Sofia e Daniel, Aisha e Tarteel: la “meglio gioventù” di Israele ha i modi gentili e l’eloquio assertivo di questi quattro ventenni che lavorano insieme per la pace in un gruppo israelo-palestinese e sostengono di credere fermamente nel dialogo e nella nonviolenza. In questi giorni sono arrivati in Italia portando una ventata di speranza sul futuro del Medio Oriente, usando parole che oggi sembrano sempre più desuete: obiezione di coscienza, nonviolenza, educazione alla pace, tolleranza, solidarietà. Concetti che loro stessi hanno messo in pratica pagando di persona il prezzo di scelte coraggiose e controcorrente.
Sofia Orr e Daniel Mizrahi vengono da Israele, sono obiettori di coscienza che hanno rifiutato il servizio militare e per questo sono reduci dal carcere. Fanno parte di Mesarvot (“Noi rifiutiamo”), una rete di giovani attivisti e obiettori israeliani che sostengono i diritti umani e politici dei palestinesi e degli israeliani. Tarteel Yasser Al Junaidi e Aisha Amer sono invece due attiviste nonviolente palestinesi di Community Peacemaker Teams, un’associazione che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione.
Sofia e Daniel, Aisha e Tarteel hanno girato l’Italia in questi giorni chiedendo la fine del massacro a Gaza, un accordo sugli ostaggi, la fine della guerra in Medioriente e il raggiungimento di una soluzione diplomatica. “La spirale che ci sta portando al terzo conflitto mondiale può essere spezzata. L’obiezione di coscienza è l’unica alternativa alla violenza cieca dell’esercito e dei gruppi armati che a Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Israele stanno seminando odio e vendetta impedendo la costruzione di una società davvero democratica e inclusiva”, spiega Sofia davanti a una sala piena di giovani a Firenze. Accanto a lei siedono Daniel, Aisha e Tarteel, tutti a volto scoperto. Uno dopo l’altro si alternano al microfono spiegando al pubblico le motivazioni della loro scelta. Ospiti del Movimento Nonviolento italiano, i quattro testimoni di pace hanno preso parte a un tour di dieci giorni, da Milano a Bari passando anche per Marzabotto, con una serie di iniziative volte a far conoscere all’opinione pubblica italiana i volti e la voce di chi, dentro alla follia della guerra, già realizza progetti di pace, a partire dal rifiuto della violenza e delle armi. Giovedì 24 ottobre, dopo un’audizione alla Comitato permanente sui Diritti Umani nel mondo, sono stati alla Camera dei Deputati a un incontro con i parlamentari dell’Intergruppo per la pace tra la Palestina e Israele e i rappresentanti della Rete italiana Pace e Disarmo.
Sophia Orr ha appena 19 anni e nel febbraio scorso, dopo aver rifiutato di arruolarsi per il servizio militare obbligatorio nelle forze armate israeliane, è stata rinchiusa per 85 giorni nel carcere militare di Tel Aviv. Qualche settimana prima del feroce attacco di Hamas del 7 ottobre era stata tra i 230 adolescenti israeliani che avevano firmato una lettera aperta annunciando la loro intenzione di rifiutare l’arruolamento come parte di una più ampia protesta contro i tentativi del governo Netanyahu di limitare il potere della magistratura. Quei giovani avevano dichiarato che non si sarebbero arruolati nell’esercito “finché la democrazia non sarà garantita a tutti coloro che vivono all’interno della giurisdizione del governo israeliano”. I pogrom del 7 ottobre non hanno cambiato la prospettiva di Sofia, che nonostante la giovanissima età è mossa da una convinzione granitica nei propri ideali. “Avevo circa quindici anni quando ho iniziato a chiedermi chi avrei servito nel mio esercito. Ho capito che se mi fossi arruolata avrei preso parte a un ciclo di violenza interminabile e ho deciso che avrei fatto tutto il possibile per resistervi”. Sugli attacchi di Hamas dice: “è chiaro che tutti hanno il diritto di difendersi ma Israele non si sta difendendo perché quella che usa è una forza sproporzionata. Inoltre realizza da anni l’occupazione e l’apartheid, e impone la propria narrativa dei fatti. Lo fa perché ne ha la forza. Ma avrebbe anche la forza per cambiare questa situazione”. Infine lancia un appello tra gli applausi dei presenti: “se la comunità internazionale vuole fermare la guerra deve smettere di mandare armi e aiuti ad Israele. Dovete fare pressione sui vostri governi in tal senso”.
Le fa eco Daniel Mizhrai, 26 anni, che ha scontato 50 giorni di carcere per aver rifiutato la coscrizione nell’esercito israeliano e davanti alla platea fiorentina riassume la sua storia per dimostrare che esiste un’alternativa alla militarizzazione. Racconta che prima amava lo stato di Israele e poteva definirsi a pieno titolo un sionista per educazione familiare e scolastica ma a 18 anni si è trasferito a Gerusalemme per fare l’università e successivamente il servizio militare. Lì ha toccato con mano il conflitto facendo amicizie con i giovani palestinesi, che lo hanno aiutato a mettere in crisi le sue credenze e a rendersi conto di essere dalla parte sbagliata. “Purtroppo – spiega – la società israeliana è sempre più violenta e militarizzata. Dopo il 7 ottobre la situazione è peggiorata ma era molto violenta anche prima: il nostro sistema ci educa fin da bambini a combattere i palestinesi e gli arabi. Lo scorso anno mi sono rifiutato di andare a combattere. Oggi sono felice di aver fatto quella scelta e di non avere le mani sporche di sangue”.
A confermare che in Israele si corrono molti rischi ad esprimere idee diverse dalla linea adottata dal governo sono anche Tarteel Yasser Al Junaidi e Aisha Amer, due attiviste nonviolente palestinesi nate e cresciute in Cisgiordania. Entrambe denunciano le violenze quotidiane che subiscono dai soldati e dai coloni. “A scuola – racconta Aisha – siamo costretti a studiare l’ebraico e a lezione di storia è vietato insegnare o parlare della storia palestinese. Gli insegnanti che provano a farlo vengono arrestati. Di recente una docente universitaria è stata arrestata e poi licenziata dall’ateneo per aver parlato del genocidio in corso a Gaza”.
Mentre nessun governo e nessuna organizzazione internazionale sembra al momento in grado di fermare i massacri, giovani come Sofia, Daniel, Aisha e Tarteel hanno avuto il coraggio di resistere alla logica della violenza, del nemico e dell’odio. Se un giorno il Medio Oriente conoscerà la pace sarà anche merito loro.
ALEPPO IN MANO AI MERCENARI JIHADISTI DI ANKARA
Gianni Sartori
Ha resistito cinque giorni Rusil Mohammed Khalaf alle gravi lesioni riportate per un bombardamento dell’artiglieria turca. La tredicenne è deceduta venerdì 29 settembre nell’ospedale di Aleppo dove era stata trasportata dal suo villaggio, Helîsa (distretto di Fafîn).
Qui, nel bombardamento del 24 novembre, erano rimaste ferite una mezza dozzina di persone, tra cui tre bambini. Un altro dei feriti, un uomo di 44 anni, è ugualmente deceduto dopo il ricovero in ospedale.
Il villaggio dove viveva Rusil sorge circa 20 chilometri a sud-est da Tel Rifat e 15 a nord di Aleppo. Fa parte del cantone di Afrin-Shehba amministrato dall’AANES (Amministrazione autonoma del Nord e dell’est della Siria). Qui, dopo l’invasione turca del 2018, si sono rifugiate migliaia di persone. Finora una sorta di enclave di interposizione (difficile definirla “zona smilitarizzata”, meglio no man’s land) tra i territori controllati dal regime di Damasco e quelli occupati da Ankara e dai suoi mercenari. Comunque obiettivo costante di bombardamenti.
Nel frattempo, da venerdì 29 novembre, le bande armate di Hayat Tahrir al-Sham e altre fazioni islamiste cominciavano ad entrare in Aleppo. Completando un’operazione contro l’esercito di Damasco avviata il 26 novembre e divenuta incalzante, irrefrenabile nella notte del 27 (utilizzando anche l’abituale metodo dell’auto-bomba contro i posti di blocco governativi). Incontrando scarsa resistenza da parte dei militari siriani (si è parlato di trattative accomodanti) e determinando l’evacuazione degli abitanti da alcuni quartieri.
Stando a quanto viene riportato da fonti curde “molte persone che vivono nelle zone di Aleppo finora controllate dal regime di Damasco si rifugiano nei quartieri di Şêxmeqsud e Eşrefiyê gestiti dall’AANES” e sotto la protezione delle Forze Democratiche Siriane (Hêzên Sûriya Demokratîk). Alcune associazioni di autisti si si stanno prodigando inviando decine di autobus per consentire ai cittadini di Aleppo di spostarsi in aree più sicure. Così come altri mezzi sono stati inviati a Raqqa. L’operazione umanitaria si svolge con la collaborazione dell’AANES e una ventina di autobus sarebbero già partiti da Aleppo portando in salvo gruppi di studenti.
Il 30 novembre comunque la notizia è diventata ufficiale (v. i comunicati di ANHA News). Gran parte di Aleppo si trova ormai sotto il controllo di Hayat Tahrir Al Sham. In particolare: Bustan El Qesir, Kelasê, Ferdos, Qesîle, la cittadella di Aleppo e dintorni, i quartieri di Cemîliye, Bustan Zehara, Selahedîn, Heleb El Cedîde, El Feyd, parte dei distretti di Rashidîn, Ramûsa, Hemdaniye, Pîşesazi, Mîrîdiyane di Bab Neyreb. Probabilmente anche i quartieri di Eziziye e Suryan.
Stando alle immagini fin qui diffuse, i mercenari sembrano ostentare anche simboli dell’Isis.In un comunicato delle Forze Democratiche Siriane si avverte che “gli attacchi contro la regione del nord e dell’est della Siria sono penetrati in profondità”. Aggiungendo che la cosa era altamente prevedibile in quanto i preparativi erano in corso da tempo. Intanto una ventina di civili hanno perso la vita (molti di più i feriti) a causa di un bombardamento. Gli aerei – forse russi – avevano colpito la folla assiepata nei pressi della rotatoria di Al-Basil. Complessivamente le vittime (tra civili e combattenti) dei primi quattro giorni di questa operazione militare tra Idlib e Aleppo sarebbero almeno 327.
E pensare che è almeno dal 2018 (assalto a Afrin) che le bande jihadiste ex (ex ? mah?!?) Al-Qaida imperversano, ammazzano, saccheggiano, stuprano…sotto la supervisione di Ankara che nei territori da cui i curdi son dovuto fuggire costruisce insediamenti. Per poi due anni fa riprendere alla grande gli attacchi sia sul terreno che dal cielo (aviazione turca ovviamente).
Ma nessuno diceva niente, forse per non disturbare Erdogan…
Non so se ora la situazione gli sia sfuggita di mano e i tagliagole fascio-islamici si muovano autonomamente.
Oppure, semplicemente, per Erdogan sia arrivato il momento di regolare i conti con i curdi una volta per tutte…
Vedremo…
Ma chi sono i miliziani di Hayat Tahrir al-Sham?
HTS è una formazione jihadista (classificata come terrorista dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu) che da qualche tempo controlla la regione di Idlib (nord-est della Siria). E’ composta da vari gruppi islamisti tra cui l’ex (ex ?) Al Qaeda Nusra (ribattezzata nel 2016 Fateh al-Sham). La sua influenza – con la tacita approvazione della Turchia – si va estendendo in buona parte del nord della Siria mentre contemporaneamente tenta di riciclarsi con un’immagine pubblica meno repulsiva (ma stando alle informazioni fin qui circolate a Idlib vige un regime teocratico totalitario). Tra l’altro uno dei responsabili del mancato attentato di Monaco era legato a HTS.
Gianni Sartori
ESCALATION MILITARE E CRISI UMANITARIA NEL NORD DELLA SIRIA, MA PER ORA I CURDI RESISTONO
Gianni Sartori
Com’era prevedibile l’unica resistenza valida all’attacco portato dall’alleanza turco-jihadista nel nord della Siria è stata finora quella delle Forze democratiche siriane (SDF, formate da combattenti curdi e dai loro alleati arabi). Il 30 novembre sul fronte di Al Bab (provincia di Aleppo) si sono registrati combattimenti tra le SDF e i mercenari filo-turchi del soidisant Esercito nazionale siriano (SNA). Gli scontri si sarebbero svolti (condizionale d’obbligo in quanto le notizie sono per forza di cose frammentarie; non si hanno dati certi nemmeno sul numero dei caduti) nella zona di Tedef. Dopo che in questa area si era creato un “vuoto di potere” per la ritirata delle truppe governative di Damasco, gli ascari di SNA avevano tentato di procedere nella loro avanzata.
Stando a quanto diffuso dall’agenzia ANHA, le unità di SNA avrebbero dovuto ritirarsi di fronte alla risposta delle SDF.
Altre fonti riferiscono di bombardamenti russi contro le postazione jihadiste. Nel corso di tali attacchi una base jihadista che sorgeva in prossimità di una serie di silos contenti grano, sarebbe stata distrutta (ma preservando i silos e il loro prezioso contenuto).
Qui la Turchia negli anni scorsi (agosto 2016) aveva avviato l’operazione “Scudo dell’Eufrate”. Ufficialmente per combattere l’Isis, ma in realtà per approfittare della vittoria imminente delle SDF contro lo Stato islamico (ormai in ritirata). Non a caso l’intervento turco seguiva di poco la liberazione di Manbij operata dalle milizie curdo-arabe.
Nel frattempo (1 dicembre 2024) arrivano notizie di operazioni dell’aviazione turca i cui caccia stanno sorvolando il distretto di Til Temir (cantone di Cizîr, nord-est della Siria). Gli aerei turchi si sono alzati in volo dopo una serie di bombardamenti dell’artiglieria turca contro i villaggi locali. Segnale inequivocabile che l’invasione delle milizie jiadiste non è soltanto “tollerata”, ma supportata dall’esercito di Ankara.
Nonostante le rassicuranti dichiarazioni di molti esponenti politici (anche nostrani), ormai si assiste impotenti all’intensificazione dei combattimenti e al fatale deterioramento della vita quotidiana delle popolazioni. Tra l’incudine dell’invasione e il martello dei bombardamenti.
Vittime, come sempre, soprattutto tra i civili. Nella regione di Aleppo anhe oggi (1 dicembre) almeno quattro persone (tra cui due bambini rispettivamente di 2 e 3 anni) sono rimasti ferite mentre rientravano nel loro villaggio (Nairbiyeh) da Haidariya.
Contemporaneamente anche la città di Tal Tamr (cantone di Al-Jazira) veniva sottoposta a estenuanti bombardamenti da parte dell’esercito turco. Tra i villaggi maggiormente colpiti, Al-Tawila e Qabur al-Qaraqna. Pare che non vi siano vittime, ma solo gravi danni materiali (tra cui una centrale elettrica).
Durissimi combattimenti si stanno svolgendo nelle campagne di Afrin tra le Hêzên Rizgariya Efrînê (HRE, Forze di Liberazione di Afrin) e i mercenari filo-turchi che tentano di infiltrarsi con l’appoggio del’artiglieria che colpisce sia le infrastrutture che le aree abitate. Ma le bande jihadiste rimangono bloccate dalla strenua resistenza curda. Nessuna meraviglia del resto. E’ dal 2018 (con l’operazione turca ironicamente denominata ”ramoscello d’ulivo”) che – per quanto “occupata, rastrellata, passata per le armi…” – Afrin combatte e non si arrende.
Purtroppo è sulla popolazione civile che le conseguenze pesano inesorabilmente. Rendendo sempre più incerte, precarie le condizioni di vita in un contesto già fragile.
Oltre all’incremento esponenziale degli sfollati (profughi interni), alla penuria alimentare e alla pressoché generalizzata mancanza di servizi sanitari, va considerato che l’inacessibilità di molte aree rende assai poblematici gli indispensabili interventi umanitari.
Altri scontri tra curdi e jihadisti si registrano nel cantone di Şehba (villaggi di Şewarqa e di Malikiyê), mentre i bombardamenti turchi avrebbero colpito (sempre condizionale d’obbligo in questa fase incerta e convulsa) anche Şewarqa, Merenaz, Kiştiar e Tetmeraş.
Le postazioni jihadiste vengono a loro volta colpite dall’aviazione russa, sia nella regione di Aleppo (almeno tre morti tra le milizie filo-turche nei quartieri di Rausa e Kirêdiya) che di Idlib.
Quanto a Damasco, starebbe rafforzando le difese militari della città di Hama posizionandosi sul monte Zên El Abidin (anche se per ora non vi sono segnali di una imminente controffensiva governativa).
Preoccupazioni per la sorte della popolazione civile sono state espresse sia dal segretario generale della Lega Araba, Ahmed Abu Al Xeyt, sia dagli Stati Uniti. Anche se è lecito dubitare della buona fede di Sean Savett (porta-voce del Consiglio nazionale di sicurezza). Il quale oltretutto attribuisce – fantasiosamente – la responsabilità di quanto sta avvenendo alla “intransigenza di Damasco” (e non alla Turchia, membro della Nato).
Quanto agli appelli per un cessate-il-fuoco immediato, si ha la netta impressione che rimarranno inascoltati a lungo.
Gianni Sartori