assemblea di Sarajevo est, Miroslav Lucic, hanno affermato che si tratta di una grande occasione non soltanto per promuovere lo sport e il turismo nella regione, ma anche per dimostrare che una cooperazione tra le due parti della città – da sempre divise da una lettura contrapposta del recente passato – è finalmente possibile. Dal 9 al 16 febbraio 2019 circa 1500 atleti europei dai 14 ai 18 anni si sfideranno in sette specialità invernali e contribuiranno a superare barriere politiche e psicologiche, un po’ come sta accadendo in questi giorni tra le due Coree. Nei prossimi mesi ripartirà finalmente la cabinovia che si arrampica sul monte Trebević e congiunge le due parti della città. Il vecchio impianto, che portava sulle piste delle gare olimpiche del 1984, era stato abbattuto a colpi di mortaio e da quell’altura l’esercito serbo-bosniaco aveva bombardato la città per lunghi mesi. Le piste da slittino e da bob erano state minate, gli alberghi trasformati in centri di prigionia e di tortura. Il programma di riqualificazione previsto dalle Olimpiadi della gioventù ridarà vita finalmente anche a quel paesaggio spettrale dove giacevano i macabri resti di cemento di quelle strutture.
RM

Del Ponte: “All’Aja non potevamo fare di più”

Intervista al giudice Carla Del Ponte, procuratore capo del tribunale dell’Aja per l’ex Jugoslavia dal 1999 al 2007
(Avvenire, 14.10.2017)

Si definisce più una “cacciatrice di serpenti che una studiosa di diritto”. Carla Del Ponte ha trascorso gran parte della sua prestigiosa carriera di magistrato a dare la caccia ai criminali di guerra. Per otto anni è stata procuratore capo del Tribunale dell’Aja per l’ex Jugoslavia e di quell’organismo resta una delle figure più rappresentative. I Balcani, poi il Ruanda e in anni recenti anche la Siria, dove nell’estate scorsa ha abbandonato polemicamente la Commissione d’inchiesta dell’Onu sostenendo che ci sarebbero prove a sufficienza per condannare Assad, ma manca la volontà politica degli stati membri. In compenso, qualche giorno fa è arrivata finalmente la storica sentenza di condanna per Ratko Mladic. “È stata una grande soddisfazione – ci dice al telefono dalla Svizzera – perché dopo Milosevic era il principale responsabile dei crimini commessi durante la guerra nei Balcani. Sono felice soprattutto per le vittime”.
Quale sarà il giudizio della storia sul tribunale dell’Aja? Quali sono stati i maggiori successi e i principali fallimenti?
All’inizio c’erano difficoltà enormi e in pochi credevano che saremmo riusciti a portare di fronte alla giustizia i principali responsabili dei crimini commessi negli anni ’90. Quindi penso che la storia non potrà che ricordarlo come un grande successo per la giustizia internazionale. L’unico neo è stata la lunghezza dei processi. Sono stati troppo lunghi. Soprattutto a causa delle regole procedurali, essenzialmente di common law e quindi pensate per reati comuni, non per crimini del genere. In futuro bisognerà lavorare per ridurre la lunghezza dei processi.
Ritiene che si sarebbe risparmiato tempo con una procedura più vicina alla legislazione locale?
Certo. Il sistema di civil law si adatta meglio a questo tipo di crimini. Gli accertamenti oggettivi che non toccano la responsabilità degli accusati, una volta individuati devono poter essere utilizzati in tutti i processi. Invece finora è stato necessario ripetere la prova ogni volta.
Poteva essere fatto di più con una maggiore collaborazione da parte degli stati?
No, perché il nostro mandato era limitato e potevamo occuparci soltanto degli alti responsabili politici. Purtroppo non è stato possibile arrivare ai cosiddetti “livelli medi” anzi, il Consiglio di sicurezza ha persino accorciato la lista degli accusati.
Ripensando ai suoi anni da procuratore capo, c’è qualcosa che non rifarebbe?
No, penso che rifarei esattamente tutto quello che ho fatto. Ho avuto al mio fianco gente molto preparata, abbiamo sempre discusso tutto cercando di evitare di commettere gravi errori.
Qual è il suo giudizio sul lavoro dei tribunali locali dei paesi dell’ex Jugoslavia?
Pessimo. L’ho sempre ritenuto insoddisfacente, fin dall’inizio, quando c’era una maggiore volontà di fare giustizia. Innanzitutto hanno accumulato un grande ritardo, e molti esecutori restano ancora in libertà. Poi la pressione politica è ancora molto forte e le sentenze non sono quasi mai del tutto indipendenti.
Cosa risponde a chi sostiene che il tribunale dell’Aja ha processato e condannato soprattutto i serbi?
Francamente lo ritengo un argomento inutile e irrilevante. I serbi hanno commesso un maggior numero di crimini ed è quindi naturale che siano stati portati soprattutto loro di fronte alla giustizia. Ma abbiamo messo in stato d’accusa imputati di tutte le altre etnie.
Si è trovata di fronte uomini accusati di crimini terribili. Ha mai ravvisato in loro qualche rimorso?
A parte uno, che si è suicidato in carcere, nessuno degli altri ha riconosciuto le proprie colpe o ha provato a chiedere perdono. Purtroppo credo che la riabilitazione dei condannati all’Aja sia una missione impossibile. Dopo anni di detenzione chissà, ma ho poche speranze.
Anche dopo le dimissioni dalla Commissione d’inchiesta sulla Siria continua a credere nella giustizia internazionale?
Senza alcun dubbio. Stiamo attraversando un momento molto delicato, poiché sembra che dopo i passi avanti fatti con i tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda adesso stiamo tornando indietro. Non penso solo alla Siria, ma anche al Myanmar e allo Yemen, dove la giustizia pare improvvisamente sparita dall’orizzonte. È inaccettabile ma sapevamo fin dall’inizio che la giustizia internazionale funziona solo se sono gli stati a volerlo.
RM

La giustizia imperfetta dell’Aja

Avvenire, 10 dicembre 2017

Il sipario è calato definitivamente pochi giorni fa, con l’immagine-choc del generale croato che inghiottiva il veleno in diretta tv, davanti ai giudici dell’Aja. Ma nella lunga storia della prima istituzione di giustizia internazionale dai tempi della Seconda guerra mondiale non sono mancati i colpi di scena. Basti ricordare la fine improvvisa del principale imputato, l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic, che nel 2006 morì in carcere prima della sentenza, o il misterioso suicidio in cella di Milan Babic, leader dei serbi di Krajina, appena una settimana prima. O ancora la vicenda della giornalista francese Florence Hartmann, che l’anno scorso fu rinchiusa per alcuni giorni in isolamento all’Aja accanto al genocida Ratko Mladic. Era stata tra le prime a denunciare le operazioni di pulizia etnica, poi aveva lavorato come portavoce del procuratore capo Carla Del Ponte, infine era stata condannata per aver citato in un libro alcune decisioni riservate della corte. Fu forse l’atto più paradossale di un organismo che sarà consegnato alla storia attraverso una lettura in chiaroscuro, solcata da molte ombre ma anche da una serie di innegabili successi.

Slobodan Milosevic

Il tribunale dell’Aja per l’ex Jugoslavia fu istituito dall’Onu nel 1993, a conflitto ancora in corso, sulla falsariga dei tribunali creati cinquant’anni prima a Norimberga e a Tokyo, allo scopo di processare i criminali di guerra che avevano agito in Bosnia Erzegovina e in Croazia. Nel corso degli anni è stato poi ampliato fino a includere le violazioni commesse durante i conflitti in Kosovo e in Macedonia. Molti lo considerano ancora oggi soltanto uno strumento con il quale la comunità internazionale ha cercato di pulirsi la coscienza di fronte all’indignazione dell’opinione pubblica per l’inerzia mostrata a lungo nei Balcani. Nell’arco di circa un quarto di secolo, il lavoro dei giudici dell’Aja è stato accusato di faziosità, criticato per l’eccessiva lunghezza dei processi, stigmatizzato per alcune assoluzioni, su tutte quelle del leader dei radicali serbi Vojislav Šešelj, del generale croato Ante Gotovina e del comandante dell’Uck Ramush Haradinaj. Persino le grandi speranze riposte in un suo possibile effetto catartico sono state completamente deluse. Molti anni fa, il giurista italiano Antonio Cassese, che fu il primo presidente del tribunale dell’Aja, scrisse in un rapporto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che il tribunale si proponeva di promuovere la riconciliazione tra i popoli: un obiettivo del tutto disatteso, che mesi fa è stato persino smentito dall’attuale presidente, il maltese Carmel Agius, il quale ha affermato che la riconciliazione non rientrava tra gli obiettivi del tribunale. L’organismo dell’Aja non è riuscito neanche a fare i conti con una memoria selettiva e arbitraria. Oggi la Bosnia è un paese profondamente diviso su base etnica, con molti criminali di guerra ancora liberi e impuniti, dove i condannati si credono vittime e i nazionalisti di ciascuna fazione continuano a promuovere una narrazione incentrata sul revisionismo e il negazionismo. Secondo un recente sondaggio d’opinione appena un cittadino su sei, in Bosnia, ritiene che le tre etnie presenti nel paese abbiano raggiunto un livello accettabile di integrazione, e circa il 30% degli intervistati è convinto che un ritorno alle armi rappresenti uno scenario più che plausibile.
Con queste premesse, l’esperienza del tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia sembrerebbe essersi risolta in un fallimento. Ma osservarne i limiti senza citare i successi porterebbe inevitabilmente a un giudizio riduttivo, e quindi fuorviante. Quella dell’Aja passerà infatti alla storia come la prima corte che è stata capace di incriminare un capo di stato per i reati di genocidio e crimini contro l’umanità, anche se Milosevic è morto prima di arrivare al verdetto. Combinando tradizioni giuridiche spesso incompatibili, in assenza di molti poteri di base dei sistemi giudiziari nazionali, è riuscito a giudicare i responsabili di alcuni degli atti più feroci commessi in Europa negli ultimi decenni, dimostrando che ormai nessuno può godere dell’impunità o sfuggire alla giustizia, di fronte a certi crimini. Muovendosi nel sottile crinale che divide la sovranità nazionale e la responsabilità internazionale, nella zona grigia tra ambito giudiziario e politico, ha incriminato persone appartenenti a tutti i gruppi etnici facendo sì che nessun popolo dell’ex Jugoslavia possa proclamarsi esclusivamente vittima di quanto è accaduto. Dopo aver stabilito che l’eccidio di Srebrenica fu un genocidio, la corte dell’Aja ha condannato per la prima volta lo stupro come forma di tortura e la schiavitù sessuale come crimine contro l’umanità. Ma il suo contribuito allo sviluppo del diritto internazionale umanitario si è spinto anche oltre, ispirando l’istituzione dei tribunali speciali per i crimini di guerra in Ruanda, in Sierra Leone, a Timor Est, in Libano e in Cambogia, nonché la Corte penale internazionale istituita nel 2002. In Bosnia, in Croazia, in Serbia e in Kosovo ha inoltre favorito la creazione di tribunali nazionali per processare gli imputati di crimini di guerra di medio e basso rango. Il 19 dicembre i motori della macchina dell’Aja saranno ufficialmente spenti e il testimone passerà a un “meccanismo residuale” incaricato di portare avanti i procedimenti in corso e altre funzioni del tribunale, tra cui il sostegno e la protezione dei testimoni, il controllo dell’esecuzione delle pene e la conservazione dei suoi imponenti archivi.
RM