La “meglio gioventù” di Israele

Sofia e Daniel, Aisha e Tarteel: la “meglio gioventù” di Israele ha i modi gentili e l’eloquio assertivo di questi quattro ventenni che lavorano insieme per la pace in un gruppo israelo-palestinese e sostengono di credere fermamente nel dialogo e nella nonviolenza. In questi giorni sono arrivati in Italia portando una ventata di speranza sul futuro del Medio Oriente, usando parole che oggi sembrano sempre più desuete: obiezione di coscienza, nonviolenza, educazione alla pace, tolleranza, solidarietà. Concetti che loro stessi hanno messo in pratica pagando di persona il prezzo di scelte coraggiose e controcorrente.

Sofia Orr e Daniel Mizrahi vengono da Israele, sono obiettori di coscienza che hanno rifiutato il servizio militare e per questo sono reduci dal carcere. Fanno parte di Mesarvot (“Noi rifiutiamo”), una rete di giovani attivisti e obiettori israeliani che sostengono i diritti umani e politici dei palestinesi e degli israeliani. Tarteel Yasser Al Junaidi e Aisha Amer sono invece due attiviste nonviolente palestinesi di Community Peacemaker Teams, un’associazione che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione.
Sofia e Daniel, Aisha e Tarteel hanno girato l’Italia in questi giorni chiedendo la fine del massacro a Gaza, un accordo sugli ostaggi, la fine della guerra in Medioriente e il raggiungimento di una soluzione diplomatica. “La spirale che ci sta portando al terzo conflitto mondiale può essere spezzata. L’obiezione di coscienza è l’unica alternativa alla violenza cieca dell’esercito e dei gruppi armati che a Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Israele stanno seminando odio e vendetta impedendo la costruzione di una società davvero democratica e inclusiva”, spiega Sofia davanti a una sala piena di giovani a Firenze. Accanto a lei siedono Daniel, Aisha e Tarteel, tutti a volto scoperto. Uno dopo l’altro si alternano al microfono spiegando al pubblico le motivazioni della loro scelta. Ospiti del Movimento Nonviolento italiano, i quattro testimoni di pace hanno preso parte a un tour di dieci giorni, da Milano a Bari passando anche per Marzabotto, con una serie di iniziative volte a far conoscere all’opinione pubblica italiana i volti e la voce di chi, dentro alla follia della guerra, già realizza progetti di pace, a partire dal rifiuto della violenza e delle armi. Giovedì 24 ottobre, dopo un’audizione alla Comitato permanente sui Diritti Umani nel mondo, sono stati alla Camera dei Deputati a un incontro con i parlamentari dell’Intergruppo per la pace tra la Palestina e Israele e i rappresentanti della Rete italiana Pace e Disarmo.
Sophia Orr ha appena 19 anni e nel febbraio scorso, dopo aver rifiutato di arruolarsi per il servizio militare obbligatorio nelle forze armate israeliane, è stata rinchiusa per 85 giorni nel carcere militare di Tel Aviv. Qualche settimana prima del feroce attacco di Hamas del 7 ottobre era stata tra i 230 adolescenti israeliani che avevano firmato una lettera aperta annunciando la loro intenzione di rifiutare l’arruolamento come parte di una più ampia protesta contro i tentativi del governo Netanyahu di limitare il potere della magistratura. Quei giovani avevano dichiarato che non si sarebbero arruolati nell’esercito “finché la democrazia non sarà garantita a tutti coloro che vivono all’interno della giurisdizione del governo israeliano”. I pogrom del 7 ottobre non hanno cambiato la prospettiva di Sofia, che nonostante la giovanissima età è mossa da una convinzione granitica nei propri ideali. “Avevo circa quindici anni quando ho iniziato a chiedermi chi avrei servito nel mio esercito. Ho capito che se mi fossi arruolata avrei preso parte a un ciclo di violenza interminabile e ho deciso che avrei fatto tutto il possibile per resistervi”. Sugli attacchi di Hamas dice: “è chiaro che tutti hanno il diritto di difendersi ma Israele non si sta difendendo perché quella che usa è una forza sproporzionata. Inoltre realizza da anni l’occupazione e l’apartheid, e impone la propria narrativa dei fatti. Lo fa perché ne ha la forza. Ma avrebbe anche la forza per cambiare questa situazione”. Infine lancia un appello tra gli applausi dei presenti: “se la comunità internazionale vuole fermare la guerra deve smettere di mandare armi e aiuti ad Israele. Dovete fare pressione sui vostri governi in tal senso”.
Le fa eco Daniel Mizhrai, 26 anni, che ha scontato 50 giorni di carcere per aver rifiutato la coscrizione nell’esercito israeliano e davanti alla platea fiorentina riassume la sua storia per dimostrare che esiste un’alternativa alla militarizzazione. Racconta che prima amava lo stato di Israele e poteva definirsi a pieno titolo un sionista per educazione familiare e scolastica ma a 18 anni si è trasferito a Gerusalemme per fare l’università e successivamente il servizio militare. Lì ha toccato con mano il conflitto facendo amicizie con i giovani palestinesi, che lo hanno aiutato a mettere in crisi le sue credenze e a rendersi conto di essere dalla parte sbagliata. “Purtroppo – spiega – la società israeliana è sempre più violenta e militarizzata. Dopo il 7 ottobre la situazione è peggiorata ma era molto violenta anche prima: il nostro sistema ci educa fin da bambini a combattere i palestinesi e gli arabi. Lo scorso anno mi sono rifiutato di andare a combattere. Oggi sono felice di aver fatto quella scelta e di non avere le mani sporche di sangue”.
A confermare che in Israele si corrono molti rischi ad esprimere idee diverse dalla linea adottata dal governo sono anche Tarteel Yasser Al Junaidi e Aisha Amer, due attiviste nonviolente palestinesi nate e cresciute in Cisgiordania. Entrambe denunciano le violenze quotidiane che subiscono dai soldati e dai coloni. “A scuola – racconta Aisha – siamo costretti a studiare l’ebraico e a lezione di storia è vietato insegnare o parlare della storia palestinese. Gli insegnanti che provano a farlo vengono arrestati. Di recente una docente universitaria è stata arrestata e poi licenziata dall’ateneo per aver parlato del genocidio in corso a Gaza”.
Mentre nessun governo e nessuna organizzazione internazionale sembra al momento in grado di fermare i massacri, giovani come Sofia, Daniel, Aisha e Tarteel hanno avuto il coraggio di resistere alla logica della violenza, del nemico e dell’odio. Se un giorno il Medio Oriente conoscerà la pace sarà anche merito loro.

4 pensieri riguardo “La “meglio gioventù” di Israele”

  1. ALEPPO IN MANO AI MERCENARI JIHADISTI DI ANKARA
    Gianni Sartori

    Ha resistito cinque giorni Rusil Mohammed Khalaf alle gravi lesioni riportate per un bombardamento dell’artiglieria turca. La tredicenne è deceduta venerdì 29 settembre nell’ospedale di Aleppo dove era stata trasportata dal suo villaggio, Helîsa (distretto di Fafîn).
    Qui, nel bombardamento del 24 novembre, erano rimaste ferite una mezza dozzina di persone, tra cui tre bambini. Un altro dei feriti, un uomo di 44 anni, è ugualmente deceduto dopo il ricovero in ospedale.
    Il villaggio dove viveva Rusil sorge circa 20 chilometri a sud-est da Tel Rifat e 15 a nord di Aleppo. Fa parte del cantone di Afrin-Shehba amministrato dall’AANES (Amministrazione autonoma del Nord e dell’est della Siria). Qui, dopo l’invasione turca del 2018, si sono rifugiate migliaia di persone. Finora una sorta di enclave di interposizione (difficile definirla “zona smilitarizzata”, meglio no man’s land) tra i territori controllati dal regime di Damasco e quelli occupati da Ankara e dai suoi mercenari. Comunque obiettivo costante di bombardamenti.
    Nel frattempo, da venerdì 29 novembre, le bande armate di Hayat Tahrir al-Sham e altre fazioni islamiste cominciavano ad entrare in Aleppo. Completando un’operazione contro l’esercito di Damasco avviata il 26 novembre e divenuta incalzante, irrefrenabile nella notte del 27 (utilizzando anche l’abituale metodo dell’auto-bomba contro i posti di blocco governativi). Incontrando scarsa resistenza da parte dei militari siriani (si è parlato di trattative accomodanti) e determinando l’evacuazione degli abitanti da alcuni quartieri.
    Stando a quanto viene riportato da fonti curde “molte persone che vivono nelle zone di Aleppo finora controllate dal regime di Damasco si rifugiano nei quartieri di Şêxmeqsud e Eşrefiyê gestiti dall’AANES” e sotto la protezione delle Forze Democratiche Siriane (Hêzên Sûriya Demokratîk). Alcune associazioni di autisti si si stanno prodigando inviando decine di autobus per consentire ai cittadini di Aleppo di spostarsi in aree più sicure. Così come altri mezzi sono stati inviati a Raqqa. L’operazione umanitaria si svolge con la collaborazione dell’AANES e una ventina di autobus sarebbero già partiti da Aleppo portando in salvo gruppi di studenti.

    Il 30 novembre comunque la notizia è diventata ufficiale (v. i comunicati di ANHA News). Gran parte di Aleppo si trova ormai sotto il controllo di Hayat Tahrir Al Sham. In particolare: Bustan El Qesir, Kelasê, Ferdos, Qesîle, la cittadella di Aleppo e dintorni, i quartieri di Cemîliye, Bustan Zehara, Selahedîn, Heleb El Cedîde, El Feyd, parte dei distretti di Rashidîn, Ramûsa, Hemdaniye, Pîşesazi, Mîrîdiyane di Bab Neyreb. Probabilmente anche i quartieri di Eziziye e Suryan.
    Stando alle immagini fin qui diffuse, i mercenari sembrano ostentare anche simboli dell’Isis.In un comunicato delle Forze Democratiche Siriane si avverte che “gli attacchi contro la regione del nord e dell’est della Siria sono penetrati in profondità”. Aggiungendo che la cosa era altamente prevedibile in quanto i preparativi erano in corso da tempo. Intanto una ventina di civili hanno perso la vita (molti di più i feriti) a causa di un bombardamento. Gli aerei – forse russi – avevano colpito la folla assiepata nei pressi della rotatoria di Al-Basil. Complessivamente le vittime (tra civili e combattenti) dei primi quattro giorni di questa operazione militare tra Idlib e Aleppo sarebbero almeno 327.
    E pensare che è almeno dal 2018 (assalto a Afrin) che le bande jihadiste ex (ex ? mah?!?) Al-Qaida imperversano, ammazzano, saccheggiano, stuprano…sotto la supervisione di Ankara che nei territori da cui i curdi son dovuto fuggire costruisce insediamenti. Per poi due anni fa riprendere alla grande gli attacchi sia sul terreno che dal cielo (aviazione turca ovviamente).
    Ma nessuno diceva niente, forse per non disturbare Erdogan…
    Non so se ora la situazione gli sia sfuggita di mano e i tagliagole fascio-islamici si muovano autonomamente.
    Oppure, semplicemente, per Erdogan sia arrivato il momento di regolare i conti con i curdi una volta per tutte…
    Vedremo…

    Ma chi sono i miliziani di Hayat Tahrir al-Sham?
    HTS è una formazione jihadista (classificata come terrorista dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu) che da qualche tempo controlla la regione di Idlib (nord-est della Siria). E’ composta da vari gruppi islamisti tra cui l’ex (ex ?) Al Qaeda Nusra (ribattezzata nel 2016 Fateh al-Sham). La sua influenza – con la tacita approvazione della Turchia – si va estendendo in buona parte del nord della Siria mentre contemporaneamente tenta di riciclarsi con un’immagine pubblica meno repulsiva (ma stando alle informazioni fin qui circolate a Idlib vige un regime teocratico totalitario). Tra l’altro uno dei responsabili del mancato attentato di Monaco era legato a HTS.
    Gianni Sartori

  2. ESCALATION MILITARE E CRISI UMANITARIA NEL NORD DELLA SIRIA, MA PER ORA I CURDI RESISTONO

    Gianni Sartori

    Com’era prevedibile l’unica resistenza valida all’attacco portato dall’alleanza turco-jihadista nel nord della Siria è stata finora quella delle Forze democratiche siriane (SDF, formate da combattenti curdi e dai loro alleati arabi). Il 30 novembre sul fronte di Al Bab (provincia di Aleppo) si sono registrati combattimenti tra le SDF e i mercenari filo-turchi del soidisant Esercito nazionale siriano (SNA). Gli scontri si sarebbero svolti (condizionale d’obbligo in quanto le notizie sono per forza di cose frammentarie; non si hanno dati certi nemmeno sul numero dei caduti) nella zona di Tedef. Dopo che in questa area si era creato un “vuoto di potere” per la ritirata delle truppe governative di Damasco, gli ascari di SNA avevano tentato di procedere nella loro avanzata.

    Stando a quanto diffuso dall’agenzia ANHA, le unità di SNA avrebbero dovuto ritirarsi di fronte alla risposta delle SDF.

    Altre fonti riferiscono di bombardamenti russi contro le postazione jihadiste. Nel corso di tali attacchi una base jihadista che sorgeva in prossimità di una serie di silos contenti grano, sarebbe stata distrutta (ma preservando i silos e il loro prezioso contenuto).

    Qui la Turchia negli anni scorsi (agosto 2016) aveva avviato l’operazione “Scudo dell’Eufrate”. Ufficialmente per combattere l’Isis, ma in realtà per approfittare della vittoria imminente delle SDF contro lo Stato islamico (ormai in ritirata). Non a caso l’intervento turco seguiva di poco la liberazione di Manbij operata dalle milizie curdo-arabe.

    Nel frattempo (1 dicembre 2024) arrivano notizie di operazioni dell’aviazione turca i cui caccia stanno sorvolando il distretto di Til Temir (cantone di Cizîr, nord-est della Siria). Gli aerei turchi si sono alzati in volo dopo una serie di bombardamenti dell’artiglieria turca contro i villaggi locali. Segnale inequivocabile che l’invasione delle milizie jiadiste non è soltanto “tollerata”, ma supportata dall’esercito di Ankara.

    Nonostante le rassicuranti dichiarazioni di molti esponenti politici (anche nostrani), ormai si assiste impotenti all’intensificazione dei combattimenti e al fatale deterioramento della vita quotidiana delle popolazioni. Tra l’incudine dell’invasione e il martello dei bombardamenti.

    Vittime, come sempre, soprattutto tra i civili. Nella regione di Aleppo anhe oggi (1 dicembre) almeno quattro persone (tra cui due bambini rispettivamente di 2 e 3 anni) sono rimasti ferite mentre rientravano nel loro villaggio (Nairbiyeh) da Haidariya.

    Contemporaneamente anche la città di Tal Tamr (cantone di Al-Jazira) veniva sottoposta a estenuanti bombardamenti da parte dell’esercito turco. Tra i villaggi maggiormente colpiti, Al-Tawila e Qabur al-Qaraqna. Pare che non vi siano vittime, ma solo gravi danni materiali (tra cui una centrale elettrica).

    Durissimi combattimenti si stanno svolgendo nelle campagne di Afrin tra le Hêzên Rizgariya Efrînê (HRE, Forze di Liberazione di Afrin) e i mercenari filo-turchi che tentano di infiltrarsi con l’appoggio del’artiglieria che colpisce sia le infrastrutture che le aree abitate. Ma le bande jihadiste rimangono bloccate dalla strenua resistenza curda. Nessuna meraviglia del resto. E’ dal 2018 (con l’operazione turca ironicamente denominata ”ramoscello d’ulivo”) che – per quanto “occupata, rastrellata, passata per le armi…” – Afrin combatte e non si arrende.

    Purtroppo è sulla popolazione civile che le conseguenze pesano inesorabilmente. Rendendo sempre più incerte, precarie le condizioni di vita in un contesto già fragile.

    Oltre all’incremento esponenziale degli sfollati (profughi interni), alla penuria alimentare e alla pressoché generalizzata mancanza di servizi sanitari, va considerato che l’inacessibilità di molte aree rende assai poblematici gli indispensabili interventi umanitari.

    Altri scontri tra curdi e jihadisti si registrano nel cantone di Şehba (villaggi di Şewarqa e di Malikiyê), mentre i bombardamenti turchi avrebbero colpito (sempre condizionale d’obbligo in questa fase incerta e convulsa) anche Şewarqa, Merenaz, Kiştiar e Tetmeraş.

    Le postazioni jihadiste vengono a loro volta colpite dall’aviazione russa, sia nella regione di Aleppo (almeno tre morti tra le milizie filo-turche nei quartieri di Rausa e Kirêdiya) che di Idlib.

    Quanto a Damasco, starebbe rafforzando le difese militari della città di Hama posizionandosi sul monte Zên El Abidin (anche se per ora non vi sono segnali di una imminente controffensiva governativa).

    Preoccupazioni per la sorte della popolazione civile sono state espresse sia dal segretario generale della Lega Araba, Ahmed Abu Al Xeyt, sia dagli Stati Uniti. Anche se è lecito dubitare della buona fede di Sean Savett (porta-voce del Consiglio nazionale di sicurezza). Il quale oltretutto attribuisce – fantasiosamente – la responsabilità di quanto sta avvenendo alla “intransigenza di Damasco” (e non alla Turchia, membro della Nato).

    Quanto agli appelli per un cessate-il-fuoco immediato, si ha la netta impressione che rimarranno inascoltati a lungo.

    Gianni Sartori

  3. SIRIA: MENTRE AUMENTA A DISMISURA IL NUMERO DEI PROFUGHI, I MERCENARI DI ANKARA SI PREPARANO AD ATTACCARE MANBIJ

    Gianni Sartori

    Ci sono notizie che non si vorrebbe mai sentire, tantomeno divulgare. Un’altra “morte piccina” (ricordate? “’nte sta çittæ/ch’a brûxa ch’a brûxa/inta seia che chin-a/e in stu gran ciaeu de feugu/pe a teu morte piccin-a), quella di un bimbo di quattro anni morto per il freddo mentre la sua famiglia, originaria di Afrin, fuggiva dalla regione di Shehba sotto assedio jihadista verso Raqqa. Nûh Mihemed Reşo è morto così, allo stadio di Raqqa a causa delle rigide temperature sopportate durante la fuga da Shehba dove i suoi genitori, allora in fuga da Afrin, si erano rifugiati nel 2018.

    Non si muore quindi soltanto sotto i colpi delle armi dei mercenari di Ankara, ma anche di freddo o di sfinimento, sulle strade, nei campi e nei rifugi improvvisati.

    Malgrado tutti i suoi sforzi l’AADNES (Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria) non è più in grado di proteggere, nutrire, riscaldare le vittime dell’esodo, ormai decine di migliaia. Un’autentica catastrofe umanitaria che necessiterebbe di ben altre risorse. Da qui la pressante richiesta di sostegno rivolto alla comunità internazionale e in particolare dell’apertura del posto di frontiera di Til Kocer da cui far affluire gli aiuti.

    Così, mentre va crescendo a dismisura il numero degli sfollati (ben oltre centomila), aumenta anche il numero delle vittime. Non solo per i combattimenti, i bombardamenti e le uccisioni extragiudiziali. Queste per lo più opera dei miliziani jihadisti di HTS che impudentemente ostentano emblemi dell’Isis sulle divise. Talvolta sventolando bandiere turche. Con il soidisant SNA (Esercito Nazionale Siriano, sul libro paga di Ankara) imperversano nella città di Afrin (sotto occupazione dal 2028) applicando dure misure repressive nei confronti delle minoranze etniche e soprattutto delle donne.

    A seguito dell’occupazione di Aleppo, le operazioni militari si vanno intensificate verso i territori dell’AADNES dove dal 2014 si sperimenta il Confederalismo democratico.

    Da giorni pesanti bombardamenti si riversano sulla regione di Shehba, posta sulla linea di congiunzione tra i distretti autonomi di Aleppo e altre aree amministrate dall’AADNES (Manbij e Til Rifaat). Oltre che da anni riparo e rifugio per decine di migliaia di persone fuggite dal cantone di Afrin

    Va ribadito fino alla nausea che HTS e SNA non sono né “ribelli”, né “insorti” (come si ostina a classificarli buona parte dei media), ma mercenari al servizio della Turchia. Attivati con lo scopo (magari non l’unico, ma forse quello preponderante) di finirla una volta per tutte con l’esperienza (contagiosa, come i sogni ad occhi aperti di Corto Maltese) del Confederalismo democratico.

    Obiettivo che può essere ottenuto da Ankara soltanto con la sconfitta dei curdi e degli altri popoli oppressi che partecipano al rivoluzionario progetto.

    E’ quindi assai probabile che – dopo quello vincente di Aleppo – HTS e soprattutto SNA (su mandato di Ankara) siano in procinto di portare l’assalto finale a Manbij. Città multietnica dove arabi e curdi convivono con circassi, turcomanni, armeni e ceceni.

    L’offensiva sarebbe imminente, stando a quanto dichiarava Khaled Davrisch, rappresentante dell’AADNES in Germania: “Dopo la conquista di Aleppo e di altre zone del nord della Siria da parte delle milizie jihadiste, i movimenti delle truppe del SNA stanno a indicare un possibile attacco contro Manbij”.

    Per poi precisare che – se la Turchia attaccasse la città con i suoi mercenari islamisti – esiste il “concreto rischio di un massacro e dello spostamento forzato di decine di migliaia di persone”. In ogni caso “in quanto forze armate dell’AADNES eserciteremo il diritto all’autodifesa e proteggeremo la popolazione civile”.

    Ricordando come Manbij venne liberata dall’Isis nel 2016, consentendo a migliaia di persone di rientrare nelle loro abitazioni.
    Combattimenti propedeutici all’attacco sono già in corso, forse per per tastare il terreno.

    Da un comunicato delle FDS (Forze Democratiche Siriane) si apprende che “diversi mercenari dell’occupazione turca sono stati eliminati o feriti durante i violenti scontri (dalla mattinata del 3 dicembre a quella del 4 nda) con il Consiglio Militare di Manbij nelle aree rurali del sud di Manbij; altri ancora negli scontri con il Consiglio Militare di Tabqa nell’area di Deir Hafer”.

    Riaffermando la ferma intenzione di “opporsi a ogni attacco dei terroristi”.

    Gianni Sartori

  4. DAMASCO E’ CADUTA, MA IL CONFLITTO PROSEGUE ACCANITO A MANBIJ, assediata da turchi e ENS

    Intanto un pensiero caritatevole per quanto stanno vivendo i nostrani “campisti” di fronte alla dissoluzione, all’evaporazione del loro avamposto siriano, quello finora presieduto dal fuggitivo Bashar al-Assad. Immagino come ci si debba sentire se – soltanto due-tre giorni fa – lo si qualificava come potenziale futura “guida del campo antimperialista”.

    Peggio ancora per chi aveva appena definito l’astuto e apparentemente ondivago Erdogan un “antimperialista”. O anche un “antifascista” (non invento niente, cercate e troverete…) per il suo sostegno (a mio avviso del tutto strumentale) alla causa dell’autoderminazione del popolo palestinese. Sebbene nel frattempo fosse ancora impegnato a perseguitare i curdi ovunque: dal Bakur (entro i confini turchi) al Bashur (nord dell’Iraq) al Rojava (dove ora sta scatenando i suoi mercenari del soidisant Esercito Nazionale Siriano).

    Penso a quanto sia dura da mandar giù. Con Damasco caduta, dopo Aleppo e Hama, quasi senza colpo ferire in mano ai riciclati di al-Qaida.

    Ma, come si dice in questi casi, dovrebbero farsene una ragione.

    Assolto il gravoso compito di “consolare gli afflitti” (opera di misericordia spirituale), passo a considerare le legittime speranze (e magari anche qualche piccola incongrunenza) emerse nelle dichiarazioni di Mazloum Abdi, comandante delle SDF.

    Scrive nel suo recente messaggio che la Siria “sta vivendo momenti storici e siamo di fronte alla caduta dell’autoritario regime di Damasco. Cambiamento che rappresenta una opportunità per costruire una nuova Siria fondata sulla democrazia e la giustizia che garantisca i diritti di tutti i siriani”.

    Gli fa eco il copresidente del Dipartimento di Relazioni Estere dell’AADNES: “L’epoca della tirannia è finita. Voltiamo pagina rispetto al passato per unire gli sforzi dei siriani per un futuro migliore basato sulla giustizia e sulla democrazia”.

    Dichiarazioni concilianti che potrebbero (condizionale etc.) apparire come una mano tesa agli autoproclamati “ribelli e insorti” entrati a Damasco. Tatticamente comprensibili, ma forse un tantino azzardate. Viste le origini islamiste di tali personaggi (Hayat Tahrir al-Sham alias al-Nusra in primis) e soprattutto ben sapendo che l’offensiva del 27 novembre, condotta da HTS e dal SNA, come minimo ha goduto del sostegno di Ankara. Con l’intento di annullare definitivamente l’esperienza del Confederalismo democratico, espressione del protagonismo politico dei curdi.

    Per cui nei territori autogestiti dall’AADNES, mentre la popolazione scendeva in strada per festeggiare comunque la fine del regime, contemporaneamente veniva decretato lo stato di emergenza. In vista delle probabili ulteriori aggressioni al Rojava da parte dei proxy di Ankara (ENS, ma non solo). Ovviamente non credo proprio che i curdi rimpiangeranno Assad. Ma temo che la questione sia ben lontana dall’essere risolta.

    Riassumendo.

    Con la caduta di Damasco (e la fuga ingloriosa dei Assad) nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, si è aperta una nuova fase. Anche per i funzionari di alto livello del regime che ora – temendo di perdere non solo la vita, ma forse anche la “testa”, letteralmente – si dichiarano pronti a collaborae con i vincitori per una “transizione pacifica”. Mentre dilagano le immagini delle statue degli Assad (padre, figlio e qualche altro parente) abbattute, anche in Rojava si festeggiava, dicevo. Ma soprattutto si combatteva per arginare i ripetuti, intensi attacchi dell’ENS sui diversi fronti. In particolare – da est, ovest e sud – su Manbij (governatorato di Aleppo, distretto di Manbij). Comunque finora sempre respinti, nonostante il contributo diretto dell’esercito turco.

    Non si tratta – va chiarito – né di “incidenti isolati”, né del protrarsi di tensioni dovute agli eventi convulsi degli ultimi giorni. E non sono destinati a rientrare, esaurirsi in breve tempo con la “normalizzazione” del Paese.

    Persisteranno a lungo, tanto quanto la Turchia vorrà proseguire nel suo intervento militare – sostanzialmente anti-curdo – in Siria. Come confermava un precedente comunicato del Consiglio militare di Manbij, secondo cui le ripetute aggressioni fanno parte di un vasto piano, di una vera e propria “strategia di occupazione e destabilizzazione” del territorio siriano.

    Anche gli ultimi attacchi sono avvenuti utilizzando droni (UAV) e colpi di artiglieria pesante. A cui si sono aggiunte offensive sul terreno contro i villaggi di Jabb Makhzoum, Jableh Al-Hamra, Tal Aswad, Al-Hota e Tal Taurine. Attacchi pianificati (come avrebbe appurato l’intelligence curda) da un centro operativo congiunto, composto sia da capi dei gruppi jihadisti e mercenari, sia da ufficiali dell’esercito turco.

    Riuniti nelle FDS (Forze Democratiche Siriane), i consigli militari di Manbij e di Al-Bab finora hanno respinto il nemico che ha lasciato sul terreno molti suoi combattenti.

    Vediamo la cosa in dettaglio.

    Risale a mezzogiorno (circa) di domenica 8 dicembre l’ultima dichiarazione del Centro Stampa del Consiglio Militare di Manbij. Ricorda che negli ultimi dieci-dodici giorni le aggressioni opera dell’esercito occupante turco (con l’aviazione, ma non solo) e dei suoi accoliti si contano a decine. Anche se “tutti questi attacchi sono stati sventati”, il comunicato riconosce che “le bande (ENS e jihadisti vari nda) hanno intesificato le aggressioni su tutti i fronti”. Oltre a quello di Manbij “da Toğar fino a quelli di Ewn Dadat, Arab Hasan (come Manbij, nel governatorato di Aleppo nda), Erima (ugualmente nel governatorato di Aleppo, distretto di al-Bab nda)”.

    In questi ultimi giorni, alcuni gruppi con veicoli blindati – e con l’appoggio aereo dello Stato turco – avevano tentato di entrare nella città da sud. Ma presto cadevano in un’imboscate delle milizie curde. Intanto alcune cellule, in precedenza già infiltrate in città, si attivavano per “seminare paura e caos tra la popolazione”. Poi gli scontri, definiti “molto violenti”, proseguivano anche nella giornata dell’8 dicembre. Con maggiore intensità in corrispondenza dei punti di accesso alla città.

    Altri attacchi delle bande ausiliarie di Ankara vengono segnalati nel distretto di al-Bab contro il villaggio di Erima. Incontrando tuttavia la resistenza del Consiglio militare di Bab e delle milizie di Jabhat Al Akrad (in curdo Eniya Kurdan).

    Il messaggio si conclude ricordando le migliaia di membri del Consiglio militare di Manbij caduti in difesa della città combattendo contro i terroristi di vario genere, ordine e grado che infestavano e infestano i territori a ovest dell’Eufrate: “Sempre spalla a spalla con il popolo di Manbij, ieri contro l’Isis, oggi contro le bande”.

    Gianni Sartori

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